Foto di Moris DC (Shooting Metalhead): Facebook, Instagram
Ci sono alcuni punti fermi nel mondo del metal underground: uno di questi è la presenza di festival indoor di impronta extreme metal nel Centro-Nord Europa durante il periodo invernale. L’area del Benelux è particolarmente ricca da questo punto di vista: sarà il meteo, con il sole a palesarsi quando capita e mai troppo splendente, la pioggia, il vento e il freddo pronti ad aggredire; saranno gli ambienti antropizzati e naturali, tendenti a coloriture plumbee e difficilmente capaci di indurre sensazioni liete; sarà, ed è già questa una conseguenza di quanto detto prima, la presenza di una folta schiera di musicisti e band dediti a suoni cupi, aspri e malinconici, che rendono la scena metal di questi paesi assai competente ed agguerrita.
C’è, infine, per eventi raccolti come quello che andremo a raccontare, anche un felice rapporto, o perlomeno collaborativo, tra associazioni culturali ed enti locali, che fanno sì che chi ha idee e voglia di fare possa contare su spazi adeguati nel quali organizzare quanto si ha in mente e ci sono risorse sufficienti per allestire qualcosa di piccolo ma altamente professionale.
L’Haunting The Castle giunge alla quinta edizione e, fin dalla sua prima apparizione, si è contraddistinto per rivolgersi agli appassionati di doom metal in forma estrema, con particolare predilezione per il funeral, ma senza chiusure verso altri tipi di approcci.
Il collettivo responsabile delle operazioni è attivo dai primi anni ’10 e ha chiamato negli anni tanti nomi importanti del settore a suonare in Belgio, come testimoniato dalla raccolta di poster visionabile all’interno della venue.
Ecco, la venue, veramente un posto speciale: si tratta del piccolo castello di Anthisnes, il Chateau de l’Avouerie de Anthisnes, nel quale normalmente sono presenti un museo della birra, un pub/taverna e un emporio dedicato a birre artigianali e altri prodotti locali. La sala principale dove si svolgono i concerti è tutto sommato abbastanza piccina, anche se ben disposta, e ha una capienza di duecento persone, il numero esatto di tagliandi staccati in questa edizione. Tanto per dare l’idea di quale sia il raggio d’azione di un festival simile, i biglietti sono sì andati esauriti, ma nell’arco di due mesi abbondanti, con le prevendite iniziate nei primi giorni di dicembre. Insomma, qualcosa dedicato ai cultori della materia.
La scelta dei gruppi è ricaduta come in passato su un attento mix di realtà dalla storia rilevante e formazioni in giro da meno tempo, mettendo assieme otto nomi (divenuti sette all’ultimo momento per l’improvvisa defezione dei When Nothing Remains) di varia gradazione di popolarità nel circuito doom.
Si tratta in tutti i casi di band che non hanno un’attività live fittissima, che suonano quasi esclusivamente in occasioni simili, davanti a un pubblico ristretto e affezionato: così, mentre la scelta degli headliner è ricaduta su uno dei nomi di punta del funeral doom come gli Skepticism, appena prima di loro sono stati chiamati altri due pilastri della scena finnica come Profetus e Tyranny, una compagine di lungo corso come i death/doomster tedeschi Ophis, oppure i da poco esordienti Elderseer, in apertura di giornata.
Il clima, come avevamo preventivato, è stato davvero splendido: rilassato, gioviale, molto posato e tranquillo, nonostante la grande potenza di fuoco (lento) presentata sul palco; un ritrovo tra amici e persone con le stesse passioni, ancor più che un festival. Una di quelle circostanze dove i banchi del merchandising vengono letteralmente saccheggiati, vi è un’orgogliosa messa in mostra di magliette di gruppi appartenenti bene o male solo a quel singolo sottogenere e una visibile gioia nell’assistere a esibizioni difficilmente ripetibili altrove.
In una gradevole giornata, praticamente primaverile, nel silenzio della placida vita rurale delle Ardenne, ecco il resoconto di questa lunga, appagante giornata extreme doom.
Adeguatamente rifocillati al bancone – l’offerta alimentare è invero abbastanza limitata, ma curata, mentre a livello di birre, comprensibilmente, il livello è soddisfacente – ci posizioniamo vicino allo stage per la prima formazione di giornata.
Gli ELDERSEER sono l’unico rappresentante del Regno Unito oggi in programma e mantengono filologicamente fede alla loro provenienza geografica. Nel 2023 hanno fatto uscire l’album “Drown In The Shallowness” per l’etichetta discografica che collabora all’organizzazione dell’Haunting The Castle, la Meuse Music Records, opera trasudante senso di appartenenza per il gotico a marchio UK.
La loro musica si pone all’incrocio di un death metal rallentato abbastanza ruvido e basilare e le trame dei Paradise Lost più sporchi e pesanti, con qualche tocco più morboso proveniente dai My Dying Bride. Il materiale del loro esordio viene proposto con piglio veemente, alternando un approccio più confacente a un puro act death metal e ombreggiature notevolmente più meste e dolenti. Vi sono diverse partiture ritmate e di relativamente facile aggancio – tenete sempre in considerazione tipo di suono e pubblico, ovviamente – e si fa quindi in fretta a farsi coinvolgere dal gruppo.
Spicca la solista deliziosamente paradiselostiana di Vinny Konrad, in passato nelle fila dei Pagan Altar, cui fa da contraltare la voce un poco troppo ispida, ma potente e accorata, del chitarrista ritmico Barry Copestake. Le canzoni dei quattro sono abbastanza derivative, per adesso, e non posseggono la magnetica personalità di altre formazioni che suoneranno in seguito: tuttavia il loro show scorre bene, compensando con verve e trasporto i sentori di deja-vu e qualche passaggio meno entusiasmante.
I FVNERAL FVKK sono una mosca bianca nel bill di giornata, trattandosi sostanzialmente di un gruppo di epic-doom metal classico, cantato con una teatrale voce pulita e uno stile che non va mai a toccare il metal estremo.
Ci sta in ogni caso una variazione sul tema, a maggior ragione se si parla di una realtà simile, che con il suo esordio su lunga distanza “Carnal Confessions” (2019) ha espresso un’interpretazione vibrante e teatrale del doom influenzato da Candlemass e Solitude Aeturnus.
Con loro si inizia a vedere un pizzico di spettacolo oltre alla musica, perché in aderenza al concept sarcasticamente a tema liturgico – i testi parlano degli abusi sessuali compiuti da esponenti del clero – quattro su cinque (escluso il batterista) vestono l’abito talare. La gestualità del cantante Cantor Cinaedicus è una caricatura di quella dei preti durante le funzioni religiose, e complice le fattezze del personaggio – pochi capelli scarmigliati e due occhi che paiono voler uscire dalle orbite come quelli dei personaggi di “Chi Ha Incastrato Roger Rabbit” – c’è della sottile comicità nell’interpretazione del ruolo. Mentre la musica è seria, spessa e, se non si sapesse di cosa si stia parlando, intensamente sacrale, con i vocalizzi altisonanti alla Messiah Marcolin a rimbombarci in testa.
Un problema tecnico sulla seconda canzone “Underneath The Phelonion” – si spengono i microfoni e una delle chitarre – smorza per qualche minuto gli entusiasmi, la ripartenza è carica e veemente e fa dimenticare in fretta quanto appena accaduto. Anzi, andando avanti nell’esibizione cresce il trasporto di band e pubblico, con un visibile intensificarsi di headbanging su e giù dal palco. La martellante “The Hallowed Leech” chiude un bel concerto, per una band che andrebbe scoperta soprattutto per chi ha a cuore i più noti Isole, dei quali i Fvneral Fvkk paiono essere una specie di gemello più inquieto.
È una per nulla vaga, piuttosto un’entità quasi fisica, se non metafisica, angoscia quella che ci opprime e schiaccia durante lo sfinente concerto degli URZA. Adesso sì, è veramente tempo di funeral doom, nella sua forma più densa, melmosa e imprigionante.
La band ha all’attivo un solo album, “Omnipresence Of Loss” del 2019, una mattonata sofferente di death metal al rallentatore e colate di doom che definire asfittico è fin riduttivo. Dal vivo i tedeschi riproducono pari pari quanto si può sentire su disco, andando se possibile a esacerbare i toni, perché con loro tutto suona pesante, grosso, soffocante. I brani sono lunghi e dalle poche variazioni di tono e ritmiche, con il gruppo berlinese l’aspetto fondamentale è l’atmosfera generale creata: si viene inghiottiti all’interno di un mondo severo e pieno di accadimenti nefasti, che ci vengono presentati con torvo cipiglio e una compattezza terrificante. Sembrerebbe accadere poco quando suonano gli Urza, mentre in verità c’è tutto quello che serve per avere il concerto funeral doom perfetto: un growl profondissimo e destabilizzante, due chitarre grondanti morte e malsana spiritualità, rintocchi puntuali e mai invadenti della sezione ritmica, per confezionare un rosario di dolore impenetrabile.
Si rimane soggiogati, inebetiti di fronte a una manifestazione musicale così totalizzante, dove i confini tra le singole tracce sono pressoché inesistenti – due brevissime pause, che se non si resta proprio concentrati al massimo quasi passano inosservate. Per dare l’idea, è come assistere a un concerto degli Incantation in versione completamente doom, a velocità dimezzate. Notevole, una prova a suo modo estrema anche per i canoni del genere.
A stretto giro con quanto sentito in precedenza, i TYRANNY in formazione ridotta (in tre a causa dei problemi di salute di Lauri Lindqvist) vanno a scandagliare con sadismo il lato più oscuro e perverso del doom, ponendosi come ideale prosecuzione della nostra discesa agli Inferi iniziata con gli Urza.
L’assenza di un elemento dell’ingranaggio non limita affatto la capacità della band di creare incubi distorti con la propria musica: i finnici sono una delle migliori (o peggiori, a seconda dei punti di vista) rappresentazioni del carattere atroce e spaventoso sotto il quale il funeral doom può manifestarsi.
Ciascuno parzialmente nascosto sotto un nero saio, il cappuccio ben calato in testa, il trio si e ci fa immergere nella sua dettaglia tetraggine, lavorando finemente attorno a melodie nerissime che timidamente si fanno strada sotto una coltre di pece. La malvagità nel loro caso prende una piega ancora più destabilizzante, pare volgere a una dimensione ultraterrena.
Le catene strumentali nelle quali ci intrappolano sono fortissime, ciò nonostante in qualche insana maniera il composto di death, black e doom della formazione va a deviare verso una cerebrale atmosfera psichedelica, prendendo il largo e andando ancora più giù negli abissi, rispetto a quanto andiamo di solito associare al metal estremo. Il doppio growl – entrambi abissali, cattivissimi, ancor più atroci se uditi assieme – è un’arma ferale, affilatissima, la classica lama rigirata persistentemente in una ferita già aperta e infetta.
Per quanto possano suonare un blocco unico, a chi li ascolti distrattamente, i Tyranny in verità presentano molteplici piccole variazioni nel loro repertorio e queste si possono sentire benissimo ad Anthisnes, facendoci apprezzare appieno questa esperienza rara. Infatti, le date live del gruppo sono un evento quasi miracoloso. Prestazione annichilente, quella di Matti Mäkelä e compagni, ma d’altronde eravamo preparati a quello che andavamo incontro.
Cambia il clima con gli OPHIS, in maniera abbastanza brusca. Se i due concerti precedenti sono stati vissuti in una statuaria calma da parte degli avventori, immobilizzati dalla straordinaria pressione messa addosso dai musicisti, adesso è finalmente il momento di lasciarsi un po’ andare.
Lungi dall’essere una formazione dal suono facile e scorrevole, i quattro di Amburgo hanno dalla loro un impatto più affine al death metal puro, per quanto la miscela di death-doom proposta sia assai articolata e si connoti per meticolosi chiaroscuri strumentali.
Nel complesso sono comunque più tradizionali e meno oltranzisti nel ripercorrere certi tristerrimi spartiti, si possono cogliere anche passaggi dritti e trascinanti e questo porta a un dialogo vibrante con il pubblico. Anche l’atteggiamento dei vari membri della band è meno distaccato, a partire dal cantante/chitarrista Philipp Kruppa, mordace nell’arringare la piccola folla davanti a sè.
Le alternanze di sferzate death metal e arie meditative e assorte avviene con la medesima naturalezza dei dischi, gli Ophis non hanno caratteristiche univoche come chi arriverà dopo e chi li ha appena preceduti, ma il lavoro di assemblaggio di momenti brutali, spettrali e semplicemente malinconici è di prim’ordine. La scaletta cerca di essere il più onnicomprensiva possibile dell’ampia discografia del gruppo, il seguito conquistato negli anni è fedele e la preparazione dell’uditorio la si coglie all’annuncio dei pezzi, salutati con vero entusiasmo.
L’unico problema per loro, pur nella brillantezza di una “Among The Falling Stones” o “Carne Noir”, è quello di arrivare dopo esibizioni dall’atmosfera ‘speciale’, per cui gli Ophis suonano quasi abitudinari, al confronto. Ma l’esibizione in sé è eccellente e non lascia nessuno deluso.
Già durante il cambio palco si può capire che stiamo per entrare in un’altra dimensione ancora.
Ecco infatti porre su un lato delle troneggianti tastiere, epicentro dei sospiranti dialoghi architettati dai PROFETUS.
Siamo ancora in Finlandia, per una realtà autrice di tre album e rimasta patrimonio soltanto di chi bazzica questi specifici suoni, senza avere quindi alcun tipo di presa fuori dai confini del funeral doom. Rivediamo Matti Mäkelä, a chitarra e seconda voce, mentre il leader del quintetto è Anssi Mäkinen, figura carismatica pur nelle pose molto sobrie con il quale domina la scena.
I tempi si fanno lunghissimi, l’immobilismo ritmico diviene quasi irreale, il tocco ai tamburi è minimale e, quando avviene, pare il rintocco di un attimo fatale, lo scoccare di un accadimento definitivo. Si intrecciano note d’organo e lunghi, plastici, riff, trafitti da una voce, quella di Mäkinen, capace anche di qualche morbidezza e soffusa recitazione, e da un’altra, quella di Mäkelä, truce oltre ogni dire.
È un rituale magico, quello officiato dagli autori di “The Sadness Of Time Passing”, album che a distanza di quasi cinque anni ha ingigantito le sue sembianze, come ci ricordano “Northern Crown” e “Momentary Burial” suonate in questa serata al castello.
I Profetus live non si vedono spesso – ci pare sia il loro primo concerto dall’apparizione al Brutal Assault della scorsa estate – ma l’alchimia dei cinque è qualcosa di perfetto, una miscela unica di tempi sospesi, note disperse nel vuoto, enfasi schiacciante che trasmigra in un qualcosa di remissivo e quasi romantico. È una desolazione che non sa di negatività, piuttosto di un solenne misticismo e di un’esplorazione dell’onirico che ci porta inevitabilmente in un mondo di nebbia e meraviglia.
Il funeral doom può essere uno stile portatore di vera bellezza e in questo Mäkinen e compagni non sono secondi a nessuno. Gli echi più primordiali di “Blood Of Saturn” ci ricordano che questa è musica arrivata un po’ più tardi rispetto ad altri concetti metal, eppure ha caratteristiche che la rendono atemporale e mai fuori posto.
Gli SKEPTICISM sono proprio scenografici a vedersi: aristocratici, nobili, inappuntabili. Non sono uno dei capostipiti e ancora oggi leader del movimento funeral doom per caso.
E la loro essenza di romantici cantori della tristezza la si coglie anche solo da come preparano il palco, dall’attenzione meticolosa con la quale Eero Pöyry sistema lo specchio sopra le sue tastiere, oppure Matti Tilaeus regola il volume della voce in provenienza dai monitor.
La gestualità del cantante, le rose bianche accarezzate, stropicciate, sottratte un po’ per volta delle loro foglie, ci immerge in una dimensione teatrale, in uno spettacolo che non ha eguali, riferibile solo e soltanto agli Skepticism medesimi. I quattro si concedono poche volte durante l’anno ai palchi, ma per loro la dimensione live non è affatto qualcosa di raro e lo si nota chiaramente nei meccanismi perfetti che regolano ogni nota, movimento e smorfia dei volti.
Riconoscibili e sacrali nel loro crepitare di chitarre, in simbiosi a note d’organo di somma classe, i quattro ammaliano senza sforzo alcuno, sommergendoci di una musica tanto intensa e apparentemente immota, quanto densa di particolari e finezze.
La chitarra di Jani Kekarainen è enorme e severa, offre piccole sfumature e ondeggiamenti, lasciando a Pöyry il compito di farci vagare in una gradita rugiada di note odoranti incenso, quanto di più vicino alla musica ecclesiastica il metal estremo sia stato in grado di partorire. Tilaeus è cantante che sta durante il concerto in una dimensione fisica e mentale tutta sua, come se stesse recitando in solitaria e null’altro vi fosse attorno che potesse influenzarne i comportamenti. È la sua una prestazione maiuscola, come della band tutta, tra gli estratti dell’ultimo “Companion” e gli andirivieni un po’ per l’intera discografia, anche se rimane escluso proprio il penultimo album “Ordeal”.
Sulle note della vagamente più eccentrica traccia senza titolo di “Farmakon” (la quarta in tracklist nel suddetto disco) il concerto si chiude dopo circa un’ora e un quarto di estatica bellezza, in una sala fattasi un po’ più vuota con il passare delle canzoni. Chiudiamo la nostra esperienza ad Anthisnes uscendo nel buio di una mite notte, ammirando per l’ultima volta le antiche mura di un castello che si è rivelato cornice ideale per un simile festival.