Introduzione a cura di Gennaro Dileo
Report a cura di Gennaro Dileo e Maurizio “MoRRiZz” Borghi
Foto di Barbara Francone (Roadrunner Records – www.roadrunnerrecords.it)
Il quarto e ultimo giorno di questa monumentale manifestazione è sicuramente quello che desta più curiosità, in quanto sono in molti a chiedersi se i Guns ‘N’ Roses annulleranno la loro esibizione o se finalmente torneranno a farsi acclamare come regali superstar dai numerosi fan che li attendono con un filo di incorruttibile speranza da troppi anni. Korn, Deftones e Alice In Chains sono i gruppi che rappresentano l’ala più alternativa della manifestazione e, soprattutto, avremo modo di vedere se William Duvall riuscirà a non far rimpiangere l’operato del mitico Layne Staley. Nel corso della giornata sarà divertente notare il pubblico diviso tra rocker attempati con bandiere e striscioni dei Guns ‘N’ Roses e il cosiddetto popolo “alternativo” ricoperto di piercing & tattoo in attesa e pronto a farsi investire dalle sfuriate isteriche di Jonathan Davis e delle trame oscure e cervellotiche dei Deftones di Chino Moreno. Inoltre, ci attendiamo molto sia dai Soulfly che dagli Stone Sour, due band che sul palco hanno sempre dimostrato il proprio valore, mentre desta curiosità l’inserimento nel bill dei Benedictum e dei Dragonforce, decisamente fuori contesto, ma che potrebbero rivelarsi delle piacevoli sorprese. In tutto questo meltin’ pot ne vedremo sicuramente delle belle… Intanto ci scusiamo con i 10 Years e i loro fan, ma siamo stati impossibilitati a seguire la loro esibizione, peraltro davvero breve.
BENEDICTUM
Ci pensano i ragazzi di San Diego a scaldare la platea come si deve alle dieci del mattino con il loro poderoso heavy metal che ricorda non poco i Black Sabbath dell’era Dio. Potenti, affiatati e vogliosi di emergere, sputano in faccia al pubblico alcuni brani dell’acclamato debut-album, che ha raccolto ampi consensi dal pubblico e dalla critica europea. Ottima la presenza scenica dello scatenato bassista Jesse impegnato a correre come un indemoniato da una parte all’altra del palco e del mastodontico chitarrista nero Pete Wells, con il sorriso sempre stampato sulle labbra, mentre la cantante Veronica, dal punto di vista squisitamente scenico, è apparsa a tratti impacciata e comprensibilmente emozionata, facendo comunque esplodere le sue potenti corde vocali su brani come “Uncreation”, “N#4”, “Benedictum” e “Mysogin”. Inoltre, segnaliamo la presenza alle backing vocals dell’italianissimo Tito degli Ottava Strada, ragazzo che si è dimostrato assolutamente a proprio agio sul palco e che con la sua voce aggressiva ha dato maggior corpo alle strofe cantate in coppia con Veronica. Sorprendenti.
HELLFUELED
Giustamente lodati in sede di recensione da parte dei colleghi, questi ragazzoni svedesi hanno superato la prova del nove dimostrando che hanno tutte le carte in regola per mutare da ottimi gregari a nuove stelle dell’heavy metal. Guidati dal carismatico Andy Alkman – degno erede di Ozzy Osbourne – il quartetto svedese ha mostrato gli artigli per una mezz’ora abbondante divertendosi e trascinando il pubblico con il suo massiccio hard rock di matrice squisitamente sabbathiana, supportato dal notevole chitarrismo di Jocke Lundgren, molto abile ad alternare con gusto e semplicità rocciose ritmiche e assoli al vetriolo. Tosti e gradevoli come un’ottima birra doppio malto!
DRAGONFORCE
E questi cosa ci fanno qui? Ma non era il sabato la giornata power-metal? Poco male, anche perché col Sole allo zenith c’è bisogno di qualcuno che possa attirare l’attenzione del pubblico più alternativo (e anche numeroso) delle quattro giornate del Gods. I Dragonforce sono amati e odiati, ma difficilmente si può contestare l’esibizione live di un quintetto piacevolissimo che eleva a stato di arte il suonare speed power: non sbagliano una virgola nei minuti a loro disposizione, sparando assoli fulminei, parti vocali acutissime, tastiere da videogame e una doppia cassa perenne. La sintesi del cliché, ma non è questo il vero power metal? Divertenti.
BLOODSIMPLE
Da New York e dalle ceneri dei grandi Vision Of Disorder, ecco arrivare i Bloodsimple, che riallineano i presenti alle sonorità moderne della calda domenica all’Idroscalo. Non distante dal suono della band da cui deriva, il gruppo dal vivo soffre degli stessi indigeribili difetti che hanno fatto storcere il naso a chi ha ascoltato il debutto “A Cruel World”: se le partiture hardcore sono di discreta fattura ma poco originali, gli imbastardimenti melodici (che vorrebbero essere à la Alice In Chains) azzoppano tutto il groove che si è tentato di costruire. Anche sul palco il gruppo non si fa notare più di tanto, facendo presagire la prematura scomparsa della formazione. Tempo per bersi una costosissima birretta.
SOULFLY
Il combo carioca ritorna nuovamente in Italia dopo qualche mese, consapevole di avere alle spalle una manciata di dischi davvero validi ed un pubblico fedele sempre pronto a sostenerlo. Sostanzialmente, la scaletta è simile a quella proposta nella data di Milano e così le bordate groovy e dirette di “Babylon” e “Prophecy” scaldano a dovere i fan impegnati a pogare incessantemente o a fare stage diving. “Frontline” e “Arise Again” rappresentano al meglio il lato più crudo e brutale di “Dark Ages”, mentre dal passato spiccano la violenta “Back To The Primitive” e “Jumpdafuckup”. I Sepultura vengono omaggiati con “Roots Bloody Roots” e “Refuse/Resist”, mentre nell’urticante “Bleed” Richie Cavalera sale sul palco come ospite, dimostrandosi un abile intrattenitore e un buon cantante. Inoltre, ci preme segnalare un episodio decisamente simpatico, nel quale Max Cavalera è stato il protagonista. In sede di intervista (a breve sulle nostre pagine) mi è stato chiesto un sinonimo in italiano della frase “You’re cool”… Come risposta, gli ho scritto su un foglio di carta “voi ci state tutti dentro”. Inutile dire che il buon Max, a metà concerto, ha urlato a squarciagola questa frase, scatenando una serie di applausi tra il pubblico. Non solo gli album innalzano a leggende certi personaggi, ma anche l’umilità e la consapevolezza di regalare emozioni e musica di qualità, evolvendosi disco dopo disco ma rimanendo fedeli all’idea di base del progetto. Coerenza.
STONE SOUR
Si comincia a fare sul serio con gli Stone Sour, una band da molti considerata solo un side-project dei più famosi Slipknot, ma che si dimostra totalmente diversa e sorprendentemente piacevole. Inutile sottolineare come l’interesse generale sia focalizzato sul biondissimo Corey Taylor smascherato, oltre che verso il fidanzatino della bella Cristina Scabbia, James Root. I più attenti notano come dietro alle pelli si sieda per la prima volta l’oramai noto Roy Mayorga (da Sepultura, Soulfly, Medication e mille altri), preciso e potente come al solito e, dal comeback “Come What(ever) May”, membro fisso della cricca. Come al solito Corey è spettacolare nel conquistare il pubblico con la sua voce versatile e potente, donando smalto ulteriore a una formazione che ha davvero poco a che fare con gli Slipknot: pure essendo moderni e catchy, gli Stone Sour si muovono su terreni più melodici e su strutture più canoniche, riuscendo in qualunque caso ad essere interessanti sia sul palco che in studio (e lo dimostra la nomination ai Grammy Awards). Il nuovo singolo “30/30 – 150” prende bene il pubblico arroventato, che decide di partecipare agli incitamenti del buon Taylor dimostrando di apprezzare il rock pesante della onesta formazione statunitense.
ALICE IN CHAINS
Finalmente arriva il turno della storica band di Seattle e, come ci si aspettava, l’attenzione del pubblico è prettamente focalizzata sul nuovo cantante William Duvall, sorta di Lenny Kravitz invecchiato e dall’aspetto decisamente poco sensuale. Le ipnotiche e pachidermiche note di “Sludge Factory” aprono le danze, accolte da calorosi applausi da parte dei die hard fan presenti. La voce di Duvall è praticamente identica a quella del rimpianto Staley, ma purtroppo come frontman e intrattenitore lascia alquanto a desiderare. Le storiche “Would?”, “Rain When I Die”, “Junkhead”, “Down In The Hole” e “Again” sono state snocciolate con buona perizia tecnica ed altrettanto mestiere, dettate dal chitarrismo di Cantrell sempre aggressivo e puntuale. L’emozione di ascoltare “Man In The Box” dal vivo è unica, con Duvall capace di rubare le corde vocali del buon Staley, ma non la sua anima tossica e malata. A questo punto, terminato il concerto tra applausi, lanci di plettri e copiosi saluti, ci chiediamo se ha ancora senso continuare a tenere in vita questo ingombrante nome senza il suo personaggio principale…
DEFTONES
In moltissimi sono in attesa dei co-headliner Korn e Deftones, che guideranno il Family Values di quest’anno, famoso tour eterogeneo che dopo anni torna a girare l’America, facendo tappa in Italia con i nomi grossi della sua formazione. Tocca dunque ai Deftones che, seppellita l’ascia di guerra con i rivali Korn (se mai vera guerra c’è mai stata, poi), tornano sui palchi di tutto il mondo dopo la pausa intimista del frontman Chino Moreno e dei suoi Team Sleep. Fisicamente il gruppo ha tentato di rimettersi in riga, tutti gli elementi infatti si sono tonificati e sono dimagriti dopo gli eccessi alimentari della loro ultima omonima uscita, tentando pure di tornare al dinamismo e alla fisicità del loro debutto – ahinoi, con risultati veramente scarsi, purtroppo. Se già su disco le litanie di Chino erano tragicamente fastidiose e paurosamente noiose, dal vivo il peso degli anni che passano, oltre alla scarsa preparazione fisica, danno i risultati che tutti i fan presenti temevano nei loro incubi: il peggior concerto della formazione che il suolo italico abbia mai visto (e chi scrive lo può giudicare con cognizione di causa visto che ha assistito a tutte le date italiane del gruppo). Il ritmo dei vecchi pezzi, tratti dai capolavori “Adrenaline” e “Around The Fur”, viene rallentato e le parti melodiche dilatate; se si aggiungono le ultime tedianti composizioni e alcune imperfezioni del frontman davvero grossolane, che il pubblico riesce a notare nonostante la voce di Chino sia pesantissimamente effettata, ci si rende conto di come la prestazione peggiore della giornata sia sicuramente quella dei ragazzi di Sacramento. Durante il cavallo di battaglia “Headup” il gruppo si ferma e tutti incrociano le dita pregando di vedere spuntare Max Cavalera a dare una bella svegliata all’audience, ma anche questo piacere viene negato. Una gran delusione.
KORN
I papà del nu metal si presentano sul palco dell’Idroscalo pronti a riconquistare il trono dopo gli ultimi album non propriamente irresistibili, ai quali è seguito un lento ma inesorabile disinteresse da parte del grande pubblico. Grazie al cielo Davis, Munky, Fieldy e Wally Balljacker, più il nuovo chitarrista Rob Patterson e tre ospiti mascherati da coniglio, maiale e cavallo, ci regalano uno spettacolo coinvolgente e di primissima qualità. Supportati da un suono potente e limpido, i nostri attaccano la spina con la bellissima “It’s On” e subito la folla si scatena, cantando e saltando come ossessa, seguita a ruota dalla spinta “Falling Away From Me” e dal medley composto dalle celebri “Shoots And Ladders” / “Need To” / “Lies” / “Make Me Bad” / “Thoughtless” / “A.D.I.D.A.S.” / “Twist”. Da “See You On The Other Side” vengono eseguite l’hit single “Twisted Transistor”, “Coming Undone” e “Love Song”, mentre l’anthem “Freak On A Leash” e la storica “Blind” scatenano un massiccio pogo ponendo fine al concerto di una band che forse non ha più nulla da dire di concreto in studio, ma che dal vivo rimane un’oliata e indistruttibile macchina da guerra. Anche perché loro tengono a farci sapere che sono qui per restare!
GUNS N’ ROSES
E’ arrivato il momento di goderci la band più chiacchierata degli ultimi dieci anni, che si è lasciata desiderare fino al punto di diventare una sorta di oggetto del desiderio non identificato. Rocker più o meno attempati, alternativi, famiglie per bene con rispettivi figli poco più che adolescenti, metallari e chi più ne ha più ne metta, sono tutti ammassati in attesa che inizi il grande evento. Sono da poco passate le 22.40 quando il riff di “Welcome To The Jungle” echeggia dalle enormi casse poste ai lati del palco, seguito da una violenta esplosione pirotecnica che accoglie la band sul palco e, tra il pubblico, abbiamo modo di assistere a scene che difficilmente avranno ancora luogo ad un concerto rock. Gente in delirio, grida isteriche, cori da stadio, pianti, bandiere e manifesti sventolati con fierezza, sono concrete testimonianze che l’amore per la street metal band più famosa del mondo non è mai sopito. Non mancavano nemmeno gli idioti che insultavano ripetutamente i chitarristi sul palco con urla del tipo “vogliamo Slash, tornatevene a casa!”. Dal masterpiece “Appetite For Destruction”, vengono ripescate “It’s So Easy”, “Out To Get Me” “Rocket Queen”, “Sweet Child O’Mine” e “Mr.Brownstone”. Il buon Axl si presenta leggermente sovrappeso, vestito con giacca elegante, jeans e scarpe sobrie ed involontariamente ha giocato un brutto scherzo ai numerosi cloni sparsi tra il pubblico che hanno scelto di imitarlo in tutto e per tutto come era quindici anni fa. La sua ugola è in discreta forma, anche se dopo ogni due o tre pezzi ha manifestato una forte carenza di ossigeno lasciando esibire i musicisti in lunghi assoli ed improvvisazioni. Tra i tre chitarristi presenti il misconosciuto Ron Thal si è guadagnato la stima di chi scrive, grazie ai suoi impressionanti numeri sulle sei corde che non hanno nulla da invidiare ai vari Bettencourt, Satriani e Vai. Le ballad “Knocking On Heaven’s Door” e “November Rain” vengono intonate da un pubblico mai domo, e peccato che la struggente “Don’t Cry” sia stata eseguita esclusivamente dal barbuto chitarrista Robin Finck. Inoltre, ha fatto discutere l’esecuzione chitarristica di “Beautiful” di Christina Aguilera, bellissima canzone per carità, ma decisamente fuori contesto e di dubbio gusto in una manifestazione simile. Graditissima sorpresa l’entrata sul palco di Sebastian Bach, accolto da un’ovazione dalla frangia metallara del pubblico, fautore di un paio di duetti con Axl, cantando “My Michelle” e “Nighttrain”. Inoltre, abbiamo avuto modo di testare parte del materiale contenuto in “Chinese Democracy” e, di primo acchito, i brani hanno fatto la loro porca figura. “Madagascar”, “IRS” e “The Blues” sono brani dal sapore moderno, mid tempo ricchi di guitar solo e di ottime melodie vocali. “Paradise City” ha il compito di chiudere un concerto durato due ore e mezza tra esplosioni e coriandoli, dimostrando che i Guns’n’Roses non sono più quelli di una volta, ma hanno ancora tantissimo da dire avvolti in una nuova veste. Un forte schiaffo ai detrattori e tutti rientriamo a casa distrutti dalla fatica, ma con un sorriso idiota che ci rende consapevoli di aver assistito ad un evento a dir poco storico. Leggende.