A cura di David Gutman e Silvia Bertolotti
Il Graspop Metal Meeting taglia il traguardo delle venti edizioni e celebra l’anniversario in pompa magna: cinque palchi (di cui due main stage) e un bill di 108 band, impossibile da seguire nella sua totalità ma che sicuramente non può lasciare delusi data l’ampia panoramica offerta della scena metal attuale nelle sue differenti declinazioni (death, hardcore, classic, symphonic, thrash, modern). Al contempo, un bill così variegato, proprio per l’opportunità di avere una buona visione delle attuali produzioni, non può non sollevare spunti di riflessione sullo stato odierno del metal tutto. La domanda che inevitabilmente ci si pone si rifà ad un commento di Gene Simmons dei Kiss, il quale ha fatto notare che oggi mancano nuove figure iconiche del rock (ovvero artisti/band che almeno la metà di persone selezionate a caso per strada menzionino come ‘big name’): alla grande svolta generazionale che sta avvenendo e avverrà nel metal, chi oggi è pronto a prendere lo scettro di icona? E l’organizzazione del Graspop, a modo suo, prova ad abbozzare una risposta selezionando come headliner figure iconiche con papabili eredi al trono: Kiss e Marilyn Manson, Judas Priest e Slipknot, Scorpions e Faith No More. Tutto il cartellone è strutturato infatti per opposizione, concetto interessante che fa divertire e permette a chiunque di contrapporre il passato che scivola via con il futuro che avanza. Il primo pomeriggio, invece, scandaglia cio che è sospeso tra underground e star system, spesso permettendo di assaporare realtà genuine ed appaganti. Messa da parte l’analisi semantica del festival, non si possono che elargire note di merito per l’organizzazione: timing perfetti, acustica incredibilmente limpida anche nei tendoni Metal Dome e Marquee, service impeccabile e pubblico squisitamente festaiolo ed estremamemente piacevole. Purtroppo, una serie di sfortunate coincidenze personali e il bill immenso ci hanno permesso di seguire l’evento solo in parte, perdendo malvolentieri il terzo e conclusivo giorno. Ecco ciò che abbiamo potuto reportare della manifestazione belga.
SNOT
In puro revival-style apriamo la giornata assistendo sul Jupiler Stage (il piu piccolo dei cinque) alla performance degli SNOT. Con un solo album vero all’attivo, datato 1997, e con un nuovo cantante (Carl Bansley) a sopperire alla prematura scomparsa di Lynn Strait, scomparsa che decretò nel ’98 la fine dell’avventura musicale della formazione californiana. Quello che vediamo è un concerto spinto ma stranamente datato nei suoni e nell’approccio al pubblico: sembra essere ritornati negli anni ‘90, gli anni del crossover e del nu-metal, genere in cui i Nostri erano destinati ad un successo certo. Pertanto la scaletta non fa altro che snocciolare i capitoli piu interessanti di “Get Some” raccogliendo l’entusiasmo di quanti, memori dell’esordio, sono accorsi sotto il palco. Si parte subito con “SNOT”, “Joy Ride” e “Snooze Button” e tanto basta per capire che il vero mattatore sarà Mike Dooling: personaggio oramai di casa (essendo chitarrista delle celebrità locali Channel Zero), Mike diventa il collante fra pubblico e band. Coordina il piccolo moshpit formatosi dinanzi al palco e ne scandisce la ritmica, riportando ai dolci fasti “Stoopid” e “I Just Lie”. Purtroppo il tempo scorre inesorabile e la finestra a loro concessa si chiude in tempi brevi, ma non senza prima omaggiare i Metallica coverizzando la loro “Hit The Lights” e chiudendo il set con una azzeccatissima “Absent”.
Setlist:
Snot
Joy Ride
Snooze Button
Stoopid
I Just Lie
Deadfall
Tecato
Hit the Lights (cover Metallica, con Franky De Smet-Van Damme)
Absent
NE OBLIVISCARIS
Giusto il tempo necessario per raggiungere il Metaldome e le prime note di “Devour Me, Colossus”, estratto dall’ultimo album “Citadel”, scandiscono per chi scrive il vero inizio del festival: la scenografia di palco aiuta a vincere la luce delle prime ore pomeridiane catapultando il pubblico in un limbo fatto di colori caldi (blu indaco e arancione) che aiutano a godere appieno delle sonorità del combo australiano. E’ la loro prima volta in Europa e si sente l’attenzione a loro rivolta dal pubblico: infatti, è grazie ad una campagna di crowdfunding di successo se questo piccolo grande combo australiano è riuscito ad imbarcarsi in un tour mondiale. La loro setlist ovviamente è incentrata sui capitoli migliori della loro ultima fatica “Citadel”, e quello che maggiormente colpisce è la loro perizia tecnica combinata ad un’orchestrazione complessa anche in ambito live. La band certamente non accetta di ripiegare su semplificazioni e si arrischia dando sfogo alla loro pura indole prog proponendo un set tirato ma dalle mille sfumature sonore: basso, chitarra e violino si intrecciano costantemente in perfetta simbiosi, supportati da un tappeto ritmico all’altezza del genere che presentano. Chapeau.
Setlist:
Devour Me, Colossus (Part I): Blackholes
Pyrrhic
Painters Of The Tempest (Part II): Triptych Lux
And Plague Flowers The Kaleidoscope
ASKING ALEXANDRIA
Tempo di mainstream e easy-listening con il quintetto inglese Asking Alexandria sul Main Stage 1. Il combo d’Albione torna a calcare lo stesso palco dopo due anni, ma con un nuovo cantante: il giovanissimo Ben Bruce a rimpiazzare Danny Worsnop, che ad inizio 2015 ha deciso di focalizzarsi senza compromessi sui propri progetti canori di stampo piu rock. Nuovo vocalist e la differenza si sente: se prima gli AA (con)vincevano con un connubio tra sonorità metalcore, electro e rock, la virata easy con Ben Bruce è ben definita. La scaletta si rifà principalmente alle ultime due fatiche, “Stand Up And Scream” e “From Death To Destiny”, e il contrasto si fa immediato, portando il pubblico a confrontarsi su sonorità ben note ma che prendono con Ben un taglio incredibilmente piu emo-core. Le ragazzine delle prime file molto probabilmente non ne danno peso, ma si puo notare lo sfilarsi delle file piu arretrate, man mano che si procede. Ciononostante, il tiro degli Asking Alexandria è sempre il solito, quello che fa ondeggiare al loro ritmo anche il piu timido sostenitore. E per essere la prima vera performance sul Main Stage, non ci si puo lamentare assolutamente.
Setlist:
Welcome
Closure
Breathless
To The Stage
I Won’t Give In
Run Free
Not The American Average
A Prophecy
If You Can’t Ride Two Horses At Once… You Should Get Out Of The Circus
The Final Episode (Let’s Change The Channel)
LIFE OF AGONY
E che periodo di revival sia! Dopo esser ritornati al 1997 con gli SNOT, aggiungiamo ancora qualche anno retrocedendo agli inizi degli anni ‘90 con i Life Of Agony: ritrovarli sul Main Stage 2 è una piacevole sorpresa, ma una sorpresa ancora maggiore è vedere che si meritano totalmente di calcare questo palco nonostante abbiano rilasciato, a conti fatti, solo due dischi di merito oramai vent’anni fa. Come ci si poteva pertanto aspettare, il concerto diventa un tributo ai Life Of Agony degli anni bui degli esordi, ripercorrendo nell’ora abbondante a loro disposizione i capitoli principali di “River Runs Red” più un paio di menzioni da “Ugly” e “Soul Searching Sun”. Joey Z sforna quei riff monolitici che tanto li avevano caratterizzati agli esordi, mentre la rediviva Mina Caputo sembra non aver perso la presa sui pezzi nonostante i suoi recenti avvenimenti transgender. E la sorpresa dei LOA risiede tutta nel pubblico: l’accoglienza è caldissima e il supporto non viene mai a mancare durante tutta la performance, fagocitando letteralmente Mina Caputo a piu riprese. Nonostante un passato lontano e una presenza fioca negli ultimi anni, la qualità delle loro produzioni ha mantenuto le memorie vive. E la band ne gode: non si può negare che la loro attitudine è propria da big band, scandendo a ritmo serrato i pezzi piu significativi del loro repertorio con precisione pachidermica. Un piacevolissimo ritorno.
Setlist:
River Runs Red
This Time
Bad Seed
Love To Let You Down
Respect
Lost At 22
Weeds
I Regret
My Eyes
Through And Through
Underground
CAVALERA CONSPIRACY
Si salta da un Main Stage all’altro e dopo l’ennesimo tuffo nel passato con i Life Of Agony è ora invece il momento del personaggio atemporale per antonomasia: Max Cavalera, con i suoi Cavalera Conspiracy. Interessante è notare il pubblico variegato accalcatosi sotto il Main Stage 1: un pubblico diverso per età e stile a dimostrare quanto questo personaggio, seppur talvolta contestabile per l’eccessiva produzione discografica, rappresenti assieme a suo fratello Igor un punto di riferimento per chi di metal vive e col metal è cresciuto. E questo i fratelli Cavalera lo sanno benissimo. Quindi, dopo una partenza a raffica tratta dall’ultimo album “Pandemonium”, ecco che i Nostri iniziano a sciorinare una rivisitazione di quanto prodotto in trent’anni di varie formazioni: si inizia con un omaggio ai Sepultura di “Chaos AD”, passando per i Nailbomb e ritornando alle perle prodotte dal combo brasiliano, tinteggiate qua e là da brevi capitoli tratti dalla discografia dei Cavalera Conspiracy. E il concerto diventa una festa per il pubblico che canta e per Max che si lascia andare a più di un sorriso nel vedere tanta energia profusa. Ma è sbagliato credere che sia una celebrazione di cover, perchè la band un proprio manifesto artistico ce l’ha: hardcore e grind-core la fanno da padrona (non a caso, al basso, troviamo Nate Newton dei Converge). E il risultato si fa sentire: tutta la performance è gestita con il piede sull’acceleratore. Il repertorio dei Seps prende nuova forma ed energia mentre i pezzi originali trasmettono quell’istinto violento che si era apprezzato su disco. I 75 minuti riservati a loro scorrono veloci come l’esecuzione dei pezzi e in men che non si dica si arriva alla chiusura quasi scontata: appena il riff di “Roots Bloody Roots” parte, la terra trema e la platea salta accompagnando la band nella celebrazione finale di un’icona del metal moderno.
Setlist:
Babylonian Pandemonium
Sanctuary
Terrorize
Refuse/Resist (Sepultura cover)
Sum Of Your Achievements (Nailbomb cover)
Torture
Beneath The Remains / Desperate Cry / Dead Embryonic Cells (Sepultura cover)
Killing Inside
We Who Are Not As Others (Sepultura cover)
Attitude (Sepultura cover)
Warlord
Orgasmatron (Motörhead cover)
Roots Bloody Roots
BODY COUNT
La sorpresa della giornata scocca pochi minuti dopo l’intramontabile riff di “Roots Bloody Roots”. Ice-T sale sul Main Stage 2 accompagnato dalla sua gang. Il pubblico è disorientato dalla presenza di questo personaggio che ritorna improvvisamente dal passato. Ma il suo rientro è in grande stile: si parte con il celebre incipit di “Body Count’s In The House” e subito dopo si scatena l’inferno del combo gangsta/rap/metal: tutta la tensione razziale e sociale della Città degli Angeli viene data in pasto al pubblico belga attraverso le note di pezzi come “Body M/F Count”, “Bowels Of The Devil”, “Drive By”, “Voodoo”. Le perle dei loro primi due album, “Body Count” (1992) e “Born Dead” (1994), vengono riproposte in chiave fedele all’originale, magari un pò troppo decontestualizzate temporalmente ma sempre attuali in termini musicali e, purtroppo, di contenuti. Ernie C. macina riff che suonano freschi nella forma e nei suoni, mentre la sezione ritmica, rigenerata dalle nuove presenze di Vincent Price e Ill Will, porta una ventata sonora inusuale per il pubblico del Graspop, iniettando una dose di beat hip hop sporcati quel giusto di metal e crossover. La sorpresa iniziale e il suo entusiasmo reggono, anche se il barcone Body Count gioca troppo sul “quanto è pericolosa LA!” trovando l’apice quando il piccolo (si fa per dire) Ice-T viene introdotto sul palco per cantare “Body Count”. Lo spettacolo, da serio e tenebroso, prende le forme di una rappresentazione circense, ma ci sta, alla fine siamo ad un festival e il pubblico presenzia per divertirsi.
Setlist:
Body Count’s In The House
Body M/F Count
Masters Of Revenge
Bowels Of The Devil
Necessary Evil
Manslaughter
Drive By
Voodoo
There Goes The Neighborhood
Body Count
KKK Bitch
Disorder (The Exploited cover)
Talk Shit, Get Shot
Cop Killer
IN FLAMES
La giornata avanza e il bill prende sempre più forma attorno alle grandi realtà rock/metal esistenti. Pertanto non c’è da stupirsi se, per l’ennesima volta, troviamo sul Main Stage del Graspop gli svedesi In Flames. Ad ogni edizione, oramai rappresentano un perno fisso del bill, con l’unica differenza che, di anno in anno, scalano la programmazione avvicinandosi alla posizione da headliner. Non avendo un nuovo disco da promuovere, i Nostri non si lasciano sfuggire l’occasione per riproporre il meglio della loro discografia pescando le perle dalle loro produzioni limitandosi a scavare fino a “Clayman”, del 2000. L’impianto luci è di nuovo design per gli In Flames e si connubia bene con il cielo che si oscura e si fa carico di pioggia. Si parte con “Only For The Weak”, dal succitato “Clayman”, che ben si contrappone al successivo “Everything’s Gone” dal recente “Siren Charms”. L’intento è chiaro: la loro è un’affermazione di quanto sia stata valida la loro intera discografia, senza la necessità di focalizzarsi su particolari release per salvare faccia e concerto. Una bella prova che, anche se non li candida a futura icona del metal odierno, sicuramente garantisce loro una posizione di rilievo nel panorama europeo e mondiale. La performance è ineccepibile da ogni punto di vista, e alla chiusura di “My Sweet Shadow” si è consapervoli di aver assistito ad un concerto degno del loro nome.
Setlist:
Only For The Weak
Everything’s Gone
Bullet Ride
Where The Dead Ships Dwell
Paralyzed
Alias
Deliver Us
Cloud Connected
Drifter
The Quiet Place
Delight And Angers
Rusted Nail
The Mirror’s Truth
Take This Life
My Sweet Shadow
SLASH
Un palco sovrastato da un muro di stack Marshall può significare una sola cosa: Slash è in arrivo. Altro ospite oramai fisso della rassegna belga è il ‘pifferaio del rock’, assurto talmente ad icona tanto che lo si potrebbe semplicemente identificare col suo cilindro e la fidata Les Paul. E la sua confidenza nel calcare il palco la dice lunga sulla sua vita: lo si può amare od odiare, ma innegabile è il peso della sua figura nell’iconografia rock…e lui lo sa. La band è costruita attorno a sé, ma senza annientare gli altri elementi: il rock non lo suoni da solo. E pertanto la figura del frontman ufficiale è lasciata meritatamente a un Myles Kennedy in stato di grazia. Si parte subito con “You’re A Lie”, per poi incendiare gli astanti con “Nightrain” dei Guns. D’altronde il pubblico è questo che si aspetta e Slash ha tutto il diritto (e la capacità) di dare all’audience ciò che l’audience vuole: la band supporta, Myles onestamente non fa rimpiangere chi sapete voi, e la classe sta nel sapere andare oltre. Chi si aspetterebbe un revival dei Guns si sbaglia, Slash non ne ha bisogno; solo due cenni a seguire in mezzo a tante altre sue produzioni piu recenti. E il pubblico sa, accetta e non chiede altro. La classe non è acqua.
Setlist:
You’re A Lie
Nightrain (Guns N’ Roses cover)
Avalon
Back From Cali
You Could Be Mine (Guns N’ Roses cover)
The Dissident
World On Fire
Anastasia
Sweet Child O’ Mine (Guns N’ Roses cover)
Slither (Velvet Revolver cover)
Paradise City (Guns N’ Roses cover
KISS
Momento clou della giornata: la celebrazione dell’icona per antonomasia del rock, la creatura venuta dallo spazio che ha ispirato tutto quello che oggi vediamo nelle sue varie declinazioni: i Kiss. Il concerto parte a razzo scoprendo subito le carte: si apre con “Detroit Rock City” e son subito fuochi, raggi laser, piattaforme mobili che rendono la performance del quartetto newyorkese uno spettacolo circense di classe. Si riparla di classe, infatti, come per Slash: la performance musicale in sè è infatti ineccepibile, ricalcando le hit che hanno assurto i Kiss a vere icone rock. “Detroit Rock City”, “Psycho Circus”, “I Love It Loud”, “War Fire”, “Do You Love Me?”, “God Of Thunder”, per citarne alcune. E il pubblico giovane (e non) si diverte cantando a squarciagola – strano per un popolo riservato come quello belga – e lustrandosi gli occhi con uno spettacolo di prima scelta: infatti non mancano le scene suggestive, come ad esempio Gene che sputa fuoco su “War Machine” o sangue e fuoco mentre si intrattiene nel suo solo di basso; Paul Stanley che vola sopra il pubblico, mentre la batteria di Eric Singer non rimane ferma un attimo dominando la platea dall’alto. E lo spettacolo nella sua interezza, con i suo effetti visivi, i giochi pirotecnici e le fiammate, ci porta con la fantasia a vederli come divinità greche discese dall’Olimpo per ricordare a noi umani che grazie a loro abbiamo il Rock. E non a caso, il concerto si chiude con “God Gave Rock’n Roll To You!”.
Setlist:
Good Times Bad Times (Led Zeppelin song)
Detroit Rock City
Deuce
Psycho Circus
Creatures Of The Night
I Love It Loud
War Machine
Do You Love Me?
Hell Or Hallelujah
Guitar and drum solos
Calling Dr. Love
Lick It Up
Bass solo
God Of Thunder
Cold Gin
Love Gun
Black Diamond
Encore:
Shout It Out Loud
I Was Made For Lovin’ You
Rock And Roll All Nite
God Gave Rock ‘n’ Roll To You II
SHINING
La prima parte della giornata centrale è forse la più interessante dell’intero festival, proponendo in primis il sound black-jazz degli Shining. I norvegesi scelgono un palco scarno di effetti visivi per portare tutta l’attenzione del pubblico sull’impatto sonoro devastante che sanno proporre. Un conto è goderseli su CD, un conto è passare attraverso un set intero: un incrocio fra i Masada, i John Zorn e i Nine Inch Nails.
L’attacco è immediato e impetuoso, ma ancora morbido, con “I Won’t Forget”, tratto dalla loro ultima fatica “One One One”. Preferiscono scaldare il pubblico e attrarre a loro gli astanti che ancora ignorano la loro reale forma musicale. I veri Shining, eclettici e black-jazz, lentamente portano il loro pubblico nel delirio sonoro di cui sono maestri, così come lentamente iniziano a scavare a ritroso nella loro discografia, passando da “One One One” a “Blackjazz” e “Grindstone”, innalzando la tensione a livelli troppo alti per essere contenuti nel Metaldome. Il pubblico attende ammutolito e incapace di abbozzare un gesto che possa impreziosire la cornice di uno spettacolo unico.
Setlist:
I Won’t Forget
The One Inside
Fisheye
My Dying Drive
Stand
Last Day
Thousand Eyes
The Madness And The Damage Done
THE OCEAN
Tempo di una birra e di riprendersi dalla performance del combo norvegese che si viene catapultati nelle profondità marine dei tedeschi The Ocean. Il quintetto opta per un impianto scenografico suggestivo, con riflessi marini proiettati alle loro spalle. Il loro concerto è tutto focalizzato sulla loro ultima fatica “Pelagial”. E ci tengono a fare le cose in maniera coerente: o tutto o niente. Il disco viene snocciolato seguendo la tracklist originale e questo piace al pubblico, che riesce a seguire il set come una seduta di meditazione yoga: la trance generata è profonda ed è impossibile distogliere l’attenzione da una narrazione musicale potente, precisa, centrata su pathos e furia, propriamente gestite con un controllo dinamico oculato. La formula post-metal è messa in pratica nella forma migliore e il concerto scorre piacevolmente. Il combo teutonico dimostra la sua arte, conscio di una maturità raggiunta in una carriera ormai decennale.
Setlist:
Epipelagic
Mesopelagic: Into The Uncanny
Bathyalpelagic I: Impasses
Bathyalpelagic II: The Wish In Dreams
Bathyalpelagic III: Disequilibrated
Abyssopelagic I: Boundless Vasts
Hadopelagic I: Omen Of The Deep
Hadopelagic II: Let Them Believe
Demersal: Cognitive Dissonance
Benthic: The Origin of Our Wishes
CODE ORANGE
Si abbandona il Metaldome e, proprio sul palco antistante, si ha l’occasione rara di assistere al MACELLO! Quattro ragazzini (fra i quali una innocente fanciulla alla chitarra) aprono le danze per quella che sarà, almeno per chi scrive, la prova più incisiva dell’intero festival. I Code Orange propongono un harsh-core sincero e violentissimo per sonorità ed esecuzione, che raramente si riesce a trovare. Chiara è la loro matrice punk, ma hanno la capacita di andare oltre e sposare quella violenza hardcore tanto cara alla carovana Converge (Kurt Ballou è il loro produttore, difatti): e il risultato è sincerità. Sì, sincerità…perchè ogni posa, ogni gesto prestudiato è lasciato fuori dal loro palco. I Code Orange pensano solo a suonare e affrontano il set come se si trovassero in sala prove: distribuzione disordinata dei membri sul palco, timida relazione col pubblico, interesse solo ad eseguire come studiato i pezzi. La scaletta proposta è tutta centrata sulla loro ultima fatica “I Am King”. Con un misto fra hardcore, punk e sludge, il quartetto di Pittsburgh spinge i limiti sonori oltre ogni decenza estetica e il pubblico gode: il mosh che si forma sotto il palco è unico nella sua violenza; chi partecipa vuol far male ed essere picchiato, appunto come la lava musicale dei Code Orange, che salutano dopo mezz’ora scarsa lasciando in chi è sopravvissuto la speranza di vederli ancora presto, molto presto.
Setlist:
Dreams In Inertia
I Am King
Slowburn
Starve
Alone In A Room
Thinners Of The Herd
Mercy
Unclean Spirit
My World
Your Body Is Ready…
Bind You
GODSMACK
La giornata avanza e i primi ‘Gods of Rock’ iniziano a calcare il Main Stage. E’ la volta dei Godsmack, band di gran successo negli USA, nata come costola easy del grunge e del metal degli anni ‘90. La band di Sully Erna si presenta con una proposta sonora solida, grazie ad una carriera lunga ma decisamente costante e ricca di punti fermi lungo tutto il suo sviluppo. E la setlist del concerto ne è una dimostrazione: una panoramica delle loro hit tratte da ogni loro album, a partire ovviamente da “1000hp”, loro ultima release risalente al 2014. Per i Nostri è un’occasione non da poco essere al Graspop: infatti per loro è alquanto raro calcare il suolo europeo e quindi “1000hp” si presenta presto come una dichiarazione d’intenti: 1000 cavalli di pura potenza! Perché è proprio su un suono furbo, easy e potente che i Godsmack hanno fatto breccia nelle classifiche e oggi usano questo loro ‘potere’ per catturare il pubblico presente. Sully vuole il suo pubblico e cerca il contatto continuo, lo provoca e lo incoraggia, chiede moshpit e cori e, nonostante le prime incertezze, il pubblico si concede. Una fatica, ma alla fine la festa arriva. E arriva al momento giusto, quando il vocalist inizia a calcare la mano sui fasti iniziali della loro carriera: e così, pezzi come “Voodoo”, “Keep Away”, “Whatever” e “Stand Alone” risuonano prepotenti nel mezzo del pomeriggio attraverso le strade di Dessel.
Setlist:
For Those About To Rock (We Salute You)
1000hp
Cryin’ Like A Bitch
Awake
Something Different
Keep Away
Voodoo
Batalla De Los Tambores
Whatever
I Stand Alone
FIVE FINGER DEATH PUNCH
Come per i Godsmack, il suono compresso dei Mesa Boogie, con quella bella equalizzazione a V che tanto piace e facilmente si fa amare, é la firma sonora del combo di Las Vegas Five Finger Death Punch. Lo spettacolo è anche in questo caso diretto, con una cultura macho visibilmente a farla da padrona nei suoni e nell’attitudine a calcare il palco. Ma l’effetto piace al pubblico. E’ facile fare headbanging con la testa e farsi prendere dall’energia del ritmo generato dalla sezione ritmica dei FFDP: la scaletta, furba, parte dai fasti del quintetto, che nonostante la relativa breve vita può contare su una considerevole produzione discografica. E così, cavalli di battaglia, a partire da “Under And Over It”, vengono schiaffati direttamente sul muso degli astanti. Gli album rispolverati vanno da “War Is The Answer” a “American Capitalist” e “The Wrong Side Of Heaven And The Righteous Side Of Hell part I e II”. Interessante notare come nessun pezzo dal disco d’esordio venga presentato, così come non la band si arrischi a sfidare il pubblico presentando qualche estratto dal nuovo disco in uscita il prossimo settembre. Ma alla fine è giusto: danno il meglio per il miglior spettacolo possibile, diretti, groovy ed onesti.
Setlist:
Under And Over It
Burn It Down
Hard To See
Lift Me Up
Bad Company (Bad Company cover)
Burn MF
Coming Down
Never Enough
Encore:
The Bleeding
The House Of The Rising Sun
ALICE COOPER
Se di icone rock si parla, certo non si può sorvolare su un personaggio iconico ed essenziale come Alice Cooper. Se oggi abbiamo Marilyn Manson o i Ghost, tanto per citare qualcuno, è quasi tutto merito suo. Il palco è arrangiato per la migliore delle serate: lustrini, infermiere, carozzine di bambini e una band a giocare da primattore nello spettacolo sono gli ingredienti di cui si serve Alice Cooper. E’ uno show dove nulla viene lasciato al caso, a partire da una meticolosa scaletta, passando per gli elementi di costume necessari a supportare ogni pezzo proposto (bastoni, boa di struzzo, cilindro…), fino all’interazione con la band. Si ha come l’impressione di assistere, nella più positiva delle accezioni, ad uno spettacolo di marionette del migliore dei mastri burattinai: il risultato è eccelso, divertente e mai noioso. E cosi la festa fa scorrere pezzi storici quali “No More Mr. Nice Guy”, “Under My Wheels”, “Hey Stoopid”, “Feed My Frankestein”. E anche chi non è avvezzo allo zio Alice non potrà non drizzare le orecchie al fluire dei brani, come un passato ignaro che improvvisamente ritorna, ma a cui non si trova risposta.
Setlist:
The Underture
Department Of Youth
No More Mr. Nice Guy
Under My Wheels
Billion Dollar Babies
Hey Stoopid
Dirty Diamonds
Welcome To My Nightmare
Go To Hell
Feed My Frankenstein
Ballad Of Dwight Fry
Killer
I Love The Dead
I’m Eighteen
Poison
KORN
L’estate del ‘94 fu un’indimenticabile estate per quanti come il sottoscritto si destarono ai riff di “Blind” e “Predictable”. E quest’oggi ecco che si celebra il ventennio (sigh!) da quella release che drammaticamente segnò l’evoluzione del metal moderno. E per fare le cose degnamente, il quintetto di Orange County, oramai orfano solamente del batterista David Silvera, si cimenta nel riproporre, seguendo fedelmente la scaletta orginale, il loro debutto. Per meglio calarsi nella parte, addirittura le tute Adidas di un tempo vengono ripescate dall’armadio e l’impianto scenografico ripropone quello che era solito essere il loro set up agli esordi: file di cabs 4X12 e candele sopra di esse. Il tintinnio del ride fa parte da tempo dell’incipit di ogni loro concerto, ma questa volta si fa carico di una tensione maggiore. Purtroppo l’esordio non sarà dei migliori, con il microfono di Jonathan Davis che fa cilecca e si perde nelle frequenze dei suoi colleghi. Ma il pubblico non ne ha bisogno: sembra quasi di essere ad un concerto della Pausini: tutti-ma-proprio-tutti sono presi a cantare a squarciagola ogni singolo pezzo. E la scaletta viene da sè, automaticamente la memoria diventa un CD player che anticipa di quella frazione di secondo la nota a seguire, tanto quel disco ha segnato la memoria di tutti i presenti: “Ball Tongue”, “Need To”, “Clown”, “Divine” scorrono successivamente uno dietro l’altro senza tregua alcuna. Tutti i dettagli sono curati, l’esecuzione rimane fedele all’originale, se non per certi fill di batteria propri di Ray Luzier. Ad introdurre “Shoots And Ladders”, non può mancare la cornamusa di Jonathan, che viene accolta con un boato dal pubblico. A rendere poi più melodrammatica la performance, ci pensa il cielo, che inizia a riversare lacrime di commozione collettiva. Alla conclusione di “Daddy”, i Nostri si dileguano per poi ritornare come ad anticipare il prossimo revival: “Falling Away From Me” e “Freak On A Leash”. Ma dobbiamo ricordargli che l’anno prossimo scatta il ventennio da celebrare per “Life Is Peachy”?
Setlist:
Korn
Blind
Ball Tongue
Need To
Clown
Divine
Faget
Shoots And Ladders
Predictable
Fake
Lies
Helmet In The Bush
Daddy
Encore:
Falling Away From Me
Freak On A Leash
SLIPKNOT
Dici Korn e ti rispondono Slipknot. Non si contano ormai piu le presenze degli Slipknot negli ultimi anni: Graspop è territorio loro, come se fosse una versione europea del Knotfest americano. E pertanto ci tengono a sorprendere un pubblico immenso. L’impianto scenografico è nuovo: niente più fuochi e scenografia post-industrial, facenti posto ad un’estetica da circo degli orrori, con un mega clown gigante a sovrastare la sezione ritmica. La partenza è per forza incentrata sulla loro ultima fatica: “Sarcastrophe” apre e spiazza, ma subito si va a ripescare nel passato con “The Heretic Anthem” da “IOWA”. La carovana mascherata deve scaldare il pubblico con colpi facili prima di trascinarli nel loro spettacolo dell’orrore. E pertanto seguono “Psychosocial”, “The Devil In I” e “AOV” a creare l’atmosfera giusta per introdurre la loro potenza di fuoco massima quando attaccano con gli apici del disco d’esordio. E così ecco i classici, “Eyeless”, “Spit It Out”, “People=Shit”, arrivare al momento giusto per cogliere il climax del concerto, con un Corey Taylor totalmente padrone del palco, della band, del pubblico. Ma questa tattica, oramai divenuta un leit-motiv degli ultimi anni, può diventare un’arma a doppio taglio: da una parte i ‘Knot tirano fuori il meglio di loro, con un’esecuzione come sempre precisa e chiara e il solito impatto sonico; d’altro canto, però, iniziano a sollevare alcuni dubbi: ma è possibile che ogni loro concerto, da anni, debba essere strutturato sempre alla stessa maniera? A introdurre ci sono le ultime hit e poi giù a fare perno sul loro disco d’esordio? Non stiamo parlando di una delle band piu significative a livello di fama ai giorni nostri? Questa domanda ci accompagnerà senza una possibile risposta finale fino alla fine, nonostante il cuore ci spinga a lanciarci nell’inferno assieme a loro.
Setlist:
XIX
Sarcastrophe
The Heretic Anthem
Psychosocial
The Devil In I
AOV
Vermilion
Wait And Bleed
Killpop
Before I Forget
Duality
Eyeless
Spit It Out
Custer
Encore:
742617000027
(sic)
People = Shit
Surfacing
’Til We Die