ELDRITCH
Sono le 12:30 e con puntualità svizzera salgono sul palco come da programma i nostrani Eldritch, la band probabilmente più distante, dal punto di vista stilistico, dal trend hard rock della giornata. Il quintetto toscano privilegia come prevedibile i brani estratti dall’ultimo disco “The Blackenday”. L’apertura è affidata al groove di “Why?”, che insieme alla title-track, “The Deep Sleep” e “Silent Flame” destano una buona impressione sia sulla qualità dell’ultimo album che sullo stato di forma dei musicisti. Il connubio progressivo tra melodia delle vocals e ritmiche thrashy sembra il motivo principale che caratterizza le canzoni di “The Blackenday”, a differenza del sound panterizzato che aveva caratterizzato “Reverse”, qui rappresentato con una versione scintillante della title-track. La band dimostra un’ottima coesione e, aiutata da una resa sonora già di qualità, appare disinvolta e divertita, tanto da improvvisare nel finale una versione metallizzata e accelerata (anche per motivi di tempo), del classico targato Faith No More “From Here To Nowhere”.
TIGERTAILZ
Inseriti perfettamente in questa giornata dedicata al trionfo del rock’n’roll sound made in 80s per antonomasia, i Tigertailz si rivelano, nel bene e nel male, i primi ‘attesi’ protagonisti della giornata: il combo inglese, infatti, non assuefatto a frequenti calate italiche, doveva essere atteso da un gruppetto piuttosto ingente di fan. Stupisce, per questo, la tutto sommato fredda accoglienza riservata a Kim Hooker e soci; complice della cosa, probabilmente, la prestazione non esaltante della band che, unita ad un suono piuttosto fiacco e non all’altezza, non riesce a coinvolgere nel modo che ci si aspettava i presenti, e si rialza solo grazie a classici come “Call Of The Wild” e “Love Bomb Baby”, apprezzatissime e cantate con entusiasmo dai (pochi!) ammiratori della band. Un concerto in definitiva non certo disastroso ma non all’altezza del gruppo di punta del glam metal britannico, che non riesce ancora a rendere dal vivo come su disco; così come da rivedere è anche l’impatto scenico della band, alla quale, ormai, dopo quasi trent’anni sulle scene e troppe candeline alle spalle, non guasterebbe certo un aspetto più sobrio.
WHITE LION
Non erano pochi (sottoscritto compreso!) ad aspettare al varco della prova dal vivo i ‘nuovi’ White Lion, costruiti sapientemente dal buon Mike Tramp, ormai unico reduce (e sebbene fossero circolate di recente voci su un’ipotetica reunion con Vito Bratta, sembra che tale progetto, purtroppo, sia ben lungi da realizzarsi), con l’ausilio di una line-up completamente nuova di zecca. Per la prima volta in un festival italiano, la band, pur non peccando eccessivamente in negativo, dimostra inevitabilmente tutti i suoi limiti nel confronto con la formazione originale: se Troy Farrell dietro le pelli regge il confronto, infatti, è chiaramente avvertibile la mancanza dell’inconfondibile sound della chitarra di Vito Bratta, ed anche il bassman della nuova formazione non riesce a doppiare egregiamente il suono pulsante del basso del mai dimenticato James Lomenzo. Anche la voce di Tramp, purtroppo, non è più quella di una volta: e così più volte troviamo il singer americano impegnato nell’adattare parti che oggi risulterebbero troppo impegnative da cantare per lui. Nonostante tutto ciò, il concerto si rivela comunque sufficiente, forse grazie anche all’incredibile presenza scenica del gruppo (con un Tramp in piena forma, se non vocale, almeno fisica, che saltella qua e là come ai vecchi tempi) ed ai suoni che, anche se non perfetti, si rivelano nettamente migliori rispetto a quelli dei Tigertailz. Ed ecco, per la commozione del sottoscritto e di tutti i presenti, susseguirsi classici ormai immortali (nonostante la loro relativa celebrità) come l’incredibile “Hungry”, la celeberrima “Little Fighter”, la vecchia “El Salvador” (una sorpresa per tutti coloro che ignoravano la nuova scaletta del Leone Bianco!); ed ancora, i cori di “Tell Me”, la storica “Lady Of The Valley”, “Wait”, le lacrime di “Broken Heart”, forse il pezzo meglio riuscito oggi alla band, e che non manca mai di trasmettere quelle emozioni che, dopo ventidue anni, ancora ne lasciano inalterato il fascino originale. E si arriva all’arrivederci, affidato al rock della rivisitazione di “Radar Love”, che non manca certo di entusiasmare, con la sua carica energica, gran parte dei rocker accorsi a questa prima giornata del Gods Of Metal. Forse ci si aspettava di più, ma davvero un bentornato ad una delle hard rock band più celebri degli anni ’80: vi aspettavamo in tanti…
THIN LIZZY
Cosa c’era da aspettarsi, in una formazione completamente rinnovata dei Thin Lizzy, comprendente John Sykes nel ruolo di nuovo leader della band, ed una sezione ritmica capitanata da Marco Mendoza e Tommy Alridge? Ovviamente un concerto che fa della professionalità la propria ragion d’essere, ed un doveroso omaggio reso al mai dimenticato Phil Lynott, che resterà sempre nei cuori di tutti i fan del rock vero, d’annata, quello che, a dispetto dei suoi protagonisti, non muore mai e rimane impresso nelle memorie collettive per sempre. Ottimi suoni, esecuzione strumentale perfetta: niente da eccepire sul concerto odierno dei Thin Lizzy, che ci presentano una scaletta stracolma di grandi classici (unica eccezione per “Whiskey In The Jar”) reinterpretati in chiave un po’ più hard dall’intera band, e resa magnificamente dalla calda voce di Sykes che, nonostante sembri incredibile dirlo, sembra davvero non far rimpiangere la magica ugola di Phil. Tante le emozioni scatenate sin dall’iniziale e carica “Jailbreak”, che salgono in crescendo con le melodie di “Waiting For An Alibi”, “Don’t Believe a Word” e la classicissima “Cold Sweat”, per toccare uno degli apici nella successiva “Bad Reputation” (durante la quale Alridge si esibisce nell’immancabile solo-set) e nella suadente e romantica “Cowboy Song”. Nonostante la pioggia che scende fitta dal plumbeo cielo milanese di oggi, non sono pochi coloro che rimangono sotto il palco fino alla fine; scelta premiata dalla micidiale accoppiata composta da “The Boys Are Back In Town” e “Black Rose”, che sanciscono, tra gli applausi, l’immortalità della band di Lynott, che riesce ancora oggi a coinvolgere, con le sue canzoni, ben più di una generazione. Eterni.
SCORPIONS
Nonostante la delusione del sottoscritto, che avrebbe voluto la band sicuramente più avanti in scaletta (anche headliner a dispetto dei già celebrati Motley Crue), gli Scorpions si rivelano non solo il gruppo più atteso di questo 2 giugno, ma anche i protagonisti indiscussi della giornata, con tutto il rispetto per i Velvet Revolver e i ben più celebri glamster americani. Suoni perfetti, classe sopraffina, ed un Klaus Meine ed un Rudolf Shenker che mai avremmo immaginato in forma più smagliante (e per quanto riguarda il secondo, non parliamo solo di esecuzione tecnica ma anche di look, con tanto di chitarre personalizzate… chi c’era sa cosa intendiamo!). Sciorinato sul pubblico il necessario tributo al nuovo album “Humanity” – sicuramente una delle migliori prove che possiamo annoverare nella produzione recente della band – durante il quale Klaus scalda a dovere le proprie corde vocali, possiamo finalmente assistere allo spettacolo di un’altra band per la quale il tempo non sembra passato, e che con la sua classe davvero sopraffina riesce a divertire ed emozionare oggi come vent’anni fa. “Bad Boys Running Wild”, “Big City Nights”, le suadenti melodie di “Holyday”, la carica di “Dynamite”: tutti validissimi motivi che fanno letteralmente impazzire un pubblico in visibilio (non saranno in pochi, dopo l’esibizione della band, a lasciare la cornice dell’Idroscalo ritenendosi già ampiamente soddisfatti dello spettacolo visto oggi!), facendo salire la carica emotiva dei presenti alle stelle. E tra un pezzo e l’altro del neonato “Humanity” (tra i quali ci sentiamo di attribuire una menzione particolare alla stupenda titletrack) la band ci accompagna in un altro mondo, grazie all’atmosfera unica generata dalle note immortali di song come “The Zoo” e “Tease Me Please Me”. Ed inevitabile doveva essere il bis, generando nei presenti qualcosa di molto simile ad un intenso orgasmo musicale sulle emblematiche dichiarazioni del frontman della band teutonica (‘Still loving you Milano!’, ‘We won’t go until we rock you like a hurricane!’) che, accompagnandosi alle due ultime chicche della giornata, chiudono trionfalmente lo show di una delle più grandi (e forse, visto anche l’orario dell’esibizione, sottovalutate) rock band di tutti i tempi. Indimenticabili.
VELVET REVOLVER
I Velvet Revolver approfittano di un momentaneo rasserenamento climatico per irrompere sul palco poco prima delle 19:30, l’entusiasmo del pubblico è alle stelle soprattutto nei confronti del carismatico chitarrista Slash che si presenta in forma smagliante con il classico look comprensivo di cilindro, jeans attillati e bandana penzolante che l’ha reso famoso nei Guns. Il singer Scott Weiland non vuol essere da meno e si rivela da subito magnetico con occhiali da sole, cappello da sbirro e pelliccia bianca a rendere il tutto più glamour. L’attacco di “Sucker Train Blues” ci mostra subito l’eccellente resa sonora e l’ottima forma di Slash e soci. Rispetto all’anno precedente infatti, i numerosi concerti hanno aumentato la coesione tra i musicisti, che appare evidente soprattutto nella performance del meno celebre chitarrista Dave Kushner. I migliori episodi dell’esordio “Contaband” vengono riproposti in maniera impeccabile dalla band provocando entusiasmo tra il pubblico, in particolare spiccano l’incendiaria versione di “Do It For The Kids” e la ballata “Fall To Pieces”. Non mancano gli estratti dall’imminente secondo disco “Libertad”, tra cui “Just Sixteen” e “The Last Fight” che, pur lasciando una buona impressione generale, non suscitano grande clamore tra i presenti, mentre di ben altro spessore è il responso della folla nei confronti delle cover di cui la seconda parte del concerto è ricca. “Vaseline” serve ad accontentare i fan degli Stone Temple Pilots (pochi per la verità), mentre “It’s So Easy” e “Mr. Brownstone” mandano in visibilio i numerosissimi Gunners presenti. Precisiamo che l’esecuzione delle song sopra citate è molto vicina all’originale, anzi stupisce l’interpretazione di Weiland, che si destreggia autorevolmente, reinterpretando con personalità canzoni non vicinissime al suo stile vocale. Chiudiamo segnalando la riuscita ed emozionante versione del classico dei Pink Floyd “Wish You Were Here”.
MOTLEY CRUE
Mentre la pioggia si fa inaspettatamente più fitta, il pubblico del Gods Of Metal, incurante delle condizioni atmosferiche, accoglie con il massimo calore gli attesi headliner della serata. Sono quasi le dieci e i quattro ragazzacci di Los Angeles calcano il palco del più celebre festival metal italiano per la seconda volta nel giro di pochi anni. Le note di “Dr. Feelgood” escono pulite dagli amplificatori e la band dà l’impressione di essere in grande spolvero; la parte iniziale dello show non lascia tregua e il pubblico si scatena ballando, saltando e cantando sulle versioni sempreverdi dei classici “Shout At The Devil” e “Wild Side”, in cui ammiriamo un Vince Neil impeccabile. Nella fase centrale vanno ricordate la coinvolgente “Same ‘Ol Situation” e il lentone “Home Sweet Home”, cantato per metà dalla folla, che in questa versione sotto la pioggia acquista ulteriore fascino. Prima dell’ottima “Don’t Go Away Mad”, un’avvenente fanciulla con le tette al vento compare sul palco per porgere la chitarra acustica a Vince Neil, approfittando per inscenare un siparietto erotico con lo stesso singer e con Tommy Lee. Finale di concerto un po’ fiacco con il trio “Girls, Girls Girls”, “Kickstart My Heart” e “Anarchy In The U.K.”, eseguite con buona perizia tecnica ma non coinvolgenti nell’interpretazione come quella a cui i Motley ci avevano abituati. Concerto comunque positivo per Nikki Sixx e soci, sia chiaro, però l’inevitabile confronto con lo show di Bologna nel 2005 fa perdere qualche punto ai Crue a causa di un finale leggermente sottotono, con la parziale scusante di un pubblico visibilmente provato dalle condizioni atmosferiche che hanno inevitabilmente inciso sull’entusiasmo e messo a dura prova schiena e gambe.