Introduzione a cura di Chiara Franchi
Report a cura di Maria Chiara Braida e Chiara Franchi
Nel suo piccolo, il Revolver Club di San Donà di Piave sta davvero facendo la gioia di chi, nel profondo Nord Est, ama le sonorità più tenebrose del metal. Dopo aver ospitato una delle primissime calate italiane della new-sensation Batushka, infatti, la location veneta offre spazio ad una vera e propria icona del genere: nientemeno che i messeri Gorgoroth, impegnati nella celebrazione dei loro venticinque anni di attività sul lato oscuro della musica estrema. In tal senso, Infernus dovrebbe essere il solo, vero festeggiato: sul suo entusiasmo per questo tour, tuttavia, avremo modo di maturare qualche riserva. Ad accompagnare la storica combo norvegese troviamo una tripletta di band variegata ma interessante. L’onore e l’onere di aprire le danze è affidato ai giovanissimi Earth Rot, astri nascenti della scena australiana, seguiti dai già rodati Incite, guidati dal maggiore tra i rampolli di casa Cavalera, e dagli ipnotici Melechesh, pronti a stregare la platea con il loro inconfondibile caleidoscopio di sonorità black e atmosfere mediorientali.
EARTH ROT
Quando entriamo al Revolver, gli Earth Rot sono già on stage. Il quartetto blackened-death australiano è giovane, in tutti i sensi: ventisei anni di età media, tre di carriera, due album all’attivo di cui l’ultimo, “Renascentia”, uscito da pochi giorni. Nonostante siano pressoché dei newcomers, i Nostri sembrano però sapere il fatto loro, sia in campo compositivo che di presenza scenica. Pur non nascondendo il debito verso la tradizione, la proposta degli Earth Rot è fresca e abbastanza personale e si rivela, nel complesso, una gradita scoperta. Non solo: da parte nostra, troviamo che l’abbinamento tra questi supporter e gli headliner sia decisamente azzeccato. Non altrettanto felice è invece l’orario dell’esibizione, che purtroppo ci rimette in termini di presenza in sala. Se non altro, i pochi presenti hanno offerto a questi ragazzi la giusta attenzione e qualche piccolo, ma sincero, gesto di supporto.
(Chiara Franchi)
INCITE
Dopo un rapido cambio palco, ecco Richie Cavalera (figliastro di Max) salire sul palco alle 20:45. Gli Incite prendono possesso della scena per trenta minuti e l’adrenalinico e carismatico frontman sembra sapere perfettamente come calamitare l’attenzione dei presenti, come riscaldare l’atmosfera per accendere la serata e preparare il terreno per le band successive. Inarrestabili headbangers, i quattro americani si dimostrano performer molto sciolti nonostante la giovane età. La proposta è buona, una fusione di nu-metal e death, senza dimenticare il buon vecchio thrash. Richie è un frontman che si fa ricordare più per l’attitudine live che per la performance vocale, così che nel complesso ci risulta difficile rimanere indifferenti durante la mezzora in cui l’ossuto cantante occupa il palco percorrendolo fino all’ultimo centimetro. La setlist esplora in maniera equilibrata la discografia della band, pezzi come “The Slaughter” e “WTF!” sembrano essere i più apprezzati. Energici e aggressivi sul palco, questi ragazzi sanno il fatto loro. Da notare che a fine show partecipano allo svolgersi della continuazione della serata quasi come parte del pubblico, con il quale si sono resi più che disponibili per autografi e foto.
(Maria Chiara Braida)
MELECHESH
Una breve pausa ed è il momento degli israelo-tedeschi Melechesh, che fanno il loro ingresso sulle note della recente “The Pendulum Speaks”. Ora che il pubblico si è fatto più numeroso e caloroso, siamo tutti pronti ad assaporare le loro melodie mediorientali infuse di black metal e a farci trascinare dal leader Ashmedi e dai pomposi riff della sua flying V. I quattro si presentano immediatamente pieni di grinta, ottima la presenza scenica del frontman, così come quella particolarmente d’impatto del bassista Mike Van Den Heuvel. La setlist offre un panorama completo del lavoro della band, ripercorrendo la sua storia passando dalle atmosfere evocative di pezzi più datati come “Grand Gathas Of Baal Sin” e “Defeating The Giants”, fino alle più recenti “Tempest Temper Enlil Enraged” o l’acclamata “Multiple Truths”, tratte dall’ultimo “Enki”. Assistiamo ad un buon compromesso tra suoni duri ed atmosfere orientali accattivanti e suadenti, ma è sui brani più melodici che il pubblico risponde con maggiore entusiasmo.
(Maria Chiara Braida)
GORGOROTH
Le note solenni della “Marche Funèbre” di Chopin accompagnano la tanto attesa entrata in scena dei Gorgoroth. L’aspetto dei musicisti è rimasto più o meno quello degli anni Novanta: corpse painting marcatissimo, borchie esagerate, cartucciere in vita e croci rovesciate al collo. Tuttavia, come i fan ben sanno, sotto gambali, bracciali e trucco di quelli che sono stati i Gorgoroth degli anni Novanta non è rimasto che Infernus, l’unico a poter festeggiare a pieno titolo venticinque anni di carriera nella band. A ben vedere, infatti, ciò che si celebra in questo tour sono soprattutto le (demoniache) nozze d’argento tra il chitarrista e il moniker Gorgoroth oppure, volendo, lo sposalizio satanico tra Infernus e la sua indefessa fedeltà ad un sound estremo, senza compromessi, nero che più nero non si può. Sound che viene vomitato in faccia alla platea fin dalle primissime battute, con una crudezza acustica che se da un lato non conferisce certo in termini di pulizia sonora, dall’altro è del tutto coerente con lo “statement” musicale della band. Le chitarre affilate, il drumming potente e la furia del vocalist Hoest (che ha l’aria di non conoscere da giorni né sobrietà, né doccia) evocano tutta la malsana ferocia del vento che tirava in Norvegia due decadi or sono. “Katarinas Bortgang” e “Prayer” sono un concentrato di goduriosa malignità che si sciolgono in bocca ai cultori del “culto”, ben lieti di alzare le corna al cielo. Ma l’incanto dura poco. I musicisti, avvolti in una coltre di fumo così densa da rendere invisibile la batteria, non accennano a schiodarsi dalle loro postazioni al limitare del palco. Brano dopo brano, il piattume del sound inizia a passare dal coerente al pesante e a poco vale il credo dimostrato dal frontman contro la noia che gronda, ben più del sudore, dalla faccia di Infernus. L’unico superstite rimasto a sventolare la bandiera di Mordor sembra un manifesto di come, a lungo andare, anche quella del metallaro satanista finisca per diventare una professione impiegatizia. O peggio, di come una ricorrenza speciale per una band storica, ancora amata e rispettata dal suo pubblico, sia vissuta dalla suddetta band storica come una mera incombenza, dato che, a quanto pare, manco vendendo l’anima al Demonio le bollette si pagano da sole. Così, mentre la scaletta prosegue con “Revelation Of Doom”, ”Forces Of Satan Storm” e “Cleansing Fire”, ci sorprendiamo a guardarci attorno per capire se siamo i soli a sentirci un po’ a disagio per l’inerzia che sembra dominare on stage. In realtà, pur cogliendo qualche sguardo perplesso quanto il nostro, vediamo che la maggior parte dei presenti è troppo entusiasta per sentirsi delusa. Meglio così. La setlist si chiude con “Kala Brahman”, “Krig”(accompagnata dall’allontanamento di un intruso sbucato improvvisamente sul palco) e “Unchain My Heart”. Non fa in tempo a spegnersi l’ultima nota che la band abbandona il palco, un po’ come noi lasciamo l’ufficio alle diciotto spaccate dopo un pomeriggio particolarmente sgradevole. Nessun cenno di saluto è riservato al pubblico, che nonostante tutto applaude, galvanizzato. A noi resta un grande interrogativo su dove stia il confine tra la coerenza e la routine, tanto più che, spogliata di tutta una serie di ammennicoli (i celebri show con donne nude, croci, sangue a fiumi e teste animali), anche la somma radicalità dei Gorgoroth mostra tutti i caratteri di una fragile consuetudine. Speriamo di aver semplicemente assistito ad una serata-no e di avere riscontri migliori la prossima volta che vedremo i Nostri su di un palco.
(Chiara Franchi)