26-27/05/2023 - GRAVELAND FESTIVAL 2023 @ Hollandsdcheveld (Olanda) -

Pubblicato il 05/06/2023 da

Report di Luca Pessina e Giacomo Slongo
Introduzione di Luca Pessina

Non c’è cosa più bella di venire ancora sorpresi dalla qualità di un evento, anche quando si hanno alle spalle decenni di esperienze festivaliere in ogni angolo di Europa (e oltre).
Siamo partiti verso i Paesi Bassi per assistere al Graveland Festival con le giuste aspettative, certi che anche in questo contesto per noi nuovo avremmo riscontrato la tipica professionalità nordeuropea, tuttavia quanto ci ha accolti è andato ben presto oltre le più rosee previsioni. L’evento olandese ha alle spalle solo una manciata di edizioni (con in mezzo due anni di pausa causati dalla pandemia), ma a nostro avviso può già legittimamente essere considerato una più che solida realtà del circuito europeo.
Avente luogo nei pressi di Hoogeveen – paesino situato nel nordest dell’Olanda, a circa un paio d’ore di auto da Amsterdam – l’happening si sta facendo notare per un cartellone tendente al metal estremo, con un mix di death e black metal in cui trovano spazio sia vecchie glorie che nomi emergenti di sicuro interesse per tutti i cultori dell’underground.
Oltre a queste line-up assemblate con cura e passione, va quindi segnalata un’organizzazione di prim’ordine, a partire da una location piccola e al contempo suggestiva, con l’unico palco collocato in un parco nei pressi di un lago, sulla cui riva è possibile anche trovare una vera e propria spiaggia con tanto di bar/ristorante. L’area festival è di dimensioni contenute – del resto la capienza massima è di poco superiore alle mille unità – ma ogni cosa appare al proprio posto, da un bancone del bar ampio e ben servito da numerosi addetti, a una griglia e a una cucina per il servizio catering, passando ovviamente per gli immancabili stand di merchandise e dischi (una manciata, ma ben forniti). I prezzi per un panino o un piatto vanno dai tre agli otto euro, idem quelli delle birre e dei soft drink: somme assolutamente nella media e che siamo stati ben felici di spendere una volta constatata la buona, se non ottima, qualità delle materie prime.

Come spesso avviene a festival olandesi, per acquistare cibo e bevande è prima necessario cambiare i contanti in gettoni, ma il servizio è rapido, ben segnalato e permette effettivamente di salvare tempo sia agli avventori, sia a coloro che si occupano di ricevere le ordinazioni e il pagamento. In due giorni, raramente ci siamo imbattuti in vere e proprie file, constatando puntualmente un servizio cortese ed efficiente. I gettoni non utilizzati possono inoltre essere restituiti e ricambiati in denaro entro un certo orario.
Per questa edizione, il meteo ha quindi fatto il resto, offrendo due giorni all’insegna di un piacevole sole primaverile, mettendo il pubblico nelle condizioni di godersi lo spettacolo senza dovere fare i conti con temperature troppo elevate o, di contro, troppo rigide (nonostante in serata un po’ di umidità si faccia indubbiamente sentire), con il pericolo pioggia per fortuna ampiamente scongiurato. Restando su questo argomento, ci viene da pensare che, nell’eventualità di piogge e acquazzoni, la location non sia in grado di fornire alcun vero riparo agli avventori, dato che per allestire tendoni o altri tipi di coperture si dovrebbe per forza di cose ampliare l’area o, per assurdo, rimuovere gli alberi (i quali, quando il sole splende, sanno invece offrire della gradita ombra in alcuni punti del terreno). Se si decide di presenziare all’evento, è quindi bene controllare il meteo e sperare in giornate soleggiate.
Parte del parco è infine adibita a campeggio per i frequentatori del festival che preferiscono pernottare in loco: non abbiamo usufruito di tale servizio, ma ci è sembrato che tutto girasse per il meglio anche su quel fronte, con il camping situato a poche decine di metri dall’ingresso e con il bar/ristorante della vicina spiaggia convenzionato per offrire colazioni, ecc. Anche il numero di bagni chimici allestiti all’interno dell’area ci è sembrato perfettamente adeguato al numero di avventori: anche qui nessuna coda e segnaliamo un livello di pulizia più che decoroso per un evento open air di questo calibro.
Insomma, pensando al Graveland 2023 ci vengono in mente solo elogi per un’organizzazione che sa dove mettere le mani e fare le cose per bene sia a livello prettamente artistico che logistico. Forse l’offerta gastronomica potrebbe essere un po’ più ampia, ma si tratta di aspetti che solitamente vengono affinati con il tempo.
Chiaramente questo non è un festival per coloro in cerca di un megaevento con chissà quali esperienze di contorno: da queste parti non ci sono luna park, villaggi vichinghi o discoteche; si viene qui solo per godersi la musica e in questo senso l’offerta è intelligente e abbondante. Si vede che le ‘menti’ del festival sono persone che seguono assiduamente la scena e le nuove uscite, esattamente come avviene nei vari Kill-Town, Maryland Deathfest o appuntamenti simili. Se si verranno a creare le giuste condizioni, sarà quindi per noi un vero piacere tornare anche il prossimo anno. Intanto, se amate i generi in questione, non possiamo fare altro che invitarvi a seguire con attenzione le mosse di questo evento-gioiellino sperduto nella campagna olandese.

VENERDÌ 26 MAGGIO

Smollati i bagagli in albergo e raggiunta in macchina la verde e intima location del festival, il primo gruppo del bill che riusciamo a seguire sono gli HORNS OF DOMINATION, autori un paio di anni fa di un esordio eccellente quale “Where Voices Leave No Echo”. Le aspettative nei confronti del trio bavarese – almeno per quanto ci riguarda – erano molto alte, ma purtroppo bastano pochi minuti per realizzare che lo spettacolo offerto nella sede del Graveland Festival non si rivelerà esattamente di quelli indimenticabili e privi di sbavature, anzi.
Detto che la cornice open-air/diurna non è mai la condizione migliore per esprimere (e recepire) un certo tipo di metal estremo, gli Horns of Domination finiscono tristemente per autoassegnarsi la palma di band peggiore dell’evento, gestendo in maniera parecchio impacciata dei problemi occorsi alla pedaliera del cantante/chitarrista C.G. e trasmettendo un senso di precarietà nell’esecuzione non degna della qualità del loro repertorio. Il death-black elegante e ricco di sfumature di brani come “No Beyond (For No One)” e “Throne of Ecstasy” perde così di impatto e incisività, venendo riproposto da una formazione che, specialmente nella figura del suddetto frontman, lascia trapelare una confidenza con la dimensione live ancora tutta da acquisire. Rimandati alla prossima o in un altro contesto. (Giacomo Slongo)
Fortunatamente, ci pensano quei trogloditi dei CRYPTIC BROOD a risollevare la situazione e a farci entrare nello spirito appagante del festival. Lungi dal vantare l’autorevolezza di gente come Undergang e Fetid, tra i principali esponenti di quel filone underground death metal intento a seguire le orme dei maestri Autopsy, Grave e Rottrevore, i Nostri compensano una scrittura sfacciatamente derivativa (e a tratti un po’ disordinata) con un tiro mostruoso e tipico di quei gruppi con decine e decine di concerti alle spalle, insozzando un suono già di per sé lercissimo con un piglio hardcore-punk che dal vivo porta chiaramente il pubblico a infervorarsi.
È davvero la fiera dell’ignoranza, fra rallentamenti melmosi e accelerazioni caracollanti a succedersi senza soluzione di continuità all’interno di ogni brano, e dal canto nostro non possiamo che apprezzare una simile dispendio di riff e ritmiche vincenti. Se su disco Steffen Brandes e compagni sono onestamente una formazione nella media, un ‘more of the same’ che non sposta gli equilibri del filone, in sede live – grazie al giusto mix di attitudine, esperienza e tecnica – le cose cambiano. E di parecchio. (Giacomo Slongo)
Il clima ‘di festa’ dei Cryptic Brood viene prontamente ridimensionato dagli ARSGOATIA, tra le sorprese black metal di questo 2023 grazie all’esordio “Hiding Amongst Humans” dello scorso febbraio. Parliamo di musica malvagia confezionata da artisti a cui piace evidentemente prendersi sul serio, le cui conoscenze (accumulate in gruppi come Our Survival Depends on Us, Daeth Daemon e Belphegor) vengono messe al servizio di un suono penetrante e luciferino, tra Ascension, Fides Inversa e Watain. Consci del proprio phisique du role, con il cantante/bassista B.R. a dominare la scena, i black metaller austriaci si rendono protagonisti di un set intenso e curato, nel quale il succitato debutto viene praticamente riproposto per intero e accolto dai favori via via sempre più unanimi della platea. Fra l’ottima presenza scenica e una resa vocale/strumentale precisissima, le varie “In the Veins of the Saints”, “Slay Burn Immolate” e “Tyrant of All Men” si impongono come le cose migliori udite in queste prime ore di festival, coronando l’aspetto minaccioso del quartetto (imbrattato di sangue e face painting) e definendone ulteriormente le ambizioni all’interno dello scenario estremo europeo. Qualcosa ci dice che show del genere siano solo l’inizio di un percorso importante e affatto trascurabile. (Giacomo Slongo)
Con piacere ritroviamo quindi i REGARDE LES HOMMES TOMBER. Da qualche tempo la band francese sta cercando di alzare ulteriormente il proprio profilo a suon di tour e date live in tutta Europa: dopo averli ammirati in Inghilterra lo scorso anno, ci imbattiamo nei ragazzi di Nantes in terra olandese e di nuovo non possiamo che dirci soddisfatti della loro performance. Certo, suonare all’aperto, per giunta in un orario diurno, fa perdere più di qualcosa al gruppo in termini di atmosfera (discorso che può essere allargato a praticamente tutte le band del cartellone), ma l’affiatamento e la ‘spinta’ che il quintetto ci mette davanti sono comunque innegabili. Il concerto verte soprattutto sul materiale recente e su un disco come “Ascension”, con la componente black metal a predominare su quella sludge esplorata soprattutto agli esordi, ma chi conosce il repertorio della formazione sa che i brani tendono comunque a presentare diversi saliscendi e degli sviluppi tutt’altro che monotoni. In questo set baciato dal sole, risplendono in particolare la grande verve e le capacità di frontman del cantante Thomas C., istrionico e magnetico nel suo modo di cantare e di interagire con la platea. Di certo quella dei Regarde Les Hommes Tomber non è insomma una prova ‘timida’: si vede che questa è gente che ama stare sul palco e che è cresciuta con un’idea di musica che è soprattutto live. L’impatto è quindi notevole e il coinvolgimento del pubblico inizia a farsi importante, tanto che non esitiamo a definire il concerto dei ragazzi francesi il migliore della giornata sin qui (Luca Pessina).

Bisogna essere dei cultori – e dei nerd – non da poco per ricordarsi di “Ignis Creatio” (anche noto semplicemente come “Pyogenesis”), fra i primissimi lavori dei PYOGENESIS. La carriera del gruppo tedesco è ormai da decenni votata a sonorità ben lontane dal metal, ma evidentemente chi organizza il Graveland festival ancora si ricorda di un lavoro come il suddetto EP e, in generale, dei lontanissimi esordi death-doom della formazione teutonica, quando il suono era accostabile a quello dei primi Paradise Lost, Anathema o The Gathering.
È piuttosto insolito che una band che ha quasi subito portato la propria musica e la propria carriera in contesti punk rock e alternative accetti di offrire un set ampiamente dedicato ai suoi quasi dimenticati esordi, ma evidentemente Florian Schwarz sotto sotto ha ancora a cuore certa musica, oppure ha semplicemente deciso di fare un favore a un suo vecchio amico fra gli organizzatori. Sta di fatto che in un venerdì pomeriggio del maggio 2023 ci ritroviamo ad ascoltare una manciata di luttuose composizioni death-doom datate 1992, suonate da quattro musicisti che, a prima vista, sembrano tutto fuorché dei metallari. A ben vedere, sarebbe stato ridicolo cambiare look e sforzarsi di apparire a tema solo per quest’occasione, quindi niente da dire sull’approccio di Schwarz e compagni, che, al di là della proposta tenebrosa, giustamente evitando di recitare una parte, comportandosi come se stessero suonando le hit per cui sono realmente conosciuti. Stupisce tuttavia in positivo il growl del chitarrista/cantante, il quale si è mantenuto sufficientemente profondo e vigoroso nonostante l’inutilizzo: davvero buona la sua prova, così come quella dei suoi soci, i quali a livello di esecuzione non sbagliano nulla. In verità non c’è molta gente a seguire lo show – il nome Pyogenesis è ormai davvero poco noto negli ambienti estremi – però fra le prime file si scorgono alcuni fan della prima ora in estasi e ci si compiace del loro entusiasmo. Poteva essere un disastro, invece il set dei tedeschi si rivela a tutti gli effetti più che dignitoso, tanto che la gente applaude convinta anche sul finale, quando i quattro propongono un paio di pezzi recenti per sfruttare al massimo il tempo a loro disposizione (Luca Pessina).
Decidiamo invece di prenderci una pausa durante i TAAKE, vuoi perché la fame inizia a farsi sentire, vuoi perché nel corso degli anni abbiamo avuto modo di saggiare più e più volte le doti live della formazione norvegese. Non vediamo granché dello show di Hoest e compagni, ma basandoci sulla resa dell’opener “Nordbundet” e della successiva “Du ville ville Vestland”, entrambe ripescate dal non più recentissimo “Noregs Vaapen” (2011), l’impressione è che il controverso act di Bergen abbia fatto la solita, buona figura, muovendosi tra classicismo dei fiordi e sbandate black’n’roll con l’esperienza e la ferocia che lo contraddistinguono. Più avanti, dal bar/ristorante sulle sponde del lago adiacente l’area del festival, sentiremo microfono e strumentazione ammutolirsi improvvisamente; inconveniente risolto comunque nel giro di un paio di minuti. (Giacomo Slongo)
Solito (e solido) anche il concerto delle leggende di casa ASPHYX, qui chiamati all’ennesima data di supporto all’ultimo “Necroceros” (2021). Francamente, inizia a diventare difficile trovare parole nuove per descrivere uno show della band guidata dal carismatico Martin van Drunen, a maggior ragione se la scaletta non presenta variazioni tra uno spettacolo e l’altro, ma ciò non toglie che il quartetto sappia sempre come fare la sua bella figura e regalare le giuste emozioni agli amanti del death metal quadrato e vecchio stampo. A livello strumentale, i Nostri si confermano l’equivalente sonoro di un bulldozer, forti di una compattezza invidiabile e di un arsenale di riff e ritmiche pensati apposta per la dimensione live, mentre segnaliamo che a questo giro il buon van Drunen è apparso meno paonazzo e alticcio rispetto allo scorso Metalitalia.com Festival, cosa che – ça va sans dire – ha saputo riflettersi in positivo anche sulla sua prova al microfono.
Come detto, spiace un po’ che a livello di setlist non si faccia mai lo sforzo di ripescare qualche chicca dal passato più o meno recente, trascurando tanto materiale validissimo (dischi come “Death… The Brutal Way” o “Incoming Death” si presterebbero a ben altra valorizzazione), ma nel complesso lungi da noi criticare la prova odierna degli Asphyx, chiusa come da copione dai classici “The Rack” e “Last One on Earth”. Inossidabili. (Giacomo Slongo)
Da una leggenda all’altra, anche se in questo caso decisamente meno inflazionata. Mentre il sole tramonta definitivamente dietro agli alberi e il freddo della sera diventa ancora più pungente, i DISMEMBER fanno la loro comparsa sul palco del Graveland, proseguendo nella serie di date post-reunion che dal 2019 li ha visti ricoprire il ruolo di headliner in diversi festival europei e non solo (abbiamo ancora impresso negli occhi e nella mente il concerto al Netherlands Deathfest dello scorso anno).
I discorsi fatti in quell’occasione possono essere qui ripetuti senza il timore di apparire dei fanboy, esaltati ulteriormente da una scaletta incentrata sul mega-classico dello swedish death metal “Like an Everflowing Stream”. Una scelta, quella di riproporre per intero il suddetto capolavoro, che mette subito lo show sui binari giusti (ovviamente!), ma che da sola non basterebbe a conquistarci del tutto; per fortuna, a quella che è una selezione di brani irripetibile, i Nostri affiancano una tenuta smagliante e uno slancio nell’interpretazione riconducibile al fatto di essere sì tornati in pista, ma senza la volontà di trasformare un evento del genere in qualcosa di ordinario o scontato (per ora…), ricordando la politica degli altrettanto seminali Autopsy.
A livello prettamente fisico, poi, gli svedesi appaiono in formissima per quattro quinti della formazione, con il solo Matti Kärki a fare un po’ la figura del panzerotto tra le figure slanciate di David Blomqvist, Robert Sennebäck e Richard Cabeza, mentre Fred Estby – pur senza sfoggiare una linea fit – dimostra che è perfettamente possibile invecchiare con dignità. Digressioni a parte, lo show è come anticipato un successo su ogni fronte, con la band che, dal minuto uno di “Override of the Overture”, tiene letteralmente in pugno la platea innescando cori (impossibile, del resto, non canticchiare la melodia portante del brano), lunghe sessioni di headbanging e un pogo che però, visto il tasso alcolemico di buona parte dei presenti, finirà per essere più goffo che feroce. Un percorso in discesa che le successive “Soon to Be Dead”, “Bleed for Me” e “And So Is Life” rendono ancora più esaltante e spericolato, e che anche più avanti, al termine della riproposizione di “Like…”, non accenna a diminuire di intensità, complice la buona resistenza del growling di Kärki.
I minuti a disposizione del gruppo sono una settantina, e va da sé che ci sia tutto il tempo per attingere altre perle dal repertorio, dal death metal ‘da stadio’ di “Casket Garden” alle mostruose “Of Fire” e “Skinfather”, con le melodie maideniane di “Dreaming in Red” a chiudere come da prassi le danze. A fronte di un simile dispendio di carisma, energia e trasporto emotivo, non ci resta che promuovere ancora una volta la riesumazione live di questo baluardo della scena death metal. (Giacomo Slongo)

SABATO 27 MAGGIO

La serata di venerdì si è conclusa all’insegna del più puro swedish death metal con i maestri Dismember e giustamente il sabato riprende il discorso affidando il suo incipit ai BURIAL REMAINS, band palesemente nata per rivisitare quel suono nato a Stoccolma ormai più di trent’anni fa. Riusciamo a seguire solo parte del concerto degli olandesi, ma quanto ascoltiamo non ci dispiace. L’impressione è quella di avere a che fare con un gruppo onesto, quadrato nell’approccio e nell’esecuzione; il classico opener in linea con l’indirizzo stilistico del festival, che fa il suo convincendo i primi avventori e portando a casa qualche applauso convinto. (Luca Pessina)
Preso atto che, per fortuna, le temperature saranno ben più miti e piacevoli rispetto a quelle del giorno precedente, il nostro venerdì prosegue con la buona prova dei THE OMINOUS CIRCLE, autori di un solo full-length (“Appaling Ascension” del 2017) e fin qui protagonisti giusto di una manciata di date live, quasi a voler rimarcare l’alone sfuggente e misterioso del progetto, oltre a veli e cappucci a nasconderne le sembianze.
Durante il soundcheck, svolto ovviamente senza cappucci, ci sembra di riconoscere qualche membro dei lanciatissimi Gaerea, e la sensazione di non essere al cospetto di musicisti timidi o sprovveduti viene avvalorata dalla resa complessiva sul palco, precisa nell’esecuzione e disinvolta nelle movenze. A dispetto del sole e dell’atmosfera primaverile che ci circonda, per una quarantina di minuti sprofondiamo nel death metal catramoso e dissonante (senza però chissà quali esagerazioni su quest’ultimo fronte) del quintetto, bravo a fondere i riff imponenti di gente come Cruciamentum e Dead Congregation con una serie di spunti sbilenchi e sperimentali presi in prestito dalla scuola oceanica di Ulcerate e Portal. L’impatto, come detto, è di tutto rispetto, specie all’altezza di episodi quali “Poison Fumes” e “A Gray Outcast”, e i portoghesi – da nome defilato del bill – finiscono per imporsi tra le sorprese del festival. (Giacomo Slongo)
Ci si mantiene su buoni livelli – anche se la presenza scenica è ovviamente meno appariscente – con l’arrivo dei GHASTLY. I death metaller finlandesi sono in tour in questi giorni e si presentano al Graveland tutto sommato ben rodati, a dispetto di un recente cambio di line-up che ha portato il leader JM. Suvanto a spostarsi dalla chitarra alla batteria.
I primi lavori del gruppo sono stati interamente composti e registrati da quest’ultimo, quindi il nuovo ruolo dal vivo non stupisce più di tanto: siamo davanti a gente di esperienza e l’esecuzione non ne risente, anche se ovviamente la musica della band di Tampere rende meglio al chiuso. Siamo ancora nelle prime ore del pomeriggio e il sole inizia a farsi sentire, tuttavia il quartetto riesce a imbastire un set concreto e piacevole, passando in rassegna tutte le ‘hit’ del repertorio recente (“Sea of Light”, “Parasites”, “Mirror Horizon”…). Il meglio arriva quando sono i toni doom e vagamente psichedelici a prevalere, con quella vena melodica e quelle cadenze che qua e là ricordano i vecchi Tiamat, ma anche i passaggi più concitati fanno la loro figura, nonostante nella platea nessuno dimostri particolare voglia di muoversi sulle note dei quattro. (Luca Pessina)
Tocca quindi agli EXECRATION, compagni di tour dei Ghastly in questa seconda metà di maggio. Rispetto a quella dei finlandesi, la proposta dei norvegesi è più cerebrale e al contempo più sostenuta. Parliamo a tutti gli effetti di una sorta di progressive death metal dotato di grande personalità, in cui intervengono anche tentazioni avantgarde e una creatività che talvolta esce del tutto dai confini del metal estremo. Il collante fra gli spunti più sperimentali resta tuttavia un death metal profondamente vecchia scuola che guarda con regolarità alle storiche gesta di Autopsy, Death e altri capisaldi del genere.
Abbiamo sempre adorato il repertorio della formazione di Oslo e fa piacere constatare ancora una volta come i quattro siano perfettamente in grado di riproporlo dal vivo, sfoderando una verve che spesso lascia sorpresi. Nonostante il taglio prog delle strutture dei brani, il sound degli Execration dal vivo riesce infatti a mantenere una corposità pronunciata, una spontaneità di fondo che rende il tutto digeribile anche a coloro che non hanno una piena conoscenza dei lavori in studio. Di certo, le suddette parti più aspre e old-school aiutano a destare l’attenzione del pubblico meno esperto, ma in generale si può parlare di una prova maiuscola a tutto tondo, dove l’ottimo songwriting espresso sui dischi viene portato su livelli di intensità insperati. (Luca Pessina)
Parlando dei SINISTER, diciamo subito che il derby olandese indetto dagli organizzatori del Graveland va di diritto ai colleghi/rivali Asphyx, con buona pace di Aad Kloosterwaard e del suo manipolo di gregari. D’altronde, la setlist resa nota sui social qualche giorno prima del festival ci aveva già messo in guardia su ciò che ci sarebbe stato servito dal quartetto, ossia una carrellata di episodi accostabili alla fase con il membro fondatore/ex batterista al microfono (“Afterburner”, dall’omonimo disco del 2006, sarà il brano più datato del concerto).
Senza nulla togliere alla preparazione tecnica dei musicisti e al tiro espresso da alcuni pezzi, è davvero possibile che un nome storico come i Sinister rinneghi così il proprio passato? Pur capendo che – frontman escluso – stiamo parlando di una band completamente diversa da quella che incise capisaldi come “Hate” e “Diabolical Summoning”, perché non inserire (almeno) due o tre cavalli di battaglia e onorare così la parte universalmente più celebrata della carriera? Di fatto, quello che ci si presenta davanti è il concerto di una formazione dal repertorio buono, a tratti anche avvincente (“Neurophobic”, “Convulsions of Christ” e “Afterburner” si difendono comunque bene), ma di certo non equiparabile allo strapotere dei riff di una “Embodiment of Chaos” o di una “Awaiting the Absu”. Il giocare in casa li aiuta sicuramente a portare a casa il risultato, visto che il pubblico non fa mai mancare il proprio supporto, ma l’amaro in bocca – lato nostro – resta. (Giacomo Slongo)
I THE RUINS OF BEVERAST sono ormai un nome consolidato nel panorama extreme metal mondiale. Quella che era una realtà di nicchia, spesso confinata al circuito underground black e doom metal tedesco, negli ultimi anni si è fatta assai più intraprendente, tanto da ‘esplodere’ e da diventare un nome di sicuro richiamo in festival di mezzo mondo.
Negli ultimi tempi abbiamo infatti avuto più volte modo di assistere a concerti del gruppo guidato dal cantante/chitarrista Alexander von Meilenwald: quello di oggi è il primo all’aperto, in un contesto che più che tenebra trasmette armonia, tuttavia la musica del gruppo teutonico sa come irretire anche in una situazione come questa. Abbiamo sempre elogiato la formazione da concerto della band, composta da veterani con esperienze in Secrets Of The Moon, Drowned, Essenz e Dark Fortress, e anche oggi non possiamo esimerci dal riconoscere un grande affiatamento in seno alla line-up, con il frontman che dà spesso l’impressione di essere altamente compiaciuto della resa complessiva della sua creatura. Con un suono pieno e ben definito, i The Ruins of Beverast si lanciano nell’interpretazione di una manciata di tracce dalla presa notevole, tanto heavy nelle ritmiche quanto colme di ricami a livello atmosferico e armonico. Sono spesso gli arpeggi a fare la differenza, a caratterizzare il brano in modo inequivocabile, ma anche la voce non si tira indietro, dimostrandosi, ancora una volta, in grado di coprire tutte le sfumature sperimentate in studio. È la vecchia “Between Bronze Walls” a chiudere il concerto: come sempre, grande pathos nel suo midtempo, dimostrazione che la buona musica riesce sempre a imporsi, anche quando l’ambiente in cui viene proposta non sembra avere molto in comune con il suo mood e le sue tematiche.
Ennesimo asso pescato dall’organizzazione del festival quest’anno, i VANHELGD si rendono protagonisti di uno show a dir poco sentito e trascinante, il quale va sicuramente ascritto agli highlight dell’intera manifestazione. Pur rilasciando una serie di album via via sempre più decantati dal pubblico e dalla critica, con l’ultimo “Deimos Sanktuarium” a risuonare ancora nelle orecchie (e nei cuori) di molti death/doom metaller, gli svedesi hanno continuato a mantenere un basso profilo, tenendo pochissimi concerti e facendo di questi ultimi dei veri e propri eventi, scelta che – a maggior ragione dopo oggi – ci sentiamo di promuovere appieno. A dirla tutta, la splendida opera del 2018 viene appena sfiorata dal quartetto, con un solo episodio a rappresentarne il mood narrante e atmosferico (“Så förgås världens härlighet”), ma possiamo dire che ciò non frena l’entusiasmo dei presenti, sposandosi perfettamente al taglio aggressivo che è stato voluto dare alla performance. L’incedere minaccioso di brani come “Lamentation of the Mortals” e “Rebellion of the Iniquitous”, dall’altrettanto pregevole “Temple of Phobos”, è infatti di quelli brucianti e in grado di insinuarsi sottopelle nel giro di un paio di riff, merito soprattutto del piglio con cui il cantante/chitarrista Mattias Frisk riveste il proprio ruolo; un’attitudine decisamente feroce e sanguigna che assoceremmo più ad una realtà del mondo crust/d-beat come i connazionali Wolfbrigade, piuttosto che a dei musicisti tanto schivi e ricercati. Da bravo leader, è lui che guida la propria creatura al trionfo, per quaranta minuti di concerto che – oltre ad essere volati – hanno saputo davvero emozionarci. (Giacomo Slongo)

Si sale ulteriormente di livello con l’ingresso sul palco dei MISÞYRMING, ormai definitivamente assurti a dominatori della scena black metal islandese e mondiale. Avendoli già visti a Parigi qualche mese fa, sappiamo perfettamente cosa aspettarci dai ragazzi di Reykjavík a questo punto della loro carriera: autorevolezza incontrastata, carisma da vendere e un’interpretazione degna di un grande nome della scena metal degli anni Ottanta/Novanta, e così è, infatti.
Che si tratti di un piccolo club o della cornice open-air di un festival come questo, D.G. e compagni sanno sempre come esprimersi al meglio, adattandosi alla situazione senza che la condizione ambientale di turno (leggasi: sole del tardo pomeriggio in faccia) incida sull’impatto della performance. Quando poi, come nel caso del Graveland, i suoni sprigionati dall’impianto sembrano quelli dei Metallica, allora non ce n’è davvero per nessuno. Dando continuità al recupero di istanze tradizionali dell’apprezzatissimo “Með hamri” e mettendo davanti a tutto riff e fisicità, i Misþyrming si rendono protagonisti di uno show metal con la M maiuscola, fra una resa equiparabile a quella su disco e una presenza intimidatoria fatta di corpi sporchi di fuliggine e maglie bianche imbrattate di sangue. Sei brani suonati (due per ogni lavoro in studio, con “Orgia” e “Ísland, steingelda krummaskuð” a svettare per intensità) e un’unica certezza: fra qualche anno, il ruolo da headliner in eventi del genere non sarà certo un miraggio. (Giacomo Slongo)

Da un pilastro della scena contemporanea a un nome che nell’arco di tre decenni ha saputo dare tantissimo al genere della Nera Fiamma, diventando un esempio di perseveranza e umiltà (quasi) senza eguali. E poco importa se, da qualche tempo a questa parte, i ROTTING CHRIST hanno perso lo smalto discografico di un tempo: dal vivo, seppur con delle scelte di setlist rivedibili, la band greca continua ad essere foriera di trasporto e perizia, sapendo puntualmente come connettersi all’audience in uno scambio di energie insolitamente positive per un concerto black metal. In effetti, l’attitudine dei fratelli Tolis e dei rampanti Kostas Heliotis (basso) e Kostis Foukarakis (chitarra) si avvicina molto più a quella di un classico gruppo heavy metal/hard rock, con la selezione di brani che va poi a muoversi in questa direzione, risultando perlopiù incentrata sugli episodi più rocciosi e ritmati degli ultimi lavori.
Il limite dello show odierno, in effetti, non risiede tanto nella qualità intrinseca delle varie “666”, “In Yumen-Xibalba” e “Grandis Spiritus Diavolos”, ma nell’omogeneità di un set cadenzato che accelera giusto in un paio di frangenti (“Non Serviam” e la cover di “Societas Satanas” dei Thou Art Lord), finendo per perdere – alla lunga – un po’ di slancio. Poco male, comunque: alla stregua di un comandante oplitico, possiamo dire che Sakis abbia saputo guidare la propria truppa verso l’ennesimo, bel concerto di una carriera che, almeno in sede live, sa ancora essere competitiva. Con la speranza di rivedere presto in scaletta pezzi da “Thy Mighty Contract” e “Theogonia”. (Giacomo Slongo)
L’edizione 2023 del Graveland si chiude con i PARADISE LOST, ormai oltre il ciclo promozionale per l’ultimo “Obsidian” e ora a quanto pare impegnati – ahinoi – nella ri-registrazione del capolavoro “Icon”.
Il gruppo si prende una pausa dallo studio e giunge in terra olandese per chiudere un cartellone all’insegna dei generi più estremi. Nonostante nel corso del sound check venga udita la base della cover di “Smalltown Boy” dei Bronski Beat, i gothic metaller per eccellenza comprendono la situazione e vanno di set tutto sommato old-school, pescando più volte dai loro classici degli anni Novanta.
I Paradise Lost non sono sempre noti per dei concerti supervigorosi, ma oggi il quintetto è senza dubbio in palla: il ‘nostro’ Guido Zima alla batteria continua a confermarsi un ottimo innesto, spingendo parecchio e arricchendo di nuove dinamiche diversi dei brani in scaletta, ma è tutta la band a brillare, con un Nick Holmes questa sera particolarmente sul pezzo.
Il suo british humour è sempre inconfondibile e le pause fra una canzone e l’altra volano via come la musica, davanti a un pubblico che con il passare dei minuti sembra farsi sempre più caldo, forse perché ormai consapevole che il set odierno non riserverà sorprese troppo sgradite, anzi! In effetti, anche se la band è da tempo tornata al metal (senza peraltro sbagliare un colpo), non capita ad ogni concerto dei Paradise Lost di ascoltare di seguito “As I Die”, “True Belief” e “Gothic”. Questa tripletta ‘stende’ la platea e indirizza definitivamente lo show sui binari di un entusiasmo che coinvolge tanto i musicisti quanto gli astanti. La scaletta non è lunghissima, ma sembra a tutti gli effetti trascorrere in men che non si dica, vuoi per il trasporto che circonda la performance, vuoi perché Holmes, Mackintosh e compagni non sembrano prendersi chissà quali pause fra i brani, a dispetto di un’età che inizia ad essere avanzata.
Verso la fine, risplende come sempre la maestosa “Embers Fire”, ma ci teniamo a sottolineare la resa di una “No Hope in Sight”, ormai diventata un classico moderno del gruppo, meritevole di essere accostata alle tante hit della prima parte di carriera. Con una “Ghosts” orecchiabile e ‘ballerina’, si chiudono così un concerto e un festival che hanno regalato grandi soddisfazioni ai presenti. Appuntamento al 2024? Speriamo!

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