A cura di David Gutman e Silvia Bertolotti
L’arrivo dell’estate in Belgio è sinonimo di festival, tanti festival di ogni tipo sparsi in ogni angolo del paese, dal Werchter a Dour, dal Pukkelpop al All Tomorrow’s Land. E ad aprire le danze ci pensa proprio il Graspop, come di consueto, risvegliando dal torpore rurale Dessel, coinvolgendola in questo happening metal dall’aspetto fragoroso ma dai modi gentili. Come ogni anno, l’organizzazione è impeccabile e supportata perfettamente dalle autorità locali. Unica novità, rispetto agli anni precedenti, è la disposizione del palco piu piccolo, il Metaldome, al quale è stato concesso un angolo più appartato ma non per questo di secondo piano. Per il resto, tanto metal e un cartellone variegato, impegnativo e impossibile da seguire nel minimo dettaglio, tanto è ricco e il timing serrato con due esibizioni sempre presenti allo stesso momento. Se vogliamo proprio individuare i filoni tematici dell’anno, sicuramente emergono da un lato la corrente nu metal coi padrini Korn e Slipknot a confermarsi maestri, invecchiati, ma insuperabili con il loro seguito di nuovi astri e deviazioni stilistiche sul genere. Dall’altra, il metal classico, riassunto magistralmente negli Iron Maiden, ma supportati da una lunga schiera di artisti quali Twisted Sister e Iced Earth. Nel mezzo di queste due correnti, interessante è vedere come il filone black e death prenda piede, con artisti del calibro di Dark Funeral, Rotting Christ, Unleashed e Mayhem.
LOVE AND DEATH
Per noi le danze si aprono con i Love and Death, creatura volta a dare sfogo all’estro creativo di Head, chitarra fresca di rientro nei Korn, qua impegnato, prevalentemente alla voce, in un nu metal rivisitato ma sempre molto riconoscente a quanto sviluppato negli ultimi due decenni. La scaletta proposta percorre tutto il primo album del quartetto, suonando fresche hit già ben conosciute dal pubblico quali “The Abandoning”, “Watching The Bottom Fall”, “Paralyzed” e “Chemicals”. Il pubblico, seppure ancora con un intero festival da vivere, è già preso dalla foga e Head non si risparmia nel far letteralmente saltare il Metaldome e rimandando i pensieri all’imminente performance dei Korn, in programma per la prima serata.
PAPA ROACH
Figli di quel movimento nu metal tanto celebrato in questa edizione del Graspop, non si possono ignorare i Papa Roach. Emersi in contemporanea con i nomi principali della scena, i Papa Roach hanno preso quella svolta più aperta a sonorità easy listening e solari propri del sud della California. Jacoby Shaddix è un frontman carismatico, in grado di reggere il peso di una performance sul Main Stage, e il pubblico lo segue e vive la solarità suonata dai Papa Roach. Dopo una apertura con “Swinging” e “Where Did The Angels Go” dedicata alla loro più recente uscita, “The Connection”, il resto del setlist è concentrato a riassumere nell’ora a loro dedicata le pietre miliari della discografia. Indimenticabile il fragore quando “Too Be Loved” è stata suonata accanto a una stellare “Last Resort”.
DARK FUNERAL
E nonostante la giornata abbia ancora un sole alto, la solenne celebrazione della morte degli estremi Dark Funeral prende inizio, possedendo letteralmente il Marquee 2. Gli anni passano, e gli svedesi possono già vantarsi di calcare le scene da ben due decenni e omaggiano il Graspop dedicando una esibizione speciale: il loro set non è altro che il loro debutto “The Secret Of The Black Arts” suonato dalla prima all’ultima nota con il frontman Emperor Magus Caligula. L’impatto è violento ma non spiazza il pubblico, che rende il Marquee 2 un denso agglomerato di spiriti infernali, elevando non di poco la temperatura e i bollori. La performance è serrata, supportata da una scenografia ad hoc fatto di giochi pirotecnici e fuochi. E la messa satanica procede veloce e senza pause, ma lasciando un non so che di eccessivamente teatrale che ha lasciato trasparire stanchezza nei celebratori di Satana dopo 20 anni di evocazioni.
PRONG
Non si fa in tempo a pulirsi delle ceneri dei Dark Funeral, che subito si viene assorbiti dal sound metal-industrial dei Prong. La curiosità era tanta per questo terzetto capitanato da Tommy Victor. Come prevedibile, la setlist si concentra sui due maggiori successi della band, “Cleansing” e “The Rude Awakening”, ma presenta al pubblico europeo pure l’ultima fatica “Carved Into The Stone”. Il tiro c’è. Tommy è il gran mattatore con una band nuova a supportarlo ma l’impressione che si coglie è che le sonorità industrial siano state lasciate dall’altra parte dell’oceano, concentrando le proprie energie su una sonorità’ più rock che metal. Chitarre meno compresse, batteria più aperta, ma il groove rimane, e il Marquee 1, pieno di aficianodos dei bei tempi, si scalda e sospinge il nostro Tommy laddove forse avrebbe meritato di essere posto anni fa.
COAL CHAMBER
Il traffico del venerdì pomeriggio blocca i Soulfly sull’autostrada tedesca, catapultando il nostro Dez con il rinato combo Coal Chamber sul mainstage. L’onere è enorme, ma l’occasione ghiotta per celebrare un quartetto inspiegabilmente persosi negli anni Novanta, nonostante un debutto e un secondo lavoro che avevano saputo scaldare molte anime nu metal. Si parte subito con “Loco”, sulla falsariga di “Blind” dei Korn, ma sempre capace di scatenare entusiasmi. Dez Fafara qui è un’anima in pena che non sa rimanere fermo sul palco, mentre il duo ritmico Cox-Harper supporta un groove notevole. Lo spettacolo continua con i pezzi storici della band: “Clock”, “Oddity”, “I”, “Rowboat”, ma quello che implicitamente il pubblico chiede è: ma un nuovo disco?
MAYHEM
Tempo di raggiungere il Marquee 2 e la grossa curiosità della giornata si dipana appena le luci calano: i Mayhem portano finalmente il loro verbo dell’anticristo a Dessel. La band capitanata da Attila Csihar, rimodernata nelle chitarre, e con i sempre presenti Hellhammer e Necrobutcher alla sezione ritmica si presenta in versione soft al Graspop, con Attila a rievocare un immaginario Shakespeariano, cantando tutto il tempo con un teschio in mano.
Si apre con “Deathcrush” e si spolverano i capolavori degli esordi dagli album “Deathcrush” e “De Mysteiis Dom Sathanas”, per poi dedicare il set centrale alle produzioni più recenti tratte da “Chimera” e “Ordo Ad Chao”. Ma, come a voler celebrare gli anni d’oro, il finale non può non ritornare sulle produzioni che lanciarono il quintetto con tutte i misteriosi intrighi a fare da contorno: pertanto ecco prima “De Mysteriis Dom Satanas” e poi, a chiudere, “Pure Fucking Armageddon”. Si lascia il tendone pensando proprio ad un fottuto giudizio universale appena avvenuto!
KORN
L’attesa finalmente è terminata, il sole abbandona il set per dare spazio a nuvole e pioggia quando finalmente il ride parte la sua scansione: il pubblico freme, immediatamente è tornato a quel fantastico 1994, quando il primo album dei Korn irruppe. Giusto il tempo per rivivere quei ricordi e il riff di “Blind” gela Dessel facendo letteralmente tremare la terra sotto i piedi tanto è violento il mosh pit che si viene a generare. I Korn son tornati energici, precisi, irruenti come quelli di una volta, con Head a restituire quella dinamica e certosina dovizia sartoriale nei suoni che 9 anni fa i Korn persero. Il set non può che concentrarsi sul terzetto “Korn” / “Life is Peachy” / “Follow the Leader”, infilando una dietro l’altra hit come “Twist”, “Chi”, “Falling Away From Me”, “Dead Bodies Everywhere”. Una sola breve parentesi è lasciata all’ultima fatica elettronica, con le due hit “Narcissistic Cannibal” e “Get up!”, ma poi è di nuovo storia: “No Place To Hide”, “Here To Stay”, “Got The life” e, a concludere, “Freak On A Leash”. La pioggia si fa martellante, ma il pubblico non desiste, in estasi per una performance al di sopra di ogni aspettativa, con i Nostri letteralmente ringiovaniti e tornati ai vecchi fasti, supportati ora da un impatto scenico moderno, di grosso effetto visivo. Bentornati… e ora non possiamo far altro che attendere la nuova uscita, con la speranza che quello a cui abbiamo assistito stasera non rimanga solo un bel ricordo.
SOULFLY
Papà Max è finalmente riuscito a raggiungere Dessel e subito viene catapultato sul Marquee 2 per chiudere questa prima giornata. Accompagnato dal figlio appena 20enne alla batteria, da Tony Campos al basso e dal fido scriba tuttofare Marc Rizzo alla chitarra, Mr Cavalera regala quello che ci si aspettava: un ripasso dei migliori capitoli di tribal metal mai scritti, omaggiando la sua originale creature Sepultura. Pertanto, dopo una partenza con “Prophecy”, “Back To The Primitive” e “Seek’N’Strike”, il Marquee 2 si infiamma non appena partono i riff di “Refuse Resist”, “Arise”, “World Scum” e “Straight Hate”. La pioggia sempre più violenta spinge la gente a rifugiarsi sotto il tendone e ciò non fa che crescere affollamento, temperatura e umidità. Insomma, il clima ricorda la foresta amazzonica quando il nostro conclude con una magistrale “Roots Bloody Roots”. E questa e’ storia.
THE DEVIL WEARS PRADA
Il secondo giorno inizia per noi con il metalcore dei The Devil Wears Prada. Gratificati dall’impianto del main stage, sotto un sole inaspettatamente splendente, il combo dell’Ohio si impegna a inondare l’area Graspop del loro tsunami sound che tanto fra breccia fra i più giovani. Nonostante l’ora, l’area sottostante è già bella compatta e avvicinarsi minimamente al palco senza essere risucchiati dai due moshpit creatisi è un’impresa. Il set proposto è concentrato sulle ultime due uscite discografiche, con un occhio di riguardo per “Dead Throne”, riservando solo all’inizio qualche citazione delle loro prime produzioni.
CALIBAN
Tempo di raggiungere il Marquee 2 e si è pronti ad assistere al concerto dei tedeschi Caliban. Quel che sorprende è la folla già immensa pronta ad accogliere il quintetto, termometro di quanto siano apprezzati in queste terre. Il set purtroppo soffre di una partenza monca, con l’impianto audio che fa i capricci e che pertanto condiziona la durata della performance. Ma il set ridotto verrà ricompensato da pura violenza. Il concerto parte con le dovute attenzioni alla loro ultima fatica “I Am Nemesis”, con il pubblico terribilmente coinvolto. Anzi, di più: Andy Dörner riesce a far vivere all’interno del Marquee il piu grande wall of death mai visto da queste parti, coinvolgendo tutto il tendone e rendendolo un posto migliore per essere travolti dalla loro energia. Fra i pezzi eseguiti non mancano “24 Hours”, “I Will Never Let You Down” e “It’s Our Burden To Bleed”.
AGNOSTIC FRONT
Come ogni anno, il Graspop non dimentica la vena più radicale e impegnata del genere, ovvero l’hardcore di stampo NY. E quest’anno è il turno della band di Roger Miret, impegnata a rientrare sul fronte con il quintetto più simile ad una cover band che alla formazione originaria. Infatti con i soli Roger e Vinnie, unici membri che hanno vissuto la trentennale carriera del fronte agnostico, la band sembra più voler celebrare la storia piuttosto che lo stato presente. Ma lo fa con i fuochi d’artificio. Partendo da “Warriors”, il quintetto conduce mano nella mano il pubblico nella loro storia, lentamente ritornando verso gli album degli Anni ’80 con graziosa ferocia. Non possono pertanto mancare “Friends Or Foe”, “Peace”, “Crucified”, “All Is Forgotten” e “Police State”. E il percorso a ritroso vede come dovuto finale l’omaggio a ciò da cui tanto ha preso inizio: “Blitkrieg Bop” dei Ramones.
DOWN
Il sole tramonta e una voce echeggia dal passato, un po’ roca ma calda, che richiama insistentemente al Marquee 2: Phil Anselmo e soci son tornati in paese e, come per ogni buon circo, non si può perdere lo spettacolo seppur consci di quel che si ascolterà. Le luci calano e subito l’occhio di bue punta il mattatore della serata: Phil è in forma e loquace come al solito. Il set parte senza fronzoli, subito intenso, diretto e preciso; d’altronde, sono quasi 20 anni che suonano esattamente le stesse 14 canzoni. Infatti, con tutto il bene che si può volere loro, i Down hanno vissuto sugli allori di un superbo esordio, “Nola”, e quello è rimasto la loro croce e fortuna per il resto della carriera. Infatti, il set si concentra sull’esordio con solo due divagazioni quali “Witchtripper” dall’ultimo EP e “Lysergik Funeral Procession” da “Down II”. Ma lo spettacolo, diciamolo, è immenso: i pezzi scorrono precisi e pieni di passione, Phil continua a mantenere col pubblico il dialogo aperto e sincero, si martoria la fronte fino a farla sanguinare, tanto ci batte a ritmo il microfono, e il tendone gode a cantare a squarciagola hit oramai di una generazione.
ICED EARTH
L’amarcord col passato continua, ma alzando un po’ il pitch della voce: al Marquee 1 è il momento degli Iced Earth. Il combo dalla florida arriva con una formazione rimaneggiata (onorando a dir il vero l’Italia con l’egregio batterista italo brasiliano Raphael Saini) ma col cuore di sempre. Infatti, Jon Schaffer rimane il protagonista assoluto della scena, trainando la sua creatura attraverso una rivisitazione moderna della sua produzione. E, incredibilmente, il pubblico lo abbraccia, rendendo quasi impossibile l’accesso al tendone, tanto questi è pieno. Il set è sapientemente studiato con scenografie e luci a celebrare l’iconografia classica della band e la setlist è altrettanto curata: si apre infatti con la strumentale “1776”, ma si viene proiettati subito sull’ultimo “Dystopia”. E’ un alternarsi di storiche citazioni e brani più recenti: da “Dark Saga” a “A Question of Heaven”, da “I Died For You” a “Pure Evil”. E il tutto non puo che chiudersi con il manifesto “Iced Earth”.
SLIPKNOT
Con cadenza biennale, tornano al Graspop gli Slipknot. Li avevamo lasciati l’ultima volta a onorare la perdita di Paul Grey, mentre quest’anno li ritroviamo immensi e tronfi di sè stessi. Lo spettacolo è sempre quello: 8 tipi mascherati a letteralmente far saltare King Kong sopra l’Empire State Building. Supportati da un impianto scenico fatto di fiamme e sapienti giochi di luci e occhi di bue, i nostri partono subito riaffemando i loro iniziali manifesti: “Disasterpiece”, “Liberate” e “Wait And Bleed” vengono eseguite senza esitazioni e pause prima che Corey Taylor possa prendere contatto col pubblico (sempre se per contatto si possa considerare sufficiente uscite quali “fucking wonderful!” o “you are fucking the best!”). Poi la brutalità dilaga: James Root e Mick Thompson sono tellurici alla chitarra e inquietanti nel vedersi, Joey Jordison assurge oramai al gotha del drumming mondiale mentre i rimanenti membri imbastiscono il solito show fatto di percussioni, scratching e mazze da baseball che volano. Manca però, rispetto alle passate esibizioni, quel tocco di imprevedibile follia, segno degli anni che avanzano. Ma lo spettacolo proposto è sempre totale e instancabilmente vorticoso: “Eyeless”, “Dead Memories”, “Pulse Of The Maggots”, “The Heretic Anthem”, “(sic)”, “Duality”, “Psychosocial”, “Spit It Out”. Il pubblico ottiene quello che voleva e gli Slipknot danno tutto quello che avevano nel cesto, salutando il Grapsop con “Surfacing” prima dell’arrivederci tra due anni.
PARKWAY DRIVE
La giornata conclusiva del Graspop si ripete nella struttura concedendo nel primo pomeriggio il main stage a sonorita’ metalcore. Oggi ci pensano i Parkway Drive a risvegliare il pubblico belga dal torpore dopo due giorni e due notti di follie metalliche. E il pubblico sta al gioco. Pertanto, sotto su un sole sempre presente (ma siamo veramente in Belgio?) il combo australiano letteralmente assale il palco. Il focus sono le due ultime produzioni “Atlas” e ”Deep Blue”: si parte con “Sparks” e “Old Ghosts”. Il tiro è metronomico, il suono arcigno ma al contempo solare, con Winston McCall a cercare sempre quel contatto emotivo e fisico col pubblico essenziale per rendere un concerto “live”. Solo nella parte centrale del set si gioca ad amarcord rievocando due pezzi da “Horizons” quali “Boneyards Idol”s e “Anchors”, per poi tornare sui recenti “Dark Days”, “Swing” e “Home Is For The Heartless”. È dura salutarsi, ma il tempo scorre e allora si salutano i fasti con “Carrion”, rimandando alle prossime ulteriori edizioni i futuri moshpit sulle loro note.
STONE SOUR
Tempo di rinfrescarsi e cambiare palco, e sempre sul Main Stage fanno comparsa gli Stone Sour. E’ dura capire quanto questo progetto sia debitore verso gli Slipknot, e soprattutto per capire se Corey Taylor sia in grado di discernere quando calca il palco per uno o per l’altro: infatti i suoi intermezzi col pubblico sono l’esatta ripetizione di quelli della sera prima. Ma poco importa. Siamo qua per le nostre orecchie e loro si divertono. Si parte subito con “Gone Sovereign” e “Absolute Zero” da “House of Gold & Bones Part 1”, ma Corey e soci sanno bene dove si nascondono gli assi vincenti per far saltare la gente: e allora niente dall’ultimo “House of Gold & Bones Part 2”, ma subito a concentrarsi su quei due album che hanno saputo proiettare i Nostri sulla scena internazionale: “Mission Statement” e “Made of Scars” sono cantate da tutti gli astanti e c’è solo spazio per una piu recente “RU486″ prima di ritornare ai fasti degli esordi. Corey appare comunque ancora in debito per le energie profuse la sera precedente, e bisogna fermarsi ad ogni pezzo per ristorarsi, ma Graspop glielo permette, soprattutto se poi il finale è quello da manuale: “Get Inside” e “30/30-150” per vedere 50.000 persone sorridere.
GHOST
Non si fa in tempo a ristorarsi dal sole che subito bisogna accorrere al Marquee 1 per la messa delle 5. Sull’altare buio Papa Emeritus appare accompagnato dai suoi Ghouls e a quel punto è naturale questionarsi sulla propria fede: ma ci pensa l’enciclica “Infestissummam” a ritrovare la luce. Le sonorità sono molto debitrici nei confronti di Ozzy e di tante derivazioni seventies e doom metal successive, ma non c’è che dire: i Ghost sanno tenere la scena e l’attenzione. La setlist è in giusto equilibrio fra le due uscite “Opus Eponymus” e “Infestissummam”, con pezzi quali “Death Knell”, “Year Zero”, “Elizabeth”, “Ritual”, “Monstrance Clock”. Uno spettacolo simpatico, che poco ha richiesto in termini di energie al pubblico.
IN FLAMES
Finito la predica, si ritorna subito al main stage pronti per bruciare con gli In Flames. Il combo svedese è oramai assurto tra i big della scena metal europea, e lo si vede sia nell’armamentario di luci custom montate (inutili dato il sole nordico ancora alto), sia nella relativa rilassatezza dei Nostri sul palco. Infatti il concerto si trasforma quasi in un picnic collettivo, con tutti a cantare le hit degli ultimi anni di carriera. Nella migliore delle tradizioni, si parte dalla più recente uscita discografica, con “Sounds Of A Playground Fading”, e “Where The Dead Ships Dwell”, ma subito si volge l’attenzione alle più storiche “Pinball Map”, “Trigger”, “Cloud Connected”, “The Hive” e “Ropes”. Oggigiorno il sound dei concerti sono generalmente ineccepibili e questo è il caso degli In Flames. L’impianto spinge, ma nulla distorce, se non per volontà di Bjorn e Niclas Engelin. E il pubblico apprezza in tutte le sue età e colori. Il concerto scorre e alla fine cresce l’interesse per quello che i Nostri saranno capaci di fare appena rientreranno in studio alla fine dell’estate.
NEWSTED
Il Graspop volge al termine e stancamente ci si ferma per uno degli ultimi big name. Non ci si può tirare indietro dallo sbirciare il progetto dell’ex Metallica Jason Newsted, che fa dell’inno all’heavy metal il suo motto, in una salsa kitsch che solo gli americani sanno fare con dovizia. Nonostante un solo vero album da proporre, il Nostro si guadagna una bella posizione sia di palco (Marquee 2) sia di timing. Il concerto parte con “Heroic Dose” e “Soldierhead”. Il combo si difende bene, soprattutto grazie al supporto di Mike Mushok (Staine) alla seconda (o prima?) chitarra. Il sound è quello che ci si aspetterebbe, ma rimane comunque l’amaro per una esibizione che propone sì un bel mix di sonorità metal, ma che sembra più un divertissement di grandi star piuttosto che un progetto concreto. C’è poi da sottolineare che i problemi tecnici al basso di Jason non hanno certo aiutato a tirare su le sorti della performance, ma il finale è costituito da quello che tutti cercavano: “Whiplash” cantata a squarciagola e l’illusione di aver visto per un attimo i Metallica in una dimensione meno da starlette del metal.
IRON MAIDEN
La modestia: una virtù, ma con quella mpm si compra nulla sul palco. Con questo slogan a capeggiare idealmente sulla scena, si presentano gli headliner di Graspop 2013. Iron Maiden. Con una scenografia monumentale ma estemporanea, a richiamare volutamente i fasti degli Anni ’80 e intenta a disegnare un mondo ghiacciato con discutibili igloo di legno sparsi un po’ ovunque sul palco, il sestetto inglese, con la sua tradizionale indole da corridori del metal, compare sulle note di “Moonchild”. I Nostri sanno benissimo che stasera sono lì a chiudere un evento che non esisterebbe senza di loro (molti i richiami nel weekend alle loro sonorità da parte dei vari gruppi) e naturalmente sanno altrettanto bene come interpretare il ruolo di maestri. Basta guardare il pubblico: eterogeneo, infinito ma accomunato da T-shirt della band in tutte le salse, di tutte le ere. E la scaletta questa volta non può configurarsi diversamente da un omaggio alla loro vecchia carriera. Non possono mancare “The Prisoner”, “The Trooper”, “Can I Play With Madness”, “The Number Of The Beast”… Una scaletta volta a fare felici gli astanti e, naturalmente, anche un po’ ad autocelebrarsi. Ma gli Iron Maiden se lo possono permettere. A rovinare il quadro idilliaco ci pensa solo il provato sound system, che, dopo tre giorni a dir poco perfetti qualitativamente parlando, durante l’esibizione degli inglesi decide di fare i capricci, sporcando parecchio la resa generale. Ma, come la migliore tradizione Anni ’80 vuole, in questi concerti spesso l’atto stesso del viverlo è sufficiente a colmare cuori, fantasia e orecchie. Scorrono “Run To The Hills”, “Fear Of The Dark” e “Iron Maiden”, tutto compresso in una dimensione senza tempo. E le scenografie seguono la storia riassunta questa sera dalle vergine di ferro, con frequenti cambi di fondale. Ma il finale deve prima o poi sopraggiungere, e ce lo si aspetta appena i Nostri lasciano per qualche minuto il palco prima di attaccare e chiudere la celebrazione con “Aces High”, “The Evil That Man Do” e “Running Free”.