A cura di David Gutman e Silvia Bertolotti
E anche quest’anno Graspop fu. La 17ma edizione di uno dei festival, se non il festival, più metal d’Europa oramai mostra una maturità esemplare nell’organizzazione e nella proposizione di un bill che, a differenza di molti altri festival europei, è capace di mettere d’accordo tutto il popolo headbanger, coprendo tutte le sfumature del suono high gain, omaggiando i padri e dando la parola ai figli. Infatti, se si volesse proprio andare a cercare un filone tematico nella composizione del bill di questa edizione, questo potrebbe essere l’eredità metal traformata e rigenerata nell’ultimo ventennio. Infatti, mentre al termine del primo giorno il principe delle tenebre Ozzy Osbourne battezzava il festival ricordandoci che lui è il demiurgo del metal, nei tre giorni si è assistito a quello che è stato il metal nelle sue molteplici derivazioni: death, grind, epic, gothic, crossover, glam e quant’altro. La caratura degli artisti invitati è sempre stata di prim’ordine, ognuno con oltre una decade di esperienza a calcare i palchi. Se infatti si volesse fare una riflessione sulle future promesse, bisogna riconoscere che si sono viste ben poche band “giovani”. Ma la chiave del successo di questo festival è da ricercare nell’organizzazione ottimale dell’evento: bill ricco con un’inevitabile sovrapposizione di alcune interessanti concerti, il tutto distribuito su 4 palchi (Main Stage, Marquee 1 & 2, Metal Dome), un perfetto timing per ogni singolo concerto (addirittura Axl Rose si e’ presentato 20 min in anticipo, e non nevicava!), ottima acustica nei padiglioni, un ricco mercatino metal e birra. Il Graspop poi non si limita a essere un mero happening e assume la dimensione di festa di paese. Pensiamo che ognuno si senta in obbligo di ringraziare Dessel per l’ospitalità e la disponibilità, per aver fatto sentire ognuno di noi parte di un unico universo. E un grazie va anche al clima, che anche quest’anno ha permesso a tutti di godersi il festival senza essere sommersi dai tradizionali rovesci estivi: solo qualche goccia e una brezza sufficiente a calmare i bollenti spiriti.
AUGUST BURNS RED
Sotto il tendone del Marquee 2, gli August Burns Red calcano il palco come se fosse “la loro serata”, oramai a loro agio dopo ben 4 dischi pubblicati e quasi dieci anni di militanza a girare per i palchi di tutto il mondo. E l’esperienza si sente: sound compatto, ogni elemento a proprio agio sul palco e buona interazione col pubblico, energico nel sostenerli con intensi moshpit. E i Nostri della Pennsylvania si impegnano totalmente a vivere la serata (o almeno così credono, sono le 15 e continuano a ringraziare tutti “for the excellent night”). Tema centrale della performance sono i pezzi dell’ultima fatica “Leveler”, suonati ottimamemente; forse troppo, così come il resto del loro repertorio. Infatti, se proprio si volesse muovere una critica, il live è sin troppo una mera riproduzione dei pezzi: ogni attacco, ogni staccato, ogni fraseggio é riprodotto fedelmente e manca di quella magica traslitterazione interpretativa che rende un concerto vivo. Ciò non toglie che avrebbero meritato un posto più vicino al tramonto, per performance e risposta del pubblico.
SLASH
Primo grande evento del giorno sul main stage è l’esibizione di Slash. Un personaggio che si ama o si odia. Inevitabile che al suo apparire sorga spontanea la domanda: ma alla fine cosa ha fatto? Beh, la risposta è semplice e naturale: è la firma dei Guns (nel bill di domenica), è stato il rock, è un figlio anche lui del principe delle tenebre. Nonostante infatti una partenza un po’ troppo rock, e poco hard, con un tiro molto vicino al southern rock, Slash si trascina una band che stenta a seguirlo, che prende il tempo per carburare, ma che alla fine riesce a regalare al pubblico quello che si aspettava: “Sweet Child O’Mine”, “Nightrain”, “Mr Brownstone”. Insomma, la sua versione dei fatti sui Guns’n’Roses, la sua visione della verità. Una spruzzata di Velvet Revolver e l’esibizione si chiude con “Paradise City”. Purtroppo suonare alle 4.30 e vent’anni dopo non aiuta e trasforma il concerto piu in un revival happening che in un’affermazione del rock.
DEVILDRIVER
Molto se ne è parlato e se ne parlerà di questa band. O meglio, di questo progetto di Dez Fafara. Infatti, in maniera diffusa, la band è vista come un ripiego per coprire la disfatta dei Coal Chamber, la rivincita di Dez, la dimostrazione che lui ne era l’anima rock. Le loro produzioni non hanno mai brillato per originalità e timbro sonoro, avendo sempre l’impressione di ascoltare una band arrivata sempre un secondo dopo tutti gli altri. Però una reputazione e un accolito gruppo di fan ce l’hanno e meritano di scoprire perchè. E non ci vuole molto. Infatti sotto l’affollato tendone del Marquee 2, tutti pendono dalle labbra (o meglio dalla gola) di Dez. Lui è il mentore e direttore d’orchestra. Dirige tutti: dalla band funzionale e rodata, nonostante il recente cambio al basso, al pubblico, pronto a montare tanti moshpit quanti il direttore ne richiede e a urlare ogni singola parola del set proposto. Il tiro sarà infernale, l’energia immensa: alla fine ci si diverte e le orecchie ridono. Ma comunque un domanda rimane lì, in un angolo dei nostri pensieri: chi suona dopo?
PARADISE LOST
I Paradise Lost sono una di quelle band che magari oggigiorno non attirano su di sé l’attenzione dei più giovani, ma sicuramente rappresentano e rimangono un fermo punto di riferimento nel panorama gotico da cui ogni successivo filone hard rock/metal ha attinto per attitudine ed ispirazione, in una maniera o nell’altra. Pertanto l’attesa e la curiosità sono grandi. L’impressione generale è ambivalente: sarà che il sound del metal in generale si è ispessito, sarà che il genere gotico ha acquisito estetiche più complesse, ma l’esibizione del gruppo inglese sembra aver perso un po’ di energia. La band ripercorre tuttavia gli apici della propria carriere ultraventennale, portando a termine la propria esibizione, onesta ma non memorabile.
OBITUARY
La prima giornata del festival è un’immersione nelle varie derive che il metal fu a cavallo tra gli anni ’80 e ’90. E in questa rassegna di glorie, non potevano mancare gli Obituary con il carico emotivo che hanno rappresentato non solo per gli ascoltatori, ma per ogni singola band arrivata dopo di loro. Vari cambi di line up hanno funestato la band, ma l’anima (i fratelli Tardy e Trevor Peres) sono sempre lì, entusiasti e fermi nel loro timbro, ridotti all’osso con una sola chitarra, a sempre Obituary. Ascoltarli oggi e’ un tuffo nella desolazione esistenziale nella quale ci trascinarono con capolavori quali “World Demise”, “The End Complete” e “Cause Of Death”. Infatti l’attenzione della band è tutta per la produzione che fu, è lì per ricordarci che il Graspop stesso quasi non esisterebbe se loro non ci fossero stati. Il pubblico apprezza, accorrendo numeroso ed eterogeneo, un po’ stanco per agitarsi dopo i set dei gruppi precedenti, ma si percepisce nell’aria il senso di rispetto ed adulazione per il quartetto.
SLAYER
Il sole inizia ad affievolirsi (non che durante la giornata sia stato più minaccioso) e si alza una leggera brezza, che porta con sé gli odori acri di birra, polvere e sudore. Manca solo sangue sul palco per prepararlo degnamente al principe. E a questo ci pensano gli Slayer. Come presi da una nuova ondata di energia ed ispirazione, gli Slayer recentemente sono diventati come il prezzemolo: su ogni bill che si rispetti non manca mai il loro nome nonostante, diciamolo, stiano arrancando nel mantenere la loro nomea: Tom non fa più headbanging, Jeff ancora in convalescenza a godersi birra nella jacuzzi, le ultime produzioni lasciano con l’amaro in bocca. Ma appena il nerboruto Kerry King, sempre più truce, calca il palco, ogni pensiero si dissolve. Gli Slayer sanno come incidere, come dare la cadenza, il ritmo, sanno che loro rimangono i maestri nel loro genere. Dopo un inizio incerto dedicato al recente “World Painted Blood”, appena partono le note di “War Ensemble” il sole torna a splendere rosso sangue. Inutile ricordare la setlist, perche’ tanto la conosciamo tutti, come anche l’adrenalina e ogni contraccolpo di cassa. Gli Slayer fanno il loro compito e salutano ad un prossimo ritorno con il solito terzetto: “Angel Of Death”, “South Of Heaven”, “Raining Blood”. Ma la domanda in testa rimbomba costante: ma questi non si stancano mai? No, mai. Grazie a Dio!
CANNIBAL CORPSE
Le nostre orecchie ancora sanguinano quando i Cannibal Corpse fanno apparizione nel Metal Dome. Perchè di apparizione si tratta: un muro di suono investe ogni singolo astante nel Metal Dome, un singolo unico growl riempie i nostri corpi pronti al dismembramento. Infatti, complici probabilmente una scarsa affluenza e un suono dal mix un po’ fuori dalle linee, l’ascolto si fa difficile. Il che non sempre è un male. Infatti, il quintetto di Buffalo appare un po’ invecchiato: un sacco di pause tra un pezzo e l’altro, troppi sorrisi fra i membri, che suonano stanchi e poco interessati al pubblico. Solo Corpsegrinder salta, si agita, e mostra ancora di crederci, ma alla lunga anche lui tradisce l’obbligo teatrale del genere: come la traposizione cinematografica anche quella musicale è pura finzione.
LAMB OF GOD
I Lamb of God negli ultimi anni sono ascesi come nuovi astri della scena metal, sulla scia di quell’impatto sonoro a metà tra Pantera e Slayer che fa tanto contenti i discografici. Purtroppo oscurano un po’ le aspettative con l’ultima contestata e deludente fatica, ma i Nostri sanno bene come giocare le proprie carte. Infatti, dopo un incipit dedicato a “Resolution”, come d’obbligo per doveri commerciali, il quintetto della Georgia muove il baricentro su quelle produzioni che li hanno distinti: e così ecco “The Undertow”, “Contractor”, “Now You Have Something To Die For”. Una prova eccelsa, merito di tante ore oramai spese sui palchi, un drumming che ricorda molto Vinnie Paul per doppia cassa ed equalizzazione ed un riffing compatto e preciso. Pollice in alto, dunque! Ma le sorprese non finiscono: ad un certo punto compare dall’obitorio Mr Donald Tardy (il batterista degli Obituary, ndR), pronto a sostenere il finale del set con “Redneck” e poi la gran chiusura con “Slowly We Rot”, cover degli Obituary stessi, come a rimarcare il richiamo ad una identità che non avremmo mai riconosciuto come primaria.
OZZY AND FRIENDS
Grapsop e Ozzy & Co. hanno un rapporto difficile. L’anno scorso all’ultimo fu cancellata la sua esibizione per motivi di salute, mentre quest’anno l’apparizione dei Black Sabbath è venuta a mancare per le preoccupanti evoluzioni nella salute di Tony Iommi. Nonostante ciò, il management ha saputo reinventare il carosello estivo programmato mettendo su uno spettacolo invitante nonostante le polemiche sollevate durante la primavera: Ozzy and Friends. Per essere sinceri, ci si apettava ben altra intro per introdurre il principe delle tenebre e non i 10 minuti autocelebrativi, fatti di video ed estratti da celebri musiche a voler sintetizzare 40 anni di carriera, tutto a ricordare che tra poco la messa si sarebbe compiuta e questa sarebbe stata incentrata sulla “beatificazione” di Ozzy. Infatti, il taglio dato allo spettacolo è stato quello volto a ripercorrere la sua carriera, glorificare la sua produzione, attraversando tutta la storia del metal insieme ai suoi fedelissimi del presente e del passato. Ma finalmente eccolo. Si parte subito con i classici “Bark At The Moon”, “Mr Crowley”, “Suicide Solution”, con alla chitarra il sorprendente greco Gus G, ancora in estasi per questa inaspettata evoluzione nella sua carriera. Per quanto lo spettacolo sia appunto uno spettacolo, la tecnica di Gus non fa rimpiangere il mastodontico Zakk Wylde, aggiungendo all’esecuzione precisione, potenza e quel tocco di metal moderno che rende Ozzy attuale e sempre presente. Ma alla fine di “Rat Salad”, prima parentesi Sabbathiana, ecco comparire Slash e Geezer Butler per ampliare la finestra su quello che doveva essere il set originario: Black Sabbath. E allora via con “Iron Man” e “War Pigs”, per finire con “Fairies Wear Boots” con alla chitarra Zakk Wylde. Lo spettacolo è un gran spettacolo, come d’altronde ci si aspettava, con il baricentro ora spostato sul periodo “wild” di Wylde e Ozzy, anche se non mancano riprese ed omaggi al defunto Randy Rhoads: “Crazy Train” porta gli animi alle stelle preparando il pubblico per il gran finale. E infatti tutti compaiono sul palco per l’ultimo omaggio, per la beatificazione del principe e per la benedizione dei nuovi divulgatori del verbo metal: partono le note di “Paranoid” e il pubblico si infiamma in un sabba che promette una nuova era per il suono high gain.
BRUTAL TRUTH
Dato il crescente trend di reunion che l’ultimo lustro ha visto finalizzarsi, non poteva mancare anche un evento similare nel mondo estremo: i Brutal Truth. Calorosa e’ stata l’accoglienza all’annuncio da parte del settore quanto freddo lo e’ stato qua al Grapsop. Metal Dome vuoto per il combo più violento di NY, ma non per questo meno onesto che in altre situazioni. Kevin Sharp è deciso e la band lo supporta nel suo intento di mostrare a tutti come si può essere violenti in questo mondo. Ad appoggiare fortemente Kevin si propone Scott Lewis alla batteria, elemento nella band che più plasma il suono e l’estetica dei Brutal Truth fatta di riffing veloci e drumming complessi, e sintetiche “pièce”. Il set ripercorre tutta la produzione dei Brutal Truth, da “Extreme Conditions Demand Extreme Responses” per finire con il recente “End Time”. Spettacolo onesto e brutale.
MEGADETH
Sul main stage, non poteva mancare lui, Dave Mustaine, il lato rovescio della medaglia thrash metal. Con una formazione a metà fra classico e novità, con il fido Ellefson al basso e Broderick alla chitarra, Dave sciorina le sue perle, conscio di quello che il pubblico vuole ascoltare e teso a rimarcare che nonostante tutto lui è ancora in giro a calcare palchi. L’esecuzione e’ precisa e compunta, rinnovata con i virtuosismi di Broderick che regalano una nuova linfa (da alcuni discutibile) ai classici che ci hanno accompagnati negli anni ’80 e ’90. E così il set scorre attraverso esecuzioni classiche (“Hangar 18”, “A Tout Le Monde”, “Symphony Of Destruction”) e pezzi recenti (“Public Enemy No1”, “Never Dead”) fino alla chiusura che tutti nel proprio cuore speravano: “Holy Wars”.
MY DYING BRIDE
A creare una continuià’ gotica con la giornata precedente, ci pensano i My Dying Bride, grazie a cui abbiamo rivisto e riallineato il concetto di melanconia e viver gotico. Si stenta a riconoscere se Aaron Stainthorpe reciti o proietti sul palco il proprio male di vivere, certo è che l’impatto estetico è forte e convincente. Nel corso della propria carriera la band ha saputo rigenerare il proprio suono, sofisticandolo senza mai abbandonare i binari gotici, arrichendolo con un gusto ricercato nell’arrangiamento. E la performance live ne gode, creando dinamica e pathos, nel ripercorrere la produzione degli ultimi tre album e di “The Angel And The Dark River”. E il tutto scorre attraverso un riffing cadenzato e potente, una litania profonda e melodica.
FEAR FACTORY
E’ un dato di fatto che l’ultima fatica in studio dei Fear Factory poco ha convinto, un po’ per l’incapicità di Dino Cazares di far evolvere il proprio stile e la propria scrittura, un po’ per i continui rimaneggiamenti della line up che hanno intaccato quel suono e stile compatto e unico. Su tutto poi non hanno giovato le recenti dichiarazioni che in studio sono stati usate drum machine sapientemente programmate. Ma il live è ben altra cosa, o almeno si spera. Nuove facce, dal pedigree relativamente anonimo al basso e alla batteria, riducono i Fear Factory al duo Dino Cazares e Burton C Bell. Certo è che il materiale a disposizione è vasto e va ben oltre la recente produzione, pertanto non ci si meraviglia che la fabbrica della paura si concentri su quelli che sono stati gli apici della sua carriera. Pertanto l’attenzione si focalizza su “Demanufacture” e “Obsolete”, che oramai contengono pezzi divenuti parti del folklore metal: “Edgecrusher”, “Self Bias Resistor”, “Demanufacture”, “Shock”. Ovvio che non manchino riferimenti a “Mechanize”, l’album che ha segnato il rinnovamento della collaborazione tra Dino e Burton, ma è soprattutto sugli anni 90 che il moshpit si fa violento e bollente, chiudendo i balli con l’eterna “Replica”.
LIMP BIZKIT
Ebbene sì, in qualche maniera anche loro sono figli del principe delle tenebre e per tanto degni di essere invitati al Graspop. E a quanto pare grande curiosità l’hanno smossa in tutti i presenti, che li hanno accolti con grande calore nel momento dell’arrivo sul palco, privi di DJ Lethal ai piatti, causa screzi inconciliabili con Fred Durst. Questi, in tenuta hip hop (con canotta dei Celtics, per gli interessati) inizia subito a dividersi il palco con l’altra prima donna: Wes Borland (vestito da mummia stuprata). A colpi di hit che per lo più attingono alle prime uscite discografiche “Significant Other” e “Chocolate Starfish And The Hot Dog Flavored Water”, i due si combattono il palco, sollazzando il pubblico a colpi di hit da 15enni suonati da 40enni. Ma va bene, il sound è bello rotondo, ben fatto e soprattutto, a modo loro, anche i Limp Bizkit sanno di essere una macchietta di se stessi, che possono contare su ben poche produzioni valide per smuovere il pubblico. E, proprio per questo, nella fase centrale si dedicano alle cover, passando da “Thieves” dei Ministry a “Smell Like Teen Spirit” dei Nirvana, “Behind Blue Eyes” degli Who fino alla celeberrima “Faith” di George Michael, che introduce la song di chiusura “Rollin’ (Air Raid Vehicle)”. Uno spettacolo divertente. Peccato solo sapere che, se suonato 10 anni fa, questi sarebbe stato esattamente lo stesso nella scaletta e nell’estetica generale.
EUROPE
Ebbene sì, gli svedesi Europe non potevano mancare all’appello, anche loro in qualche maniera debitori di Ozzy e di quelle sonorità high gain. Joe Tempest e soci salgono sul palco giusto poco dopo pranzo, rendendo l’atmosfera alquanto desueta. In gran forma, almeno fisica, sono ben sicuri di cosa proporre e sfidano negli occhi il pubblico su quanto dovranno tutti attendere per ascoltare quello per cui sono venuti. Ma allo stesso tempo devono ancora promuovere il loro ultimo disco “Bag Of Bones”; come si dice, prima il dovere e poi il piacere. Pertanto, via con una abbuffata di rock melodico, un po’ out, ma ben fatto, prima di introdurci alla celebrazione della nostra gioventù, estrapolando le hit da “Out Of This World” e “Wings Of Tomorrow”. Ovviamente, tutti gli astanti sapevano bene che la performance non si poteva chiudere se non con “Rock The Night” e “The Final Countdown”. Quello che tutti si aspettavano dall’inizio del concerto. Mai visto un show chiudersi con tanti sorrisi e qualche lacrima di nostalgia.
H2O
In questo tripudio di palm muting, power chords e tutti suoi derivati, non poteva mancare, come sempre, una citazione punk hardcore. E per quest’anno gli H2O, figli dei SOIA, non potevano mancare, avendo dato recentemente alle stampe un loro tributo di cover. Come ci si poteva aspettare, il clima respirato è di pura festa ed energia, con la band concentrata soprattutto con i brani estratti da “Nothing To Prove” conditi con brevi menzioni alle produzioni piu datate, caratterizzate da una esecuzione precisa e rigorosa. Il combo non lascia tregua, finito un pezzo attacca col successivo, in un vortice di sudore ed entusiasmo nella migliore delle tradizioni HC. Quello che lascia perplessi è la ciclicità di un genere che soffre di input innovativi ed evolutivi, che lascia tutti, alla fine delle danze, con il desiderio di tornare a cercare ed ascoltare qualcosa che muova la testa e non solo il corpo.
KILLSWITCH ENGAGE
Alquanto strano assistere ad un concerto aperto con una cover, ma così fu per i Killswitch Engage, padri commerciali del metal-core, che aprono le danze con “The Boys Are Back In Town” dei Thin Lizzy. Questa è una delle prime date live con il “nuovo” cantante Jesse Leach, rientrato nei ranghi dopo anni di latitanza. L’impatto sonoro è forte, fatto di una buone dose di tecnica (entrambi i chitarristi sono ex Berklee students) che come svantaggio ha talvolta quello di inondare il flusso sonoro di troppe note, di troppa complessità melodica. E alla fine il rischio è quello di stancare se le argomentazioni latitano. Adam D. ci prova a tenere alto il titolo guadagnato di “Jim Carrey dei chitarristi”, sfoggiando una mise non proprio comune per concerti del genere. Non avendo un album di recente pubblicazione, il quintetto si concentra più su una rivisitazione della propria discografia, dando a Jesse la possibilità di inserire la sua timbrica vocale su pezzi a lui nuovi, dopo un’apertura incentrata sul secondo album “Alive Or Just Breathing”, ultimo lavoro con lui al microfono. Alla fine una prova sonante ed energica, degna del Main Stage, sostenuta, ma con un valore aggiunto che scarseggiava ad emergere. Per la cronaca, l’esibizione, come l’apertura, si chiude con una cover quasi in contrapposizione con il filone del festival: “Holy Diver” del compianto Ronnie James Dio.
MACHINE HEAD
Tutti abbiamo assistito alla lunga e anomala parabola dei Machine Head: partenza in grande stile con due album seminali, “Burn My Eyes” e “The More Things Change”, una lunga e lenta decadenza con album talvolta rasentanti il ridicolo e poi l’improvvisa esplosione con il favoloso “The Blackening” e il più recente “Unto The Locust”, che ha lanciato il quartetto di Oakland nell’olimpo del metal moderno. Infatti non solo sono tornati a macinare riff maestosi, ma hanno apportato una loro personale contributo al genere, sintetizzando il riffage pesante con architetture complesse nella scrittura della canzone complessiva, confezionando lunghe suite di violento e ben fatto metal. E questo viene riassunto con la perfomance di oggi sul main stage. Infatti, a vedere la setlist, solo 8 canzoni sono proposte, ma sufficienti a coprire l’ora dedicata a loro. I Machine Head si concentrano sui picchi della parabola sopradescritta: breve menzione dell’ultima fatica in apertura, con “Soncata in C#”, e poi quasi solo “The Blackening” e “Burn My Eyes”. I capitoli migliori vengono riproposti energicamente, con una band rodata e solida anche in salute (Demmel sempre lucido). E lentamente si snocciolano “Halo”, “Imperium” ed “Aesthetics of Hate”, per il piacere dei nostri colli e delle nostre orecchie. Unica nota è l’eccessivo parlare di Rob Flynn tra un pezzo e l’altro, ma ben voluto comunque, data la performance perfetta. Quindi la conclusione, all’insegna di come tutto iniziò: “Davidian”.
E poi fu Italia – Inghilterra, ma quella é un’altra storia.