Report a cura di Giacomo Slongo
Fotografie di Francesco Castaldo
Dopo Treviso, tocca a Milano ospitare quel gigantesco mostro che risponde al nome di Gojira. Una creatura inarrestabile, nutritasi per anni del meglio del death metal, del progressive e di tutto ciò che è trasversale e cangiante nel mondo dell’extreme metal, finalmente pronta a conquistare in veste di headliner anche i palchi della nostra penisola. Due date utili a sondare il terreno in vista delle prossime tournée (l’uscita di “Magma”, lo ricordiamo, è ormai imminente), con quella dell’Alcatraz di via Valtellina accolta da un pubblico partecipe e calorosissimo, che non è riuscito a nascondere l’emozione di ammirare i propri beniamini in un contesto intimo e lontano dalle grandi resse di un festival come il Sonisphere. Locale settato in versione B, atmosfera elettrizzante fin dall’apertura porte e via, alle 20.15 si parte per una serata che in molti – noi compresi – non tarderanno a definire memorabile…
BLEED SOMEONE DRY
Dei pesci fuor d’acqua. Onesti e divertenti quanto volete, ma pur sempre dei pesci fuor d’acqua. L’utilizzo di questa classica espressione, a fronte della performance dei Bleed Someone Dry, viene quasi spontaneo, ed è un peccato. Il motivo? Siamo certi che in un altro contesto, con un headliner più tendente all’estremo e con un pubblico diverso ad occupare il parterre del locale, il quartetto toscano avrebbe ricevuto un’accoglienza ben diversa da quella algida, fondamentalmente distaccata di questa sera. Intendiamoci, niente fischi o gesti di inciviltà, ma fin dai primi minuti appare chiaro come la gente non sia esattamente a proprio agio sulle note della proposta dei Nostri, un metal/death-core dalle velleità tecniche e dinamiche che non disprezza incursioni in territori più atmosferici, largamente ispirato da gente come Whitechapel, primi Job For A Cowboy e Despised Icon. Spazio quindi a breakdown, ripartenze fulminee e voci poste al crocevia fra growl, scream e pig squeal, per una setlist brutale, concisa (mezz’oretta scarsa, orientata per lo più sui brani dell’ultimo, notevole “Post Mortem/Veritas”) ma che in pochi – ahinoi – hanno saputo cogliere fino in fondo. Aspettiamo di vederli in una situazione a loro più congeniale.
GOJIRA
Abituati alle scenografie monumentali che gruppi di un certo calibro sono soliti allestire per le loro performance (Behemoth su tutti), rimaniamo stupiti dall’essenzialità del palco di questa sera: niente orpelli, nessuna costruzione elaborata, solo un proiettore alle spalle del drum kit e un impianto luci sobrio, quasi rarefatto. Non occorre altro ai fratelli Duplantier per evocare le medesime immagini e sensazioni dell’ascolto su disco, dando prova di una visionarietà e di una fedeltà nell’esecuzione che ormai, dopo la bellezza di quindici anni di carriera (venti, se consideriamo il passato a nome Godzilla), superano di gran lunga le soglie dell’eccellenza. Mario e Joe si concedono alla platea dell’Alcatraz senza alcun tipo di preambolo, fedelmente accompagnati da Jean-Michel Labadie al basso e dal sempre più lungocrinito Christian Andreu alla seconda chitarra, e nel giro di pochissime battute mettono tutti sull’attenti con una “Toxic Garbage Island” che risuona nell’aria come il passo di un kaiju: pesante, viscerale e maledettamente incisiva, apripista perfetta di una setlist che in ottanta minuti non trascurerà nessuna delle varie fasi evolutive della band d’Oltralpe, dall’acerbo “Terra Incognita” all’ormai imminente “Magma”. Il quartetto, come dicevamo, appare affiatatissimo, e se il più giovane dei Duplantier si conferma la solita macchina di precisione e fantasia dietro le pelli (basti sentire la doppia cassa sincopata della suite “The Art of Dying”), è soprattutto il frontman a svettare per il suo inconfondibile stile vocale e per una presenza scenica ormai temprata dalle folle oceaniche dei vari Download, Graspop e Sonisphere, con la coppia Labadie-Andreu in leggera disparte rispetto ai colleghi. Il pubblico risponde colpo su colpo agli input provenienti dal palco, ora pogando e trasformando il pit in un formicaio di corpi esagitati (“The Heaviest Matter of the Universe”, “Oroborus”), ora lasciandosi cullare dalle onde della risacca (“Flying Whales”, la suddetta “The Art…”), senza poi dimenticarsi di scandire a pieni polmoni i ritornelli delle nuove “Silvera” e “Stranded”, il cui approccio easy listening e lineare sembra essere già stato interiorizzato a dovere. Che altro aggiungere, quindi? Che la performance è volata via senza che praticamente ce ne accorgessimo, tanto è stata intensa e magnetica? Che i suoni – una volta tanto – non hanno deluso le aspettative, permettendoci di godere appieno delle sfumature grigie e tumultuose della musica plasmata dei Nostri? Che “Vacuity”, posta saggiamente in chiusura, ci ha mandato a casa con il sorriso sulle labbra? A fronte di tanta compattezza e divertimento, ci sembra quasi superfluo. Lo stato di salute della nostra musica preferita passa anche da gruppi e performance del genere.
Setlist:
Toxic Garbage Island
L’Enfant Sauvage
The Heaviest Matter of the Universe
Silvera
Stranded
Flying Whales
Wisdom Comes
The Art of Dying
Terra Inc.
Explosia
Oroborus
Encore:
Drum Solo
Clone
Vacuity