Report a cura di Andrea Intacchi
Fotografie ufficiali di I-Days
Stessa storia, stesso posto… stesso ippodromo.
Prendendo in prestito l’incipit di una delle canzoni più conosciute del sorprendentemente metallaro Max Pezzali, a poco più di due settimane dalla non memorabile serata messa a segno da James Hetfield e compagni (soprattutto a livello organizzativo), abbiamo messo nuovamente piede all’interno dell’Ippodromo La Maura.
L’occasione? In una fortunata – quanto causale, visto il periodo, giornata di sole – sono stati i Green Day a bollare, per la terza volta in carriera, la giornata numero tre degli I-Days meneghini. La band americana è tornata quindi in Italia a pochi mesi dalla loro ultima calata live: lo scorso novembre, infatti, erano apparsi in quel dei Magazzini Generali di Milano per una data a sorpresa, di fronte ad un manipolo di mille fortunati.
Una sorta di anteprima, quella, ad anticipare il più ufficiale 16 giugno dell’estate milanese. Ma c’era di più: oltre alla promozione del nuovo “Saviours”, rilasciato a febbraio, per i Green Day il 2024 significa celebrazioni (e sarà proprio questa la parola utilizzata da Billie Joe Armstrong per definire l’evento andato in scena domenica sera): i trent’anni di “Dookie”, i venti di “American Idiot”, i due album più rappresentativi del trio statunitense.
Da qui la scelta di un tour durante il quale suonare entrambi i dischi, dalla prima all’ultima canzone, inserendo ovviamente anche qualche pezzo di “Saviours” ed alcune delle hit più famose della loro ultratrentennale discografia. Un appuntamento particolare, che andava quindi a richiamare più di una generazione: in primis coloro che, ai tempi di MTV, avevano iniziato a conoscere la band grazie allo storico video di “Basket Case”, raggruppando poi un sempre maggior numero di persone, parallelamente all’aumento di successo raggiunto nel corso degli anni.
Grande attesa, ma anche qualche dubbio in merito alla scaletta effettiva che avrebbero portato on stage: qualche giorno prima, infatti, durante i festival di Nova Rock e Greenfield, la setlist non aveva ricalcato l’intera riproposizione dei due album oggetto di anniversario, subendo invece diversi tagli. Per cui, scaletta da festival o quella completa?
Nel frattempo arriviamo all’ippodromo intorno alle 18, in tempo per assistere ad un Ringo intento a lanciare sul pubblico “Blitzkrieg Bop”, “Smells Like Teen Spirit” e, forse sulla spinta del duo Trujillo-Hammet, proprio quella “Acido Acida” dei PROZAC +, notare una buona affluenza in zona gold pit, una folla già assiepata alle transenne poste dietro al mixer (zone rosse e gialle) e, purtroppo, anche due lunghe e infinite code per raggiungere i trentadue bagni chimici (venti a destra e dodici sinistra del palco) posti all’interno della area dorata.
Non siamo riusciti a carpire i metri calpestati dagli astanti posti nelle retrovie per riuscire ad espletare il proprio bisogno naturale, ma crediamo che la situazione non sia stata così diversa. File per i bagni, file per i token, file per mangiare, per abbeverarsi e pure per uscire dall’ippodromo al termine della serata: per fortuna, ci penseranno i Green Day, con uno show coi fiocchi, a far chiudere un occhio su una lacuna organizzativa che merita assolutamente di essere presa in considerazione in vista dei prossimi appuntamenti live.
Ah sì certo, meteo prezzi merch: le minime stazionavano sui dieci euro per un bottom pack (spillette), le massime arrivavano sui quarantacinque per la t-shirt del tour, con alcune varianti (trenta euro) per sciarpe e cappellini.
Arrivano intanto le 19.00 quando sul palco salgono i Nothing But Thieves, l’alternative rock band inglese, anch’essi nuovamente in Italia dopo la doppia data sold-out ottenuta lo scorso febbraio al Fabrique.
Come già avvenuto nella scorsa edizione degli I-Days, tocca dunque ai NOTHING BUT THIEVES alzare il sipario di questa terza puntata di festival. Ma nonostante questo, la formazione inglese appare quasi intimidita di fronte ai – non ancora – settantamila (o più?) che andranno a riempire via via l’ippodromo, partendo quindi leggermente in sordina con l’opener “Oh No:: He Said What?”, estratta dall’ultimo “Dead Club City”, che non riesce subito a scaldare i motori di un ambiente ancora un po’ troppo distratto ed, evidentemente, concentrato e visibilmente in attesa degli headliner.
A questo si aggiunge un settaggio dei volumi non proprio eccelso tanto che, ad una trentina di metri dal palco, il chiacchericcio generale risuona tranquillamente tra le note elargite dalla band britannica la quale, tuttavia, non ci impiegherà molto a prendere possesso della situazione, confermando la loro autorevolezza all’interno dello scenario del rock alternativo di stampo british.
A farla da padrone, oltre alla qualità del comparto strumentale (su tutti il chitarrista Joe Langridge-Brown) è manco a dirlo il minuscolo Conor Mason, la cui voce danza egregiamente e con estrema facilità tra acuti in falsetto e tonalità più profonde e corpose riversando, in entrambi i casi, la medesima dose di intimità. E già con la successiva e straradiofonica “Futureproof” l’atmosfera inizia a prendere la giusta dimensione, con i cinque londinesi molto più propensi a badare al sodo, sfruttando al meglio l’ora a disposizione, che a discorsoni strappa-applausi; basta, infatti, un “Ciao Milano” per rinvigorire quanto basta la folla, annunciando poi la più morbida “Trip Switch”.
Si parlava di emozioni, di lato intimo ed allora ecco “Impossibile” a scardinare definitivamente il lato più emozionale dello show imbastito dal quintetto britannico: ballad ideale che di fatto chiude la prima parte del concerto, lasciando a “Welcome To The DCC” il compito di dare, appunto, il benvenuto ad una seconda metà più dinamica e ancora più coinvolgente.
E mentre i quattro musicisti si divertono in una breve jam-session, sono i due videowall posti ai lati del palco (insieme a quelli della torretta al centro dell’ippodromo) a immortalare, questa volta chiaramente (anche per chi occupa le zone più lontane), i primi piani ed alcuni particolari dei protagonisti on stage, oltre a panoramiche sul pubblico, quasi terrorizzato nel vedersi di punto in bianco sparato sui maxischermi.
Il tutto nell’attesa di un secondo momento ‘toccante’ della serata e cioè quella “Sorry” offerta gentilmente da un Mason in versione catartica, prima di lanciarsi verso l’ultimo stacco di brani sempre più a suo agio e divertito. Sensazioni riversate anche sul pubblico, ormai partecipe e coinvolto nel sound proposto dalla band Southend-on-Sea, sicuramente non così ‘vicino’ alle corde rock-punk toccate da coloro che li seguiranno, ma altrettanto professionale ed ammaliante; tutti elementi, questi, che risaltano anche nella discreta cover di “Where’s My Mind” dei Pixies.
La conclusione, come da pronostico, è affidata all’accoppiata “Amsterdam” ed “Overcome”, certificando così l’ottima performance dei Nothing But Thieves, divenuti ormai una certezza del genere.
Ed è proprio in prossimità dei due pezzi menzionati, in previsione di un imminente assalto ai vari chioschi, che ci muoviamo in avanscoperta per un rigenerante risciacquo del palato, incappando tuttavia in una delle code ‘sanitarie’, giunta in quel momento a settanta partecipanti. Ne contiamo altre all’interno del gold-pit, ognuna con la sua forma: serpentone dritto per dritto, a curve, spigolosa! Si va quindi nelle zone aldilà del mixer: oltre ad alcuni idranti rinfrescanti, sparati sugli aficionados della transenna, si notano parecchie famiglie, a testimonianza di come la band californiana sia stati in grado di oltrepassare il muro generazionale, raggiungendo così nuovi fan anche tra i più giovani.
Sono quindi le 20.50 quando dalla casse risuona la prima delle due intro previste: si tratta di “Bohemian Rhapsody”, cantata inevitabilmente da tutti, seguita da “Blitzkrieg Bop” con tanto di Drunk Bunny al seguito, il coniglietto rosa pronto ad aizzare il pubblico in vista del grande inizio.
Pronti, via, ed eccoli i GREEN DAY: Billie Joe Armstrong, Mike Dirnt, Tré Cool, accompagnati dal fido Jason White, oltre a Kevin Preston e Coley O’Toole, nuovo tastierista in sostituzione dello storico Jason Freese, fermo per problemi di salute. Scenografia abbastanza spoglia, addobbata di nero (ma è solo un’avvisaglia) con la batteria a sovrastare il resto dei componenti e uno schieramento di ‘casse’ poste sulla sfondo (che, come vedremo, serviranno più avanti).
Si parte con la recentissima “The American Dream Is Killing Me”, utile per annotare come volumi e suoni siano fortunatamente ok. E a questo punto ritorna la domanda di partenza: renderanno interamente omaggio ai due album, oppure no?
La risposta ce la dà immediatamente lo stesso Billie Joe, il quale, senza troppi giri di parole, annuncia un caloroso “Ladies and Gentleman, I present to you… ‘Dookie’” e via di filato con un tuffo all’indietro nel tempo sino al 1994. D’un colpo, la striscia nera posta in cima alla struttura prende vita, e altrettanto improvvisamente si forma il famoso fungo esplosivo presente sulla copertina del disco, lasciando che i dettagli della stessa vengano proiettati sul fondo palco. Scoppi e fiamme (le casse servono a ricoprire la struttura pirotecnica) fanno scattare la miccia che prende fuoco con “Burnout”, seguita a capofitto da tutti i quattordici pezzi presenti nell’album.
Inutile descrivere la reazione del pubblico: entusiasmo a mille, ed è un piacere notare come ognuno dei presenti abbia in un certo senso una sua canzone preferita, legata magari ad un ricordo particolare del passato. Ci si scatena con “Longview”, con “Welcome To Paradise”, con “Pulling Teeth” ed ovviamente con “Basket Case”, durante la quale si intravvede anche qualche lacrimuccia sul volto di alcuni fan non più giovincelli.
Tra repentini cambi di luci, fiammate più o meno intense e continui scoppiettii, arriva anche “She”, cantata letteralmente a memoria da chiunque, sino ad un’altra hit immortale della band come “When I Come Around”.
Alt! Fermi tutti: dov’è finito l’aereo presente sulla cover di “Dookie”? Perchè non compare nella scenografia? Il motivo è presto detto: durante “Coming Clean” ne appare infatti uno gonfiabile (trascinato a mano da due personaggi vestiti da pupazzi) a dispensare finte bombe. Questo fa salire la temperatur di parecchi gradi nelle zone del pit più vicine al palco, in cui prendono vita anche sparuti moshpit. Così sino al termine dell’album e di conseguenza alla prima parte della serata, compresa la famosa traccia fantasma cantata da un leopardato Tré Cool, oggi tinto rigorosamente di blu.
Il fungo sparisce, ma lo show non ha intenzione di terminare. Con “Know Your Enemy” il pubblico si scatena alla grande, quando all’improvviso è lo stesso Billie Joe ad invitare sul palco una fan visibilmente emozionata: Marianna, questo il nome annunciato dal frontman americano, dopo averlo spupazzato per benone, si prende bene e, manifestando uno stato d’animo aldilà dello stupore, vorrebbe quasi diventare un settimo componente del gruppo ma il tempo è tiranno, e allora si prosegue dando spazio ad alcuni pezzi tratti dal nuovo “Saviours”, che i presenti dimostrano di aver assimilato per benone.
Il programma parla chiaro ed è giunto il momento per la seconda celebrazione della serata. Altro gonfiabile in arrivo, ma questo compare a centro palco: è una mano che stringe un cuore esplosivo; il cuore di una nazione perennemente intrappolata nella propria ipocrisia, il cuore di “American Idiot”, che scuote tutto e tutti, con il suo rock intransigente, con il suo attacco politico e sociale che compie vent’anni ma rimane attuale.
Così come i Green Day, da “Dookie” ad “American Idiot” impegnati a celebrare una vera e propria festa, alzando un vaffa generale, tra stelle filanti, sorrisoni e occhi lucidi. Da parte sua Billie Joe non smette mai di incitare il pubblico milanese (e non), ringraziandolo continuamente, invitandolo a cantare, a battere la mani, a far casino, per un totale di oltre due ore di musica, trentasei pezzi e, in pratica, zero pause tra una canzone.
“Jesus of Suburbia” viene quasi recitata, prima che “Holiday” riversi la sua euforia su tutto l’ippodromo. Più spedito “Dookie”, più ragionato “American Idiot”, ma entrambi contraddistinti dalla medesima intensità, e quando parte “Wake Me Up When September Ends” il tempo si ferma, per accompagnare le parole cantate dal chitarrista di Oakland, prima che una pioggia di luci renda il giusto omaggio ad un brano speciale.
Ci si emoziona, ci si diverte; “American Idiot” chiude i battenti con “Whatsername” ma la gente ne vuole ancora, almeno due o tre classici (tipo “Minority”). Le lancette dell’orologio però corrono veloci, e allora, solo soletto, a centro palco, rimane Billie Joe Armstrong, insieme alla sua chitarra acustica: le note sono quelle di “Good Riddance”, ‘aiutato’ manco a dirlo da tutti gli oltre settantamila presenti.
Il giusto sipario per una serata che ha rimesso in fila (senza grandi attese, questa volta) cuore ed energia, grazie ai Green Day e alla loro sana euforia.
Setlist Green Day:
The American Dream Is Killing Me
DOOKIE
Burnout
Having a Blast
Chump
Longview
Welcome to Paradise
Pulling Teeth
Basket Case
She
Sassafras Roots
When I Come Around
Coming Clean
Emenius Sleepus
In the End
F.O.D.
All by Myself
Know Your Enemy
Look Ma, No Brains!
One Eyed Bastard
Hitchin’ a Ride
Dilemma
Brain Stew
AMERICAN IDIOT
American Idiot
Jesus of Suburbia
Holiday
Boulevard of Broken Dreams
Are We the Waiting
St. Jimmy
Give Me Novacaine
She’s a Rebel
Extraordinary Girl
Letterbomb
Wake Me Up When September Ends
Homecoming
Whatsername
Good Riddance (Time of Your Life)