07/06/2016 - GOJIRA + BLEED SOMEONE DRY – Treviso @ New Age - Roncade (TV)

Pubblicato il 11/06/2016 da

Report a cura di Chiara Franchi
Fotografie di Enrico Dal Boni

La classe non è acqua. E se è vero che con l’acqua i Gojira hanno parecchio a che fare (dallo spazio dedicato a Sea Shepherd tra il loro merchandise al tema ricorrente dell’oceano nei testi), è soprattutto la classe a contraddistinguerli: fautori di un death metal raffinato e intelligente, complesso senza essere stucchevole, tecnico senza essere pacchiano, sono probabilmente una delle cose migliori che siano capitate alla musica estrema negli ultimi anni. Cosa la signora Duplantier, scomparsa pochi mesi fa, abbia dato da mangiare ai suoi figli per farne due musicisti di tale calibro rimarrà per sempre un mistero, ma la bravura del quartetto “life-metal” francese è senz’altro uno dei più evidenti dati di fatto della scena presente. Non altrettanto chiare sono invece le qualità dei Bleed Someone Dry, formazione deathcore originaria di Pistoia che ha aperto la serata del 7 giugno al New Age Club di Roncade (TV). Vediamo quindi di mettere nero su bianco – anzi, bianco su nero – dubbi e certezze di questa afosa notte di inizio estate.

 

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BLEED SOMEONE DRY

“Vi prego, basta”: erano mesi, forse anni, che non ci capitava di pensarlo. Ma a meno di dieci minuti dall’entrata in scena dei Bleed Someone Dry stavamo già invocando divinità random perché avessero pietà dei nostri timpani. Non pensate subito male della band, ve ne preghiamo. Buona parte della responsabilità è imputabile ai volumi dolorosi, del tutto fuori luogo in uno spazio così piccolo e ancora in fase di riempimento. Risultato? Della mezzora scarsa di esibizione della combo pistoiese si è capito poco e niente. Abbiamo provato a spostarci in vari punti della sala, ad ascoltare dall’anticamera coi banchi del merchandise, a premerci i palmi sugli orecchi per cercare di ovattare la Vinavil di suoni regolati presumibilmente alla cieca, ma non c’è stato proprio nulla da fare. Tutto quello che abbiamo sentito sono stati una manciata di pezzi metalcore/deathcore abbastanza indistinguibili l’uno dall’altro. Da quanto abbiamo intuito (è il caso di dirlo), l’esecuzione non sarebbe stata male, se solo ci fosse stata la possibilità di apprezzarla. Ciliegina sulla torta, chiunque stesse manovrando l’impianto luci ha reso quasi impossibile anche solo vedere la band. Insomma, non possiamo che sperare di rivedere questo gruppo in condizioni migliori, perché oggi come oggi sentiamo di non avere alcun estremo per potercene fare un’opinione. Peccato.

 

GOJIRA

Prima regola dell’eleganza: mai ostentare. I Gojira sono una band senza orpelli, né estetici (look anonimo, zero tatuaggi), né scenici (poche parole, molta umiltà, nessuna ridicola volgarità in italiano), né scenografici (un proiettore, questo è quanto).  Salgono sul palco tutti insieme e cominciano a suonare. Così, senza intro, senza sceneggiate, senza fumo o giochi di luce. A dispetto della complessità della loro musica, non ci sono orpelli neanche nel loro modo di suonare: precisi e pulitissimi fin dalle prime note di “Toxic Garbage Island”.  La batteria è limpida; le chitarre, quasi un marchio di fabbrica della band, sono impeccabili. Su “L’Enfant Sauvage” abbiamo a tratti l’impressione che la batteria sia troppo alta rispetto alla voce. Ecco, volendo fare gli avvocati del diavolo diremmo che l’unica, microscopica pecca di questo concerto senza sbavature è proprio che il cantato di Joe Duplantier è stato un filino basso di volume. Anche su “The Heaviest Matter of the Universe” i fill chirurgici di Mario sovrastano leggermente le linee vocali. Poco importa al pubblico, concentratissimo – troppo preso perfino per pogare. Fin qui, però, non abbiamo visto nulla che l’ esperienza non ci avesse già insegnato, ovvero che sui successi passati messieurs Gojira cadono sempre in piedi. È dunque abbastanza ovvio che le nuove “Stranded” e “Silvera”, tratte dall’ormai imminente “Magma”, siano i veri pezzi che aspettiamo di sentire. Tanto più che ad un primo impatto non ci avevano del tutto convinto. Sì, va bene, lo ammettiamo: siamo dei fan della prima ora legati alla “roba vecchia” e, per quanto riconosciamo che i nuovi brani siano canzoni coi contromazzi, questa virata verso l’orecchiabile ci aveva fatto un po’ alzare il sopracciglio. Ebbene. Se anche voi siete rimasti un po’ spiazzati, sappiate che dal vivo è tutto un altro mondo. La resa dei brani è tale da far pensare che siano stati pensati più per il live che per lo studio, entrambe le canzoni risultano molto più aggressive e d’impatto di quanto non ci si aspetti ascoltandole in cuffia. In assoluto, uno dei momenti più alti della serata. Il viaggio prosegue con un tuffo tra i grigi fondali proiettati sullo scenario e i canti di balena dell’epica “Flying Whales” (dal gioiello “From Mars To Sirius”), che contrasta con la laconica violenza di “Wisdom Comes” (da “The Link”): nemmeno la setlist pare lasciata al caso, con spunti che ci permettono di ricostruire a ritroso il percorso musicale della band evidenziando cosa è cambiato (lo stile sempre più ricercato, la complessità mascherata da essenzialità) e cosa è rimasto (le solite, inconfondibili chitarre, il drumming originale e mai scontato). “The Art Of Dying” toglie il fiato, ma la strumentale “Terra Incongnita” ci aiuta a recuperarlo. La chiusura, affidata alla doppietta “Explosia” – “Oroborus” (chiamatelo poco) è un vero trionfo dell’essenza dei Gojira e del loro fare musica strutturatissima sì, ma che riesce a sfangarla davanti a qualsiasi accusa di cerebro-onanismo, che funziona anche coi suoni un po’ pastosetti  e che si conserva genuina, bellissima e moderna anche dopo quasi dieci anni. Insieme ai brani, scorre sul palco un poetico cartoon in bianco e nero: una combinazione di musica e immagini semplicemente perfetta. Naturalmente, sarebbe un po’ strano che fosse finita qua. Infatti, a grande richiesta torna on stage Mario Duplantier, che ci regala un solo trascinante e piuttosto insolito, esempio magistrale di come si possa dimostrare di essere delle macchine da guerra delle pelli senza usare settordicimila piatti e tom in triplo strato. Il finale definitivo è in salita, sulle note di “Clone” e della spettacolare “Vacuity”. Si chiude così il primo show indoor da headliner per il quartetto francese su suolo italiano, con la band che saluta e ringrazia sorridente il suo pubblico, definendo la serata “the best show so far” in questa tournée. Che magari lo dicono tutte le sere, ma è bello crederci. Per noi, è stato sicuramente “the best show so far” di questo 2016.

 

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