BULLET
Ad aprire le danze ci pensano gli svedesi Bullet, act pittoresco dedito ad un heavy metal classicissimo, e dotati della giusta carica per scaldare il pubblico, che lentamente si fa folto ed interessato. I cinque ragazzi ce la mettono tutta, e a conti fatti i pezzi si susseguono con piacevolezza, pur se ancorati strettamente alla tradizione hard rock/heavy metal, ricordando proprio i Judas Priest nella maggior parte delle song. La band, in perfetto stile ‘eighties’ nel vestiario e nell’attitudine, si adopera per mantenere alta l’energia dei pezzi, nonostante una scialba prova del frontman Hell Hofer, visivamente insufficiente e poco a suo agio nella veste di trascinatore. Nel complesso, comunque, una buona apertura per un concerto che si prospetta essere incandescente.
SABATON
E’ con i Sabaton che le cose si fanno serie. Qualche accenno di scenografia, volumi alti all’inverosimile, e tanta voglia di spaccare tutto è ciò che ci si para d’innanzi non appena inizia l’esibizione dei sei virgulti. La presenza scenica del singer Joakim Brodén, per quanto pacchiana, si dimostra azzeccata e trascinante, ed il pubblico si abbandona completamente nelle mani dei ragazzi, che snocciolano pezzi spaccaossa come “Cliffs Of Gallipoli”, le anthemiche “Attero Dominatus” e “Primo Victoria”, ed il classico acclamato a gran voce “Metal Machine”, con cui ci salutano, con grande dispiacere dei numerosi fan qui accorsi (o qui ‘conquistati’). La band si dimostra piacevolmente sorpresa dell’accoglienza riservatagli, tanto da pronunciare la promessa di rito di tornare al più presto in Italia. Chissà come, ma capita spessissimo che il concerto a cui il sottoscritto presenzia sia il più emozionante di un sacco di band; a volte si dice il caso… Promossi alla grande, comunque, eccetto per il tecnico del suono, che farebbe bene a cominciare a cercarsi un lavoro più consono alle proprie capacità.
HAMMERFALL
Sono passate da poco le 21, ed è l’ora degli Hammerfall di calcare le assi del palco. Atmosfera, fumo ovunque, intro di turno, ed ecco che gli svedesi fanno il loro ingresso nel Rolling Stone. Il tempo di salutare tutti con un brano estratto dall’ultimo album, accolto invero con una certa freddezza da parte dei fan ancora poco preparati, ma ecco che “Crimson Thunder” irrompe, stabilendo il giusto contatto tra band e pubblico. La band, forte del nuovo innesto del bravissimo chitarrista Pontus Norgren (ex-The Poodles) sembra essere in ottima forma, ed anche i suoni sono finalmente buoni. Un piccolo intermezzo, giusto per farci apprezzare il nuovo laser della band, che da fondo palco proietta animazioni contro uno ‘schermo’ situato tra batteria e band, e costituito da impercettibili gocce d’acqua: roba da Gardaland, ragazzi! Proseguiamo con l’anthemica “Bloodbound”, seguita dal controverso singolo “Renegade”, qui accolto serenamente da un pubblico che ha saputo digerire, col tempo, anche i momenti meno felici della band. Segue la nuova “Hallowed Be My Name”, molto più convincente in questo frangente live rispetto alla versione da studio. La stessa cosa non si può dire per la ballad “Last Man Standing”, rovinata da una base registrata male e poco amalgamata con il sound live della band (con tanto di finale di piano in dissolvenza, tipo Festivalbar). La prova di Joacim Cans è impeccabile, e la sua capacità di riprodurre i pezzi senza sbavature lascia piacevolmente sorpresi, pur considerando la non eccessiva complessità delle song dei Nostri. Continua il concerto con “Heeding The Call”, il classicone “Glory To The Brave” (anche i metallari borchiati si commuovono), e con la nuova strumentale a firma Norgren, un ottimo compendio di virtuosismo e gusto melodico. Da questo punto in poi il concerto comincia a prendere una piega progressivamente sempre più tediosa, ed anche la riproposizione dei classici della band come “Let The Hammer Fall” ed “Hearts on Fire” nel bis riescono a sollevare il morale del sottoscritto, speranzoso di porre fine ad un concerto godibile solo per metà. Insomma, il doppio lato della medaglia di una band simile sta nella natura stessa della fruibilità dei pezzi: canzoni godibili, ma ortodosse all’inverosimile e maledettamente simili a se stesse. E questo se non si è dei fan sfegatati, finisce per stancare.