Introduzione di Marco Gallarati
Report a cura di Marco Gallarati, Alessandro Corno, Gennaro ‘Dj Jen’ Dileo, Matteo Cereda e Maurizio ‘MorrizZ’ Borghi
Fotografie di Francesco Castaldo e Giacomo Astorri
La seconda giornata del GOM 2010, pur essendosi svolta in un sabato assolato di fine giugno, è quella che in definitiva ha fatto registrare, così a grandi spanne, la minore affluenza della 3-giorni. La marcata disomogeneità del bill – si passa dal death metal epico degli Amon Amarth al progressive-death mediorientale degli Orphaned Land, dal thrash degli Exodus all’hard-rock ‘mostruoso’ dei Lordi – non ha certo favorito la partecipazione del pubblico italiano che, si sa, non trovando dei grossi headliner a chiudere la manifestazione, fa un po’ fatica a muovere il deretano per gustarsi concerti uno all’opposto dell’altro. Giornata quindi trascorsa in una sana tranquillità, con il popolino metallaro a dividersi tra il caldo torrido della zona del pit e il fresco dell’ombra presente tra gli stand gastronomici e quelli delle cianfrusaglie rock-metalloidi. Peccato per questa penuria di gente, in quanto tutto sommato i concerti sono stati tutti (o quasi) di riscontro positivo, con orari rispettati al secondo, suoni nella maggior parte dei casi ottimali (escludendo il mezzo fiasco della presenza dello Stage 2, davvero poca cosa) e prestazioni che hanno denotato grande professionalità ed impegno da parte di tutti i protagonisti, a cominciare dai Lordi, la cui musica può essere certamente di poca sostanza, ma che sanno come rendere grandioso e divertente un concerto…
EX DEO
Marco Gallarati
SADIST
Nessun dubbio: l’esibizione dei Sadist, frequentemente sui palchi a supporto dei big in questa estate 2010, non sarà forse un pozzo di sorprese, ma resta comunque una garanzia. Trevor & Co. sono autori di una performance trascinante e, nonostante il caldo torrido, riescono ad attirare sotto il palco la quasi totalità dei presenti. I genovesi sanno come intrattenere l’audience e sfruttano il vantaggio di essere il più importante gruppo italiano nel cartellone per movimentare il pit arroventato (“Dai raga!!! Grandi!!!” o “In alto il nostro saluto!” riecheggiano puntualmente nell’arena). “Christmas Beat”, “Season In Silence” e la conclusiva “Sometimes They Come Back” sono tra gli highlights dell’esibizione dei maestri del techno-death, che salutano il Gods subito dopo il loro consueto abbraccio conquistando nuovi fans.
Maurizio “MorrizZ” Borghi
KALEDON
Sul palco B destano buone impressioni i Kaledon, band italiana dedita ad un power dalle tinte epiche che su disco ci è parso un po’ scontato, ma che ha saputo coinvolgere i presenti in sede live. Il seguito non è numerosissimo ma la band capitolina ha sfornato ugualmente una prestazione mirabile per impegno ed esecuzione, dimostrando di avere qualità soprattutto nella prestazione del singer Marco Palazzi, autore di una performance di alto livello sia dal punto di vista tecnico che sotto l’aspetto della partecipazione. Nella mezzora scarsa a disposizione, si fa notare l’ottima “Surprise Impact”, ma ad onor del vero le varie canzoni presentate, al di là della scarsa originalità della proposta, vengono ben interpretate fra riff pungenti, doppia cassa tambureggiante e vocals da urlo.
Matteo Cereda
ORPHANED LAND
Arriva il turno degli israeliani Orphaned Land e la superiorità del loro songwriting si manifesta in pieno. Infatti, siamo in meno del solito a seguirli da vicino, segnale evidente di quanto il progressive-death metal del combo asiatico sia per pochi eletti. In tunica bianca e piedi scalzi, Kobi Farhi si presenta on stage guidando la sua formazione attraverso i loro migliori pezzi, tutti tratti dagli ultimi “Mabool” e “The Never Ending Way Of Orwarrior”: “Birth Of The Three”, “Olat Ha’tamid”, “Codeword: Uprising”, “Ocean Land”, “Sapari” e “Nora El Nora” hanno ben rappresentato gli Orphaned Land, seguiti da un pubblico partecipe ma non troppo numeroso – e diciamo pure che, probabilmente per la disomogeneità di generi nel bill di oggi, l’affluenza è minore rispetto alla giornata di ieri, nonostante sia sabato. Ottimi gli israeliani, ma da rivedere in un contesto extra-festival, magari di supporto agli Amorphis il prossimo autunno!
Marco Gallarati
SUBHUMAN
BEHEMOTH
Alle 15.15 calca il palco la furia iconoclasta dei polacchi Behemoth, ed è letteralmente l’Inferno in terra: la temperatura è insopportabile ed inumana, ma i nostri non si risparmiano dal dare oltre il 110%, nonostante il pesante face painting. L’incipit è affidato all’apocalittica “Ov Fire And The Void”, che alza all’unisono i pugni del pubblico, e nell’ora a disposizione viene riproposto solo il meglio, con estratti dalla discografia recente (il salto più ampio nel passato è l’estratto da “Satanica”). In molti dicono che il blackened death metal della formazione guidata da Nergal sia oggi troppo costruito o addirittura plastificato, ma la verità, sotto gli occhi di tutti i presenti, è che poche band possono vantare la qualità, la tenuta di palco, la presa e il magnetismo dei Behemoth, sfoggiato in uno stage curatissimo (le aste sono sculture avvolte da cobra neri, e anche numerosi piatti della batteria di Inferno sono del tutto neri), in costumi inquietanti e in una presenza scenica quasi coreografata per regalare al pubblico uno spettacolo vicino alla perfezione assoluta.
Maurizio “MorrizZ” Borghi
NASHWUAH
Sullo stage 2 è la volta dei milanesi Nashwuah, band che definisce il proprio genere hate-core e a ben ragione, considerati la rabbia ed il vigore che il quartetto vomita sulla scarsa platea. La manciata di pezzi è tutta tratta dall’ultimo disco dei ragazzi, “Kali Yuga’s Tales”, ed è una bordata sonora dall’ottimo impatto, se visto con le dovute limitazioni di palco/contesto/audience. Nulla da eccepire, quindi, sulla breve prestazione dei Nashwuah, piacevole intermezzo dopo la devastazione dei Behemoth e il pezzo di Storia salito or ora sullo stage 1, gli Exodus…
Marco Gallarati
EXODUS
Incomprensibilmente non considerati in quel tanto sbandierato Big Four del thrash americano, gli Exodus salgono sul palco del Gods Of Metal 2010 con l’intento di fare a pezzi le articolazioni dei presenti e dimostrare chi ha dato un contributo fondamentale nel tracciare le coordinate di questo genere. Basta l’apertura con la devastante “The Ballad Of Leonard And Charles”, uno dei brani migliori dell’ultimo “Exhibit B – The Human Condition”, per scaldare un pubblico purtroppo sempre poco numeroso per un Gods Of Metal. L’impatto sonoro è allucinante, con la coppia Holt-Altus a tagliare l’aria con il suo riffing e una sezione ritmica guidata da un Tom Hunting come al solito autore di una prova dal grande tiro. Il pesantissimo Rob Dukes è un grande frontman, abile nel guidare la carica incitando continuamente il pubblico, facendo segno ai ragazzi di pogare e lanciarsi in circle-pit. Le uniche riserve che ci teniamo ancora una volta a sottolineare sono legate alla sua voce: uno scream rabbioso, aggressivo ma piuttosto monocorde. La prima parte dello show prosegue con “Beyond The Pale” e “Iconoclasm”, estratte dalle due nuove produzioni, che l’audience comunque dimostra di conoscere e apprezzare. Il primo salto nel passato arriva con “Lesson In Violence”… di nome e di fatto, visto il marasma che si scatena sotto il palco! Con “Blacklist” e l’acclamatissima “War Is My Shepherd” si passa a “Tempo Of The Damned”, per chi scrive tra i dischi thrash più spettacolari dell’ultimo decennio, mentre sulla successiva “Strike Of The Beast” Dukes separa la folla in due e lancia il solito wall of death, per la gioia dei parecchi giovani presenti nelle prime file. Si chiude con “Toxic Waltz”, sulla quale sale sul palco Maurizio Iacono di Kataklysm/Ex-Deo, e “Good Riddance”. Prestazione assolutamente adrenalinica e coinvolgente, che si piazza tra le migliori della giornata.
Alessandro Corno
RAVEN
I Crazy Lunatics mancavano in Italia dal 1981, ma tutta questa attesa è stata ripagata da una performance superba. I fratelli Gallagher hanno dimostrato di essere dei musicisti di razza eseguendo una sorta di greatest hits dei loro brani più celebri dei primi tre album, non mancando di aggiungere un paio di chicche. Nell’ora a disposizione sono riusciti a conquistarsi anche il supporto dei fan più giovani grazie all’energia che hanno sprigionato sulle assi del palco, nonostante l’età e qualche chilo di troppo. L’apertura affidata all’accoppiata “Take Control” / “Live At The Inferno” è da incorniciare, pezzi nei quali il buon Mark Gallagher ha macinato con energia una serie di riff al cardiopalma supportato dal fantasioso bass playing del fratello John. Curiosa la pedaliera di quest’ultimo, che gli ha permesso in alcuni frangenti di utilizzare sonorità alquanto bizzarre. “Rock Until You Drop” e “Mind Over Metal” sono altri esempi di athletic rock all’ennesima potenza, corroborata dal potente drumming di Joe Hasselvander. Sorprendentemente, i nostri hanno tirato fuori dal cilindro “On And On” tratta dal flop “Stay Hard”, qui reinterpretata in modo decisamente più poderoso. La chiusura è affidata a “Break The Chains”, canzone tirata per quasi 10 minuti nei quali i nostri hanno inserito un piccolo medley di “Symptom Of The Universe” dei Black Sabbath, che ha concluso un ottimo rientro sulle scene.
Gennaro “Dj Jen” Dileo
AMON AMARTH
Forti di una popolarità sempre in crescita, gli Amon Amarth si apprestano a far calare la loro atmosfera epico-nordica sulla platea del Gods Of Metal 2010, ricca di fan entusiasti di assistere ad un altro show della band svedese. Purtroppo assenti giochi pirotecnici e la grande scenografia guerresca con tanto di nave vichinga proposta lo scorso anno a Wacken. Si parte con l’accoppiata “Twilight Of The Thundergod” / “Free Will Sacrifice” dall’ultimo lavoro e subito il quintetto deve fare i conti con dei suoni approssimativi che penalizzano in particolar modo le armonizzazioni delle chitarre. Sebbene la band sia autrice di una prova più che discreta, dalle casse esce infatti un muro di suono uniforme, nel quale le melodie vengono sacrificate e risalta invece in maniera eccessiva la batteria. Il pubblico ad ogni modo non sembra più di tanto infastidito dalla cosa e partecipa a gran voce, trascinato dal mastodontico e simpatico Johan Hegg. Presto è evidente che lo show di poco o nulla differisce rispetto a quelli proposti dal gruppo dopo la pubblicazione dell’ultimo disco, con la setlist totalmente incentrata sulle produzioni più recenti e purtroppo nessun brano estratto dai primi lavori, “Once Sent From The Golden Hall” e “The Avenger” in particolare. Sotto dunque con “Varyags Of Miklagaard”, “Guardians Of Asgaard”, “Valhall Awaits Me” (dedicata a Ronnie James Dio), “Thousand Years Of Oppression” e “Death In Fire”, brani a cui va dato il merito di aver portato gli Amon Amarth negli stereo di migliaia di metalfan e di conseguenza nelle posizioni alte dei festival. Con il passare dei minuti i suoni migliorano e pezzi quali “Runes To My Memory”, “Live For The Kill” o “Cry Of The Blackbird” riescono a spaccare sul serio, facendo agitare non poco i fan nelle prime file. Il finale è come da copione affidato alla hit “The Pursuit Of Vikings”, il cui riffone riecheggia nell’arena con tutta la sua marziale pesantezza. Tanti applausi e giudizio positivo per uno show che ha un tantino deluso solo chi ha visto la band più volte negli ultimi due anni e si aspettava qualcosa di diverso a livello di scaletta.
SETLIST:
Twilight Of The Thundergod
Free Will Sacrifice
Valkyries Ride
Asator
Varyags Of Miklagaard
Guardians Of Asgaard
Valhall Awaits Me
Thousand Years Of Oppression
Death In Fire
Runes To My Memory
Live For The Kill
Cry Of The Black Birds
The Pursuit Of Vikings
Alessandro Corno
LORDI
Se qualcuno si era annoiato durante il pomeriggio, di sicuro non potrà dire lo stesso dopo aver assistito all’esibizione dei Lordi. La band finlandese, forte di un sound orecchiabile che si basa su un hard rock dalle forti tinte ’80, riesce in quasi due ore di spettacolo a coinvolgere alla grande la platea del Gods. Avere l’opportunità di suonare da headliner ha giovato non poco al gruppo scandinavo, che ha potuto contare sul buio, con conseguente risalto dell’ottimo impianto luci, su dei suoni puliti e su una serie di effetti speciali in grado di elevare ulteriormente lo spettacolo. La band capitanata da Mr. Lordi dimostra progressi rispetto alle ultime esibizioni, evidenziando un maggior movimento sul palco di tutti i musicisti ed una compattezza ancora più limpida. Canzoni come “Raise Hell In Heaven”, “Who’s Your Daddy” o “Get Heavy” hanno un tiro impressionante ed acquistano in sede live ancora più carisma grazie all’espressione scenica dei musicisti. I Lordi tributano palesemente Alice Cooper e lo dimostrano non solo nel sound hard rock delle loro composizioni ma anche nella voglia di affiancare allo spettacolo sonoro uno show esclusivamente scenico. In tal senso apprezziamo le scenette improvvisate tra le varie canzoni, fra cui citiamo l’infilzamento di una coppia di ballerini zombie da parte della tastierista Awa e la decapitazione di un samurai ad opera del chitarrista Amen. Anche il leader Mr. Lordi non vuole essere da meno ed allora ecco che si improvvisa chirurgo-macellaio nella hit “The Doctor Is In”. Prima del finale, c’è ancora spazio per infiniti fuochi d’artificio, stelle filanti, scenette horror da ridere, ma anche della sostanza musicale che risponde al nome di “Would You Love A Monsterman?”, “Devil Is A Loser” e per chiudere “Rock n’ Roll Hallelujah”; insomma, se qualcuno non l’avesse ancora capito, i Lordi fanno sul serio!
Matteo Cereda