Report di Sara Sostini
Foto di Simona Luchini
Se c’è un gruppo capace di ricordarci come, in un concerto, lo spettacolo più bello sia la musica stessa, quelli sono proprio i Gojira. L’inossidabile quartetto di Bayonne, infatti, ha ripreso (come tanti) a macinare date su date per la promozione del nuovo “Fortitude”, accolto positivamente un po’ ovunque come gradito ritorno, con la sua rinnovata energia sprigionata da riff estremi, tecnica assassina, impegno sociale, ambientalismo militante e registri vocali, sporchi e puliti, brillantemente sovrapposti al death metal progressivo e carico di groove senza troppi fronzoli. La band, ed anche i gruppi di supporto, gli inglesi Employed To Serve e i neozelandesi Alien Weaponry, viaggiano snelli: poche scenografie e tanta voglia di costruire, sera dopo sera, uno spettacolo fatto di musica, quadrata e potente, e poco altro. L’ultima data del tour è proprio quella al Carroponte di Milano (location sicuramente più indicata rispetto all’iniziale Alcatraz, visti i volumi di pubblico e canicola estiva), e fin dall’apertura dei cancelli si respira un’aria di trepidante e gioiosa attesa, mitigata dalle varie zone relax con cibo e birre (a prezzi comunque umani) e dal lento cammino del sole verso la linea dell’orizzonte. Dopo i controlli di rito, seguiamo il flusso del pubblico – la cui età media risulta decisamente più bassa rispetto a quella di altri live – fino al palco, pronti per una serata a base di schiaffi, riffoni e panorami post-industriali.
È davanti ad un pubblico già folto che gli EMPLOYED TO SERVE salgono sul palco, e non si perdono in chiacchiere: il loro mix di hardcore e death metal, spruzzato di metalcore qua e là nelle chitarre muscolose, in un certo modo di intendere i breakdown o nell’utilizzo dello screaming da parte della scatenatissima Justine Jones fa presa diretta sul pubblico come carta moschicida, creando istantaneamente un moshpit esultante e polveroso. Il quintetto, forte di un settaggio suoni già incredibilmente ottimale, non mostra nè sbavature nè esitazioni, aggredendo il palco con una furiosa energia da ‘ultima data del tour’ e scaraventando sul pubblico buona parte dell’ultimo “Conquering” senza pietà: che sia la martellante e velenosa “Universal Chokehold” o il groove di “Mark of The Grave”, gli inglesi sembrano intenzionati a non fare prigionieri. E, dagli applausi entusiasti raccolti a fine concerto, diremmo che ci sono riusciti perfettamente.
Il ruggito che accoglie l’aka di Henry de Jong, batterista degli ALIEN WEAPONRY, fa supporre che fossero attesi con un certo grado di trepidazione dal pubblico oramai davvero folto. Il giovanissimo trio neozelandese, infatti, è balzato negli scorsi anni agli onori delle cronache per aver preso l’eredità thrash e tribale dei Sepultura di “Roots” e averla mischiata con i ritmi rabbiosi da periferia dei Lamb Of God e il patrimonio culturale māori, di cui ciascuno dei musicisti porta – fisicamente e musicalmente – il segno, creando un ibrido di metal e ritmi autoctoni capace di conquistare trasversalmente una fetta ampia di ascoltatori, un contratto con la Napalm Records e tour mondiali di spalla a Slayer e, ancora una volta, Gojira, di cui comunque hanno assorbito parte dell’eredità, come si nota anche nelle dissonanze di “Kai Whatu”, che dal vivo ha una carica schizofrenica ulteriore ad arricchire il proprio spettro musicale. La forza di “Raupatu” è una clava lanciata tra capo e collo sugli astanti, mentre il basso grasso e prepotente di Tūranga Morgan-Edmonds introduce “Holding My Breath”, in cui fanno capolino influenze metalcore più moderne, grazie anche al ritornellone catchy da classifica. Niente di nuovo – nè nel riff scippato da “Walk” dei Pantera di “Tangaroa”, nè nell’alternanza tra lingua madre indigena e inglese – eppure il terzetto convince sul palco, forse molto più che su disco: l’energia del chitarrista e cantante Lewis de Jong si riflette identica anche negli altri due, che uniscono melodia, incazzatura, chitarroni e memoria storica da etnia massacrata dal colonialismo in un’attitudine belligerante e dirompente, deflagrata durante “Hatupatu” e la finale “Kai Tangata” in un mare di headbanging, wall of death, ossa rotte, urla di gioia e circle pit ghignanti, proprio mentre l’ultimo spicchio di sole scompare dietro al palco, lasciandoci piacevolmente stupiti e con la speranza che possano riuscire a traghettare, con rinnovata esperienza, nuove generazioni di ascoltatori verso lidi più estremi.
Il tempo di dare l’opportunità al crepuscolo di assestarsi ed ecco che un gigantesco countdown sullo schermo annuncia l’arrivo sul palco degli headliner.
I GOJIRA si presentano con poche visual, un tecnico delle luci eccezionale (anche se i livelli dei Meshuggah sono ovviamente inarrivabili) e ventidue anni di esperienza nel demolire le orecchie della propria audience. Il muro del suono creato dai francesi fin dalla recente “Born For One Thing” ci lascia a bocca aperta ogni dannatissima volta. Lucidi e chirurgici, Joe Duplantier (il cui volume della voce leggermente più basso è stata l’unica sbavatura ad una resa sonora davvero impeccabile) e soci continuano dritti nel massacro, solo in apparenza asettico, scaraventando “Backbone” da quel “From Mars To Sirius” che a modo proprio fece la storia delle nuove ‘avanguardie’ metal: la violenza sprigionata dalla band è inarrestabile, e sembra decuplicata ad ogni colpo, ad ogni plettrata, ad ogni urlo. “Stranded” passa a fare il contropelo sugli ultimi rimasti indenni, ma è con la voce marina, bellissima e soffusa, delle balene di “Flying Whales” che vediamo cedere definitivamente il pubblico: non c’è una persona che non stia muovendo la testa seguendo il ritmo scomposto e ipnotico del brano, persa nel suono affilato delle chitarre in dialogo di Duplantier e Christian Andreu, restituendo ai francesi, che li reclamano a gran voce, altrettanto trasporto ed energia; un flusso reciproco, in grado di aumentare anche nel medley “Love/Remembrance” a testimoniare i primi capitoli della discografia incastonandoli nella scaletta del concerto. Eppure, non sappiamo se per l’estasi da fine tour o per le energie immagazzinate in due anni di stop forzato, i quattro musicisti sembrano non avere freni, nè fondo alle proprie risorse, e la furia impeccabile con cui Mario Duplantier aggredisce la batteria durante “Grind”, i rocamboleschi salti di Jean-Michel Labadie mentre fa schiccare senza rimorso il proprio basso sono segnali evidenti dello stato di grazia della formazione, sempre più in crescita nelle classifiche e nei tour per il mondo. Per fortuna, ci verrebbe da dire, perchè il succulento poker finale che si apre con “L’Enfant Sauvage”, prosegue con la terremotante “Toxic Garbage Island” (purtroppo unico estratto da quel gioiellino che è “The Way of All Flesh”), bellissima e spietata nel ricordarci la miseria infame di un mondo irrimediabilmente inquinato, si conclude con una “The Gift of Guilt” da pelle d’oca sin dal tapping iniziale, con di mezzo “The Chant” ed il coro, fortissimo e infinito (a testimoniare la rinnovata attenzione per questo tipo di soluzioni nell’ultimo “Fortitude”), che unisce Tibet, musicisti e pubblico in un abbraccio insieme feroce e fraterno a suggellare un concerto davvero intenso.
Il tempo di una rapida pausa, mentre ancora c’è chi tira il fiato e chi raccoglie vertebre del collo, e la doppietta delle nuove “New Found”, convulsa e sbilenca e “Amazonia”, con i suoi ritmi tribali grassi e minacciosi, mettono il timbro conclusivo, tra applausi, invasioni di palco da parte di Employed To Serve, Alien Weaponry, crew e bambini (!), su uno dei concerti più ‘potenti’ dell’anno. E il giorno dopo è sempre un piacere svegliarsi col torcicollo.
Setlist:
Born for One Thing
Backbone
Stranded
Flying Whales
The Cell
Love/Remembrance
Hold On
Grind
Silvera
Another World
L’enfant sauvage
Toxic Garbage Island
The Chant
The Gift of Guilt
New Found
Amazonia
EMPLOYED TO SERVE
ALIEN WEAPONRY
GOJIRA