Solito scenario e rituale che si ripete da anni: sold out totale da mesi (anche aggiungendo una seconda data per accomodare l’enorme richiesta di biglietti), odissea drammatica tra bagarini e speculatori di ogni tipo per trovare un biglietto online, attesa febbricitante, mistero totale sullo show, setlist, suoni, visuals, eccetera. Ecco che cosa è in due parole un concerto dei Godspeed You! Black Emperor: un mix di attesa spasmodica che poi, nel momento della sua fruizione, viene rimpiazzato da stupore totale e da una sonora lezione di stile. Anche noi non abbiamo resistito, abbiamo schivato ostacoli e la sorte più avversa per assistere a questo concerto, e alla fine la nostra tenacia è stata premiata e, su invito della Constellation Records in persona, ci siamo recati alla splendida ed estremamente suggestiva cornice della Great American Music Hall di San Francisco per assistere impotenti ancora una volta allo show mostruoso e surreale di una delle band più innovative ed influenti degli ultimi vent’anni.
GATE
Apre le danze la one-man-band industrial-noise Gate, monicker dietro il quale si cela Michael Morley dei The Dead C, ed è subito polemica. Se una parte del pubblico gradisce, presumibilmente gli aficionados più incalliti del noise più monotonale e presuntuoso, la maggior parte della platea, noi inclusi, giustamente rimane davvero interdetta e anche irritata dalla formula iperstatica e incolore del popolare noisemaker neozelandese. La musica dei Gate è infatti null’altro che la modulazione tramite pedali ed effetti di una singola nota di synth ripetuta senza sosta per mezz’ora, oltretutto ad un volume assordante e con una monotonia e un immobilismo al limite dell’insulto. Un set capace di sbriciolare la pazienza e la concentrazione di chiunque e performance che non ha minimamente comunicato alcunché al pubblico o anche solo tentato di creare una forma di empatia o coinvolgimento con i presenti. Bocciato su tutta la linea.
GODSPEED YOU! BLACK EMPEROR
La band canadese si raduna sul palco come suo solito in un silenzio quasi conventuale, prendendo posizione sulle sedie che, come sempre, li ospitano sul palco nella loro consueta performance effettuata da seduti. Non vola una mosca, nessuno fiata, non uno sguardo è rivolto al pubblico. L’occhio cade inevitabilmente, inesorabilmente, sulla portaerei di pedali ed effetti che ogni membro della band ha ai suoi piedi e sulla muraglia cinese di ampli che cinge il palco. Una scena da brividi. Le prime note di “Hope Drone” cominciano sotto forma di un sibilo tenebroso. Sembra di vedere filamenti di suono sprigionarsi dal palco e fluttuare nell’aria sopra il pubblico, mentre la band ne sanguina sempre di più in maniera esponenziale, per poi tesserli col passare dei minuti in trame di rumore e pulsazioni sempre più fitte e inestricabili, con il volume a fare da catalizzatore dell’alchimia surreale che la band sta materializzando. Mentre alle spalle dei Nostri scorrono immagini in bianco e nero di campagne abbandonate e di periferie dissestate, il suono si gonfia e si moltiplica come in preda ad una reazione chimica bestiale. Passano dieci minuti e la Great American Music Hall è ormai sepolta in un sarcofago di suono talmente titanico da farci franare la terra sotto i piedi. Due bassi, quattro chitarre, una batteria, un organo e un violino in fondo rappresentano un arsenale sonoro abbastanza corposo da poter sfracellare qualunque timpano. La cosa che stupisce di questa band è l’ingegneria sonora di cui dispone e che sta dietro al loro colossale impianto sonico-compositivo, e il modo con cui costruiscono le loro canzoni partendo da singole note, trasformandole poi in opere titaniche grazie a dei buildup mostruosi. Parte fondamentale del gioco infallibile dei GSY!BE sono anche un allenamento mentale e una sinergia tra i membri della band che lascia storditi. Ognuno sa esattamente dove ogni altro membro della band sta andando con il suo strumento e segue a ruota senza alcuna incertezza, materializzando un gioco di squadra pazzesco che porta infine, come somma manifestazione, ad un suono e a degli arrangiamenti monolitici che non potrebbero mai stare in piedi senza l’apporto meticoloso di ogni membro. Lo show si chiude dopo circa un’ora e mezza in cui si sono intravisti momenti tratti da pressoché tutti i periodi della band, da “Lift Your Skinny Fists…” fino all’ultimo grandioso “…Don’t Bend…”, tutti a malapena riconoscibili nella forma, dato l’alto carico di improvvisazione che ha sempre contraddistinto i canadesi in sede live, ma inconfondibili nella sostanza, poiché seppur calati in un astrattismo patologico e in strutture compositive oceaniche, certi riff dei GSY!BE sono ormai leggendari vessilli dello strafamoso post-rock monolitico e epico che essi stessi hanno contribuito a brevettare. Uno show indimenticabile.
SETLIST
Hope Drone
Mladic
Monheim
Dead Metheny
Behemoth