GODS OF METAL 2012 – giorno 2
22/06/2012 – Arena Fiera Milano – Rho (MI)
Running order:
Apertura porte: 09.30
10.00-10.25 – CANCER BATS
10.45-11.10 – AXEWOUND
11.30-12.00 – UGLY KID JOE
12.30-13.10 – SOULFLY
13.40-14.25 – RIVAL SONS
14.55-15.45 – BLACK STONE CHERRY
16.15-17.25 – KILLSWITCH ENGAGE
17.55-19.05 – SEBASTIAN BACH
19.35-21.00 – WITHIN TEMPTATION
21.45-23.45 – GUNS N’ ROSES
CANCER BATS – 10.00-10.25
Provenienza: Canada
Sito ufficiale
Gods Of Metal day 2, la sveglia la danno i Cancer Bats, ma la sfiga sembra perseguitare il gruppo: se al prestigioso Download Festival la loro performance è saltata causa ritardo nell’apertura cancelli, la storia si ripete alla corte degli Dei del Metallo. Le porte infatti aprono intorno alle 10:00, con mezz’ora di ritardo, e l’esibizione dei canadesi slitta, riducendosi a quindici risicati minuti. Facciamo in tempo a recarci sotto il palco e alzare le corna e, dopo “Bricks And Mortar”, “R.A.T.S.” e un bestemmione tonante, è già tempo di saluti obbligati a microfoni spenti. Cormier è un animale anche all’orario indegno, mentre gli altri ciondolano storditi dal Sole in faccia. Una performance comunque valida, seppur molto molto breve!
(Maurizio Borghi)
AXEWOUND – 10.45-11.10
Provenienza: Canada / Regno Unito
Sito ufficiale
Velocissimo cambio di palco tra Cancer Bats ed Axewound, il side-project di Liam Cormier dei primi e di Matt Tuck dei Bullet For My Valentine. La band sale sul palco fra un po’ troppa indifferenza e con qualche problema tecnico alla batteria, ma tempo un paio di pezzi e la situazione migliora. Il metal-core melodico imbastardito da sfuriate death metal e ingentilito da qualche vocals pulita, a cavallo tra Trivium, The Black Dahlia Murder e una qualsiasi band del genere, fa un po’ fatica a ingranare fra gli astanti, in mezzo ai quali si scorgono già delle presenze addirittura ultra-cinquantenni. Lo show comunque cresce in intensità e alla fine, per i novelli Axewound, c’è qualche applauso convinto e meritato, almeno per l’impegno e la grinta profusa.
(Marco Gallarati)
UGLY KID JOE – 11.30-12.00
Provenienza: Isla Vista, Stati Uniti
Sito ufficiale
Tocca ai redivivi Ugly Kid Joe, band splittata nel 1997 e riformatasi nel 2010, seguendo l’ormai abusato trend delle reunion a scoppio ritardato. Per la caratura del combo, la posizione in scaletta è abbastanza deficitaria, ma oggi il quintetto si deve accontentare di questo breve slot di poco più di mezzora. Tempo a disposizione ben sfruttato dal Brutto Moccioso Joe, che galvanizza gli astanti con una performance energica e corroborante, non certo di facile assimilazione, considerata la totale assenza di nuvole sopra il cielo dell’Arena. Avete ragione, stiamo costantemente scrivendo delle condizioni meteorologiche, ma è inevitabile, in quanto queste stanno condizionando fin troppo lo svolgimento del festival, a tratti addormentato e stordito dalla temperatura africana. “Cats In The Cradle”, cover di Harry Chapin, è stato il lentone proposto dalla band, poco dopo il terzetto d’apertura affidato a “Neighbor”, “Panhandlin’ Prince” e “Milkman’s Son”. Una buona sferzata di adrenalina, dunque, per un gruppo che riaccogliamo fra noi con piacere.
(Marco Gallarati)
SOULFLY – 12.30-13.10
Provenienza: Brasile / Stati Uniti
Sito ufficiale
Dal girone infernale di coloro che hanno abusato di aria condizionata, ecco l’ennesima incarnazione dei Soulfly. Max Cavalera soffre innegabilmente di sovraesposizione e paga in termini di orario nel cartellone, ma il suo carisma non si scalfisce. Incastrato tra chitarra, mimetica urbana e i capelli informi, immobile col Sole in fronte, il leader e capofamiglia si conferma in una performance al di sopra della sufficienza, che pesca dalla lunga discografia della band e, con poca originalità, dal repertorio dei Sepultura (“Refuse/Resist” e “Roots Bloody Roots” cominciano a diventare troppo ovvie). Immutabili nei secoli dei secoli anche le trovate sceniche, dai cori da stadio alla maglia della nazionale italiana, al pezzo con figli e nipoti, rispettivamente Richie e Igor Jr.. Le novità di quest’anno sono ovviamente un Tony Campos super efficiente (dagli esordi negli Static-X, Campos è oggi diventato un turnista di lusso) e un David Kinkade esaltato dall’amplificazione. Chiusura con l’accenno di “Angel Of Death” degli Slayer, poi rapidamente mutata in “Eye For An Eye”, che ha condotto i Soulfly al congedo dall’ennesima calata italica. W la familia!
(Maurizio Borghi)
RIVAL SONS – 13.40-14.25
Provenienza: Los Angeles, Stati Uniti
Sito ufficiale
Con quasi venti minuti di ritardo rispetto all’ordine di marcia, i Rival Sons si presentano sul palco del Gods Of Metal. “Gypsy Heart” e “Burn Down Los Angeles” tingono di fantastico rock anni Settanta tutta l’arena. Classe, sentimento e melodie figlie dei più ispirati Led Zeppelin sono la formula vincente della band di Los Angeles, capitanata da uno strepitoso Jay Buchanan. Il cantante, per movenze e carisma, ricorda in modo palese il grande Robert Plant e non da meno è la sua voce, calda, potente ed a proprio agio su qualsiasi tonalità. Purtroppo il ritardo accumulato obbliga i Nostri ad un drastico taglio di scaletta. L’emozionante “Soul” ci regala intense sonorità tinte di rock e blues di alta classe, sapientemente orchestrate dalla chitarra di uno Scott Holiday in grande spolvero. Pochi brani ma grande intensità: il concerto dei Rival Sons fino ad ora è apparso come uno dei più coinvolgenti.
(Andrea Raffaldini)
BLACK STONE CHERRY – 14.55-15.45
Provenienza: Edmonton, Stati Uniti
Sito ufficiale
Continua a gonfie vele la serie di artisti americani: dopo i Rival Sons, i giovani Black Stone Cherry danno inizio al loro concerto con una frizzante “Maybe Sunday”. La successiva “Change” riscuote un’ottima accoglienza da parte del pubblico, mentre tutta la band salta, corre e cerca in ogni modo di esaltare giovani e meno giovani sotto il palco. Dopo la potente “Yeah Man”, arriva il cavallo di battaglia per antonomasia dei rockers a stelle e strisce: “Blind Man” viene infatti cantata a squarciagola da tutti i presenti, dall’inizio alla fine. Il cantante/chitarrista Chris Robertson (sempre più sosia di Jack Black) è il perno su cui il gruppo si regge, con la sua voce caratteristica ed il suo stile di chitarra influenzato dai grandi del rock americano. John Fred Young alla batteria si conferma un animale da palcoscenico, unendo potenza e precisione tecnica ad un pimpante spettacolo visivo. “White Trash Millionaire” ci regala un altro momento commerciale, un po’ ruffiano se vogliamo, ma all’insegna di melodie capaci di imprimersi in testa dopo poche note. Stesso discorso vale per “Blame It On The Boom Boom”, durante la quale i Black Stone Cherry sfruttano al massimo le ultime riserve di energia. Alla fine dello show, i fan salutano con scroscianti applausi, a dimostrazione di essersi divertiti grazie ad una performance energica.
(Andrea Raffaldini)
KILLSWITCH ENGAGE – 16.15-17.25
Provenienza: Westfield, Stati Uniti
Sito ufficiale
Ed eccoli, attesissimi, i Killswitch Engage col figliol prodigo Jesse Leach. Anni di dibattiti riaccesi dal ritorno del frontman che ha firmato l’opera che ha consacrato la band, quell'”Alive Or Just Breathing” che, assieme al precedente album autointitolato, ha lanciato l’intero movimento metalcore. L’atmosfera sul palco è rilassatissima e si nota in maniera evidente una nuova energia scorrere tra i componenti del gruppo, vigorosi e gioiosi. Guardare Adam D. e le sue movenze goffe ci fa convincere sempre più che il chitarrista leader del gruppo, nonchè il produttore più in voga nella scena metalcore, sia uscito da un cartone animato o sia stato fatto diventare grande di colpo come in “Da Grande” di Renato Pozzetto. Adam ride, scherza, saltella, sghignazza e stempera l’atmosfera incarnando perfettamente il ruolo di macchietta comica. Jesse canta bene, comprensibilmente sbaglia qualche passaggio e, anche se sprovvisto della calda timbrica di Howard Jones, esegue i passaggi melodici che trainano ogni canzone in maniera più che soddisfacente. Facendo roteare il suo mohawk riesce anche a smuovere un pubblico tramortito dal solleone. Nessuna sorpresa nella setlist, che ripropone in un breve greatest hits di una decina di pezzi tutti i brani più noti della formazione, concludendo con l’azzeccata cover di “Holy Diver” di R.J. Dio. Meglio Howard o Jesse quindi? Ognuno avrà la sua risposta, anche dopo questa gradevole esibizione!
(Maurizio Borghi)
SEBASTIAN BACH – 17.55-19.05
Provenienza: Canada / Stati Uniti
Sito ufficiale
Come inizio non c’è male: partono le note di “Slave To The Grind”; la band sale sul palco gasata a mille; Sebastian Bach sale sul palco gasato a mille; il microfono non funziona; Bach si incazza; Bach scaraventa il microfono per terra; Bach va ad inveire contro i tecnici; ripartono le note di “Slave To The Grind” e finalmente tutto fila liscio tranne per la voce di Sebastian, che necessiterà di una decina di minuti per scaldarsi a dovere. “Kicking & Screaming” e “Dirty Power”, brani tratti dal repertorio solista del frontman americano, gli servono soprattutto per far carburare le corde vocali. Gli Skid Row vengono ancora chiamati in causa con “Here I Am” e “Big Guns”, finalmente interpretati a dovere e suonati in modo discreto dalla band. Una band che, dal punto di vista estetico, centra ben poco con il contesto. Un bassista che sembra uscito da una band metalcore ed un chitarrista che non stonerebbe in un gruppo melodic death scandinavo stonano con l’icona rock del biondo Seb. L’abito non fa il monaco e comunque diamo atto ai musicisti di aver compiuto a dovere il loro compito. Dopo un paio di canzoni soliste, tra cui la discreta “(Love Is) A Bitchslap”, si ritorna alle origini di Bach, agli Skid Row, con “Piece Of Me” ed una sentita “18 & Life”, che scatena l’approvazione del pubblico. Sebastian ancora una volta chiama in causa il suo illustre passato per concludere lo show: la romantica “I Remember You” prepara i presenti per il ruggito finale dell’immancabile “Youth Gone Wild”. Un concerto indubbiamente per nostalgici, incentrato sui grandi successi del passato, d’altro canto è questo che i fan vogliono sentire. Come dare loro torto?
(Andrea Raffaldini)
WITHIN TEMPTATION – 19.35-21.00
Provenienza: Olanda
Sito ufficiale
Schiacciati da due mostri sacri dell’hard-rock/heavy metal come Sebastian Bach e i successivi, attesissimi Guns N’ Roses, gli olandesi Within Temptation sono quasi completamente fuori posto all’interno del bill della seconda giornata del Gods Of Metal 2012, soprattutto per via di questa posizione in effetti un po’ troppo alta. Detto ciò, ci viene automatico fare il confronto con una band che ultimamente sta riscuotendo un ampio successo in Italia e che propone più o meno lo stesso sottogenere, ovvero gli Epica. I Within Temptation – e lo diciamo apposta in modo provocatorio – lasciano sulla linea di partenza gli Epica sotto tutti i punti di vista, songwriting, coesione, bravura e soprattutto attitudine on stage. Vedere Simone Simons e Sharon Den Adel, a prescindere dalla bellezza di entrambe, è un po’ come tirare testa e croce, due cose completamente diverse. Sharon è calda, coinvolgente, simpatica e sempre sorridente e, sinceramente, il female fronted metal crediamo vada sempre interpretato così, o perlomeno a chi scrive piace così. Una prestazione, quella di stasera dei Within Temptation, che ha deliziato gli astanti, finalmente accolti da un’ombra refrigerante e pacificante. Astanti, a dire la verità, in parte già pronti e in fibrillazione per l’arrivo dei Guns, quindi anche disattenti e distratti sulle note del sestetto olandese. Setlist piuttosto classica, incentrata sui maggiori successi del combo, da “Ice Queen” a “Faster”, da “Stand My Ground” a “Angels”, fino alla gloriosa chiusura di “Mother Earth”, epilogo di un bello spettacolo, baciato da una grande e appagante performance della vocalist orange.
(Marco Gallarati)
GUNS N’ ROSES – 21.45-23.45
Provenienza: Los Angeles, Stati Uniti
Sito ufficiale
Con un cachet elevatissimo, uno staff di duecento persone, una squadra di modelle invitate nel pit…e soli quindici minuti di ritardo, ecco i Guns N’ Roses, headliner di questa giornata del Gods Of Metal 2012. L’arena, nel frattempo, si è popolata ma siamo ben lontani dai bagni di folla di System Of A Down, Foo Fighters e Big Four dello scorso anno. Lo show è introdotto da immagini torbide sui tre mega-schermi che fanno da sfondo al palco, su cui dopo un paio di minuti fa capolino il logo dei Guns di “Chinese Democracy”. Esplosioni di fuochi d’artificio ed ecco l’entrata trionfale dell’ultima vera rockstar, quell’Axl Rose che da anni riesce a tenere in piedi da solo un impero milionario. La prima canzone eseguita è proprio “Chinese Democracy”, sulle note della quale tutti i presenti si riversano verso il palco da ogni angolo dell’arena. Il trittico “Welcome To The Jungle”, “It’s So Easy” e “Mr. Brownstone” è da urlo e nel pit notiamo un sacco di ragazze in estasi per il loro beniamino. I suoni sono potenti e definiti, soprattutto davanti al palco, mentre si nota un drastico calo di qualità audio e volume spostandosi di non molto ai lati. Le note rilassate di “Sorry” fanno da preludio a una “Rocket Queen” accolta a gran voce dalla folla e valorizzata da una bella scenografia di palco ricca di luci e led che ne illuminano le pedane. Si prosegue tra brani recenti, come “Better”, e altri con tutt’altro fascino, come la cover di Paul McCartney “Live And Let Die” oppure “You Could Be Mine”, con tanto di fiammate ed esplosioni. Axl regge bene e la sua prova vocale è convincente, grazie anche a qualche momento di stacco concesso lungo il set dai notevoli soli chitarristici di Richard Fortus e Dj Ashba, o quello di piano di Dizzy Reed sulle note di “Baba O’Riley” dei The Who. Anche Tommy Stinson si prende il suo spazio cantando “Motivation”, senza però suscitare grande interesse tra il pubblico, e stesso destino spetta a Bumblefoot con la sua “Glad To Be Here”. Di tutt’altro spessore i grandi attesissimi classici, quali “Sweet Child O’ Mine”, “Civil War” e gli indimenticabili lentoni “November Rain” e “Don’t Cry”, sui quali Axl riesce sempre a far sognare le migliaia di persone del tutto in balia del suo carisma. Le pause tra un brano e l’altro sono ridottisime e nella lunghissima setlist c’è spazio per un’adrenalinica cover di “Whole Lotta Rosie” degli AC/DC, oltre all’immancabile “Knockin’ On Heaven’s Door” di Bob Dylan. Si va verso fine show con “Nightrain”, che anticipa un’ultima parte in cui, tra varie jam strumentali, spiccano “My Michelle” con Sebastian Bach ospite sul palco, la struggente “Patience” e il gran finale di “Paradise City”, un vero tripudio di coriandoli rossi, fiammate, applausi e braccia levate al cielo. La formazione non sarà quella storica ma è innegabile che gli attuali Guns N’ Roses siano in grado di proporre uno show di alto livello della durata di ben tre ore e un quarto. Si chiude così la seconda giornata del Gods Of Metal 2012, con fan stanchi, arsi dal Sole e provati dal gran caldo, che si dirigono a passo svelto verso i parcheggi. Molti torneranno l’indomani per un’altra giornata all’insegna dell’hard rock che, oltre ai Motley Crue e svariate band, vedrà calcare questo stesso palco il grande e amatissimo ex-chitarrista dei Guns, Slash.
(Alessandro Corno)
Setlist
Chinese Democracy
Welcome To The Jungle
It’s So Easy
Mr. Brownstone
Sorry
Rocket Queen
Estranged
Better
Guitar Solo – Richard Fortus
Live And Let Die (cover Paul McCartney & Wings)
This I Love
Motivation (Tommy Stinson)
Piano Solo – Dizzy Reed
Street Of Dreams
You Could Be Mine
Guitar Solo – DJ Ashba
Sweet Child O’ Mine
jam strumentale
Piano Solo – Axl Rose
November Rain
Glad To Be Here (Bumblefoot)
Don’t Cry
Civil War
jam strumentale
Shackler’s Revenge
Whole Lotta Rosie (cover AC/DC)
Knockin’ On Heaven’s Door (cover Bob Dylan)
Nightrain
jam strumentale
Madagascar
Dead Flowers (cover The Rolling Stones)
Used To Love Her
My Michelle (con Sebastian Bach)
Patience
jam strumentale
Paradise City