Una casa in campagna. Bella ampia, con un giardino di dimensioni ragguardevoli e tanto terreno attorno, adibito a pascolo. Fin qui tutto regolare. Nel cortile, sotto una tettoia, il proprietario di casa ha costruito un palco. Un palco? Nel cortile di un’abitazione? Sì. Si dà il caso, inoltre, che il proprietario dell’immobile sia amico del titolare della Hellion Records, etichetta underground dedita al metal classico più di nicchia e tra i mailorder europei più riforniti per quanto riguarda sonorità tradizionali. I due meditano di organizzare qualcosa di insolito nel placido angolo di mondo in cui abitano e un bel giorno, siamo nel ’98, Thomas Tegelhütter, il padrone di casa, e Jürgen Hegewald, il boss della Hellion, danno vita all’Headbangers Open Air, all’indirizzo di Schierenhöh 13, 25364 Brande-Hörnerkirchen. La prima edizione è piccina piccina, costituisce giusto una simpatica serata tra amici, e ha il suo nome di punta nei power metaller Paragon, praticamente di casa visto che gravitano nella zona di Amburgo. I due organizzatori però ci prendono gusto e il festival si amplia, diventando in pochi anni un punto di riferimento imprescindibile per l’intero underground classic metal, diventando insieme al Keep It True il festival più importante per le sonorità tradizionali. La manifestazione è unica nel suo genere per la location e l’atmosfera da confraternita, favorita da numeri piuttosto ridotti – non si arriva alle duemila unità, occhio e croce, e si arriva al sold-out o molto vicini ad esso tutti gli anni – e da una scelta delle band da veri cultori della materia. Ad ogni edizione avviene un ripescaggio di nomi dalla scarsa notorietà e che hanno interrotto l’attività da decenni, oppure hanno poca possibilità di andare in tour e difficilmente varcano i patri confini. Il grosso della line-up è costituito da vecchie glorie, nella maggior parte dei casi in buono stato di conservazione, ma non mancano alcune nuove proposte aderenti allo spirito degli anni ’80. Non vi sono grosse preclusioni di genere, almeno in un’ottica molto true di quello che si intende per heavy metal: thrash, progressive, hard rock, US metal, speed metal trovano piena accoglienza da queste parti, mentre non c’è traccia di metal estremo, a parte i gruppi thrash più focosi e slayeriani. Ciò che fa davvero impazzire organizzatori e pubblico è la NWOBHM, e chi scrive può testimoniare di aver visto folle assurde, quest’anno e nelle scorse edizioni, per entità che anche negli anni d’auge del metal inglese non avevano avuto un appeal stratosferico, e si erano sciolte già a metà Anni ‘80. Nonostante la dimensione familiare faccia pensare il contrario, l’organizzazione ha la puntualità e la precisione teutonica di vere e proprie macchine da guerra come Wacken e Summer Breeze. In quest’ottica, la qualità del suono è probabilmente il fiore all’occhiello dell’intero Headbangers: sparati, equalizzati al meglio, nitidi, i suoni sono l’ultimo dei problemi a Brande-Hörnerkirchen, nessun gruppo può dire di essere penalizzato da questo punto di vista, che sia il primo della giornata a calcare lo stage o l’headliner. La formula consolidata prevede un trittico di giornate durante l’ultimo fine settimana di luglio, la prima più leggera al giovedì – cinque band – e altre due più corpose al venerdì e al sabato. Una singolarità è costituita dagli slot generosissimi concessi a ogni band: ad andar male, anche chi ha rilasciato in carriera un singolo ep gode di tre quarti d’ora tondi, e per le band di chiusura si sfora spesso e volentieri l’orario scritto nel programma, raggiungendo durate ragguardevoli, come successo quest’anno agli Warlord, autori di una performance di circa due ore. Altre note positive sono la possibilità di campeggiare senza alcuna maggiorazione appena fuori dalla venue e i prezzi contenuti di cibo e bevande, oltre a un costo del biglietto che rimane incollato a quarantotto euro ormai da più di un lustro. Varrebbe la pena venire da queste parti anche soltanto per visionare la popolazione che frequenta l’H.O.A.: l’età media è decisamente superiore a quella degli altri festival metal e l’abbigliamento tipico è quello del metallaro tutto denim and leather degli Eighties. Il tempo sembra essersi fermato in questa placida area del nord della Germania, a una mezz’ora di auto circa da Amburgo: in questo piccolo angolo del globo le star sono spesso musicisti di seconda fascia che non hanno mai visto durante un loro concerto così tante persone, e restano stupite ed esterrefatte dai calorosi incitamenti che ricevono. Anche quest’anno il cartellone ha ospitato chicche assolute e band che difficilmente rivedremo altrove, e come sempre abbiamo goduto di una colata di metallo fuso assolutamente deliziosa, favoriti altresì da un tempo mai così clemente e, anzi, decisamente caldo per tutti e tre i giorni.
LIZZIES
Giusto cominciare il festival con delle nuove leve, in questo caso una formazione tutta al femminile, le spagnole Lizzies. Queste ragazze sono giovanissime e quella di oggi è probabilmente la loro prima esibizione fuori dai confini patri. Hanno fatto uscire solo un demo di tre pezzi nel 2012, “Heavy Metal Warriors”, e un EP di una ventina di minuti nel 2013, “End Of Time”, ma il tempo concesso dagli organizzatori è generoso – tre quarti d’ora – e possono concedersi di suonare con calma e presentare adeguatamente i pezzi. Melodie e tempistiche sono quelle di Iron Maiden e Saxon agli esordi; come per molti di coloro che sono accorsi da queste parti, le madrilene hanno la NWOBHM come chiodo fisso e ne fanno una ragione di vita, come la loro musica testimonia adeguatamente. L’accoglienza riservata dal competente pubblico teutonico è quanto di meglio le quattro ragazze potessero immaginare, ma non ce ne stupiamo, perché sia le band giovani che quelle storiche trovano supporto incondizionato in quel di Brande-Hornekirchen, senza alcuna eccezione. Suonare all’inizio dà poi il vantaggio che bagordi, ore in piedi e capricci del tempo non hanno ancora fiaccato la resistenza di nessuno e le presenze attorno al palco non sono tanto distanti da quelle che avranno gli headliner. L’inesperienza e la gioventù non sono di ostacolo all’offerta di almeno un paio di potenziali hit, “Heavy Metal Warriors” e la conclusiva “Speed On The Road”, inframmezzate tra l’altro da alcune apprezzate cover, su tutte “Doctor Doctor” degli U.F.O.. La cantante Elena Zodiac ha la voce simile a quella di una navigata quarantenne cresciuta a grappa e sigarette, anche se il timbro afferma chiaramente la giovane età della ragazza; la sua presenza e la personalità infusa nei vocalizzi sono l’asso nella manica del gruppo, che apre adeguatamente la kermesse e gode, appena finita l’esibizione, di un afflusso oceanico al proprio banco del merchandise, saccheggiato di buona parte dei prodotti in mostra. E, ripetiamo, parliamo di quattro ragazze spagnole con all’attivo un demo e un ep: ve l’immaginate la stessa scena ad altre latitudini, tipo quelle dello Stivale piazzato nel mezzo del Mediterraneo?
DEATHRIDERS
Specchio fedele delle intenzioni che animano le menti creatrici dell’Headbangers Open Air è il concerto dei Deathriders: trattasi difatti di un’incarnazione musicale che ha il suo perno in Neil Turbin, cantante degli Anthrax in “Fistful Of Metal”. Il “ragazzo”, oggi un cinquantenne dal lungo capello tinto di nero, occhiale scuro modello “Intervista Col Vampiro” e buffo cappello in testa, non ha prodotto granché negli anni successivi e solo da poco ha ripreso a calcare le scene con la sua nuova band. Per ora, i Nostri non hanno pubblicato nulla di inedito e presentano un repertorio basato su primi classici degli Anthrax. L’operazione odierna è tipica del contesto di questo festival, e come sempre quando si rivede all’opera qualcuno che non si cimentava con un concerto da tempo immemore, almeno su suolo europeo, le possibilità che la cosa funzioni sono ondivaghe. Negli anni, a Brande-Hornekirchen, ne abbiamo viste di tutti i colori, da ritorni in pompa magna a figure imbarazzanti, con le prime nettamente superiori alle seconde; il buon Turbin pende, ahinoi, più sulla seconda ipotesi. La voce è nettamente peggiorata rispetto a come ce la ricordavamo e manca altresì il mestiere, che sarebbe stato da maturare negli anni, nel barcamenarsi quando le note alte proprio non ne vogliono sapere di uscire dalla gola. “Metal Thrashing Mad”, “I’m Eighteen”, “Deathriders” si stentano a riconoscere e bisogna arrivare ai chorus, in cui il pubblico copre sovente il singer, per capire esattamente cosa si stia sentendo. La line-up messa assieme è volonterosa e diligente, Neil ci mette molto impegno e calore, e per questo ci fa grande simpatia, però la prova d’insieme è insufficiente e ci strappa qualche applauso più per l’effetto nostalgia che per altro.
CAGE
Boom! E’ esploso qualcosa? C’è un nuovo Big-Bang in corso e nessuno ci aveva avvisato? No, sono solo i Cage. Sottovalutati e ignorati dai grandi circuiti internazionali, i cinque sono degli invasati del power americano anni ’80, che appesantiscono a dovere sfruttando le tecnologie moderne, senza intaccarne il nocciolo duro identitario. Gli americani annoverano tra le loro fila uno dei migliori epigoni di Rob Halford, l’egualmente pelato Sean Peck, che per la forza d’urto dello screaming surclassa abbondantemente di questi tempi il Metal God per antonomasia, comprensibilmente afflitto dalle ingiurie del tempo. Oltre alle similitudini vocali, i Cage hanno molte affinità sonore che li avvicinano ai Judas Priest e, vista la propensione alle velocità smodate, ascoltarli è come sentire un disco del Prete di Giuda a 78 giri. Peck si muove tarantolato per il palco con indosso una lunga giacca di pelle non consona alla calda giornata che stiamo vivendo, e toglie solo per qualche secondo gli occhiali scuri che, anche in questo caso, non ci paiono molto differenti dal modello usato da Halford. L’impressione generale è quella di avere di fronte una configurazione più anziana e meno accattivante – per le donzelle, si intende – del Neo di Matrix. I vocalizzi affilati come una spada di samurai affettano l’aria con la sicurezza dell’assassino seriale, raramente abbiamo sentito certe note alte e cattive tenute così bene e per l’intera durata del concerto, tralasciando il fatto che anche le interpretazioni meno esagitate e più “umane” colpiscono pienamente il bersaglio. L’heavy metal dei Nostri, un matrimonio riuscito fra US metal e Painkiller-attitude, è una colata di piombo fuso lanciata sul pubblico con la grazia di una cartella di Equitalia, ma con un gradimento da parte dei riceventi molto diverso; davanti si forma un tornado di teste, è tutto un toreare di colli e ai controcori scudiscianti che arrivano in risposta a Peck, il pubblico urla come se dovesse seguire la band in capo al mondo, in una lotta all’ultimo sangue per la supremazia del metallo. La coppia d’asce tracima sospiri d’acciaio in escrescenze strumentali abnormi, sia che gli assoli siano maneggiati dall’ipetrofico Dave Garcia, non a caso soprannominato Conan e probabilmente concorrente di Mister Olympia a tempo perso, sia che ne sia data competenza a Casey “The Sentinel” Trask, altro bel funambolo prestato alla causa dei Cage. Canzoni così eccessive, circensi pur restando nel solco del già noto, spingono quasi a una reazione atletica, e pulsa l’adrenalina in vena quando si sente una vitalità del genere e una tale freschezza da un gruppo fondamentalmente tradizionalista. Passando in rassegna buona parte del materiale recente, su tutti “Science Of Annihilation”, i Cage fanno proprio “bruciare il giardino”, come recita l’inno del festival “Make This Garden Burn”. Attila non avrebbe saputo fare di meglio.
OLIVER DAWSON SAXON
L’idea di vederci Graham Oliver e Steve Dawson con i “loro” Saxon non ci garbava tanto. Ci eravamo fatti l’idea che avremmo visto due vecchi signori rancorosi tentare di recuperare lo splendore degli anni belli, accompagnati da musicisti di seconda schiera, cercando di accaparrarsi consensi con il repertorio dei Saxon in una versione stanca, anziana, orrendamente demodé. Niente di più sbagliato. Non ci compete sapere se il suffisso Saxon possa essere utilizzato o meno dagli ex chitarrista e bassista del combo autore di “Strong Arm Of The Law”, non ci interessa quanto Oliver e Dawson mastichino amaro contro Biff e l’attuale line-up dei metal heroes anglossassoni. Ci preme solo annunciare che se gli Oliver Dawson Saxon devono essere considerati alla stregua di una cover band, essa è la migliore che esista sulla piazza. Di gran lunga. Sulla bontà della scaletta è inutile dilungarsi, se si mettono in fila cavalli di battaglia da “Wheels Of Steel” a “Crusader” c’è poco da eccepire, non ci saremmo attesi invece che i compagni di ventura dei due mastermind fossero dei vecchi volponi di tale rango. Sono tutti musicisti di stampo settantiano, personaggi che parlano con gli strumenti ancora prima di suonarli, uomini che non hanno mai inseguito il virtuosismo e vivono per dare una interpretazione del rock fedele alle sue origini, nel suono e nello spirito. Quel mezzo clone di Benny Hinn che è diventato Graham Oliver ha ancora dei polpastrelli niente male e si configura quale epicentro dell’operato del quintetto. Facciamo fatica a dire se siano meglio le canzoni interpretate da questi Saxon o da quelli ufficiali, e se ci viene un dubbio del genere molto merito va dato al singer Bri Shaughnessy. Le somiglianze con Biff sono evidenti, la differenza sta in un approccio più popolare, proletario, tipico del frequentatore di birrerie di periferia dal lungo curriculum alcolico. Il retrogusto aspro delle vocals basta a non metterlo fra i cloni e nonostante non abbia un trascorso da prim’attore il cantante ha abbastanza carisma da essere credibile quando chiede l’aiuto del pubblico per “Denim And Leather”, “Motorcycle Man”, “747 Strangers In The Night”. Il visibilio è assicurato, da questi parti poi qualsiasi cosa associabile al metallo inglese fa scattare come i bimbi al momento della merenda a pane e nutella: potete immaginare quale sia stato il clima. Ci mancava giusto “Princess Of The Night”, stranamente esclusa dalla scaletta, e poi saremmo stati davvero in Paradiso…
WARLORD
Quando si rispolvera un nome consegnato alla mitologia, lo si riporta nei ranghi del reale, lo si spoglia di quella componente mistico-contemplativa a cui assurgono gli eroi che sai di non poter rivedere in carne ed ossa, dovrebbe accadere quanto andato in scena nella prima sera del festival. Ossia che la band si ripresenta, in una delle poche date di questo tour europeo (tre in Grecia, per la cronaca, solo quella di stasera in Germania), e suona come nei sogni bambineschi dei suoi più accaniti fan. Niente incertezze, nessun raffazzonamento, nessuna delusione. Solo la perfezione. Tsamis, volto tiratissimo, lascito probabilmente dei recenti problemi di salute, ha voluto i migliori per accompagnarlo in questa insperata riscoperta del monicker Warlord, iniziata nel 2013 con il convincente “The Holy Empire” e proseguita quest’anno con un selezionato giro di concerti. Il concerto tedesco è un fiume in piena di poesia epica e preziosismi strumentali degni del progressive meglio congegnato e versatile, frutto di un lavoro d’assieme certosino e che ti potresti aspettare da musicisti che suonano assieme da una vita, non da una line-up ricostituita quest’anno per l’ennesima volta con innesti di nuove forze. Non crediamo alle nostre orecchie e ai nostri occhi nell’ascoltare questa sciarada di epos, eroismi, delicatezze nella veste sonora unica degli Warlord, maestri indiscussi nell’unire le fatate divagazioni dei Fates Warning con John Arch e un’orecchiabilità da fare invidia a un gruppo AOR. Fatto il callo alla complessità e alla ricchezza di melodie che si fondono le une nelle altre, in un’apoteosi di candide sinfonie d’acciaio originali e brillanti, si percepisce un’aurea di inattaccabile classe e superiorità stilistica negli Warlord; ogni passaggio è studiato nei dettagli e riproposto con tocco attento, trasporto, immedesimazione nel mondo fantastico di cui la musica si rende colonna sonora. Dai dialoghi quasi jazzati dell’encomiabile Mark Zonder e del bassista Gary Wehrkamp alle sfide al celestiale della coppia d’asce Tsamis-Viani, fino al nuovo cantante Nicholas Leptos, non tralasciando l’apporto fondamentale delle tastiere di Angelo Vafeiadis, i singoli si fanno valere al meglio delle loro possibilità. La set-list è oceanica e comprende quasi per intero la scarna discografica dei cult-heroes statunitensi: “Aliens”, “Lucifer’s Hammer”, “Lost And Lonely Days” rappresentano il periodo pionieristico, “City Walls Of Troy”, “70.000 Sorrows”, “Glory” quello della resurrezione. “Child Of The Damned” è l’hit assoluta di un concerto di abbacinante perfezione, seguito con rapimento da un’audience preparata a qualcosa di unico, ma che forse non si aspettava tanta grazia dopo così tanti anni di assenza dai palchi.
HELLBRINGER
Sotto il sole di mezzogiorno, tocca agli Hellbringer aprire la prima delle due giornate full-time dell’Headbangers Open Air 2014. Il viaggio per arrivare a destinazione di questi ragazzi è stato più lungo di chiunque altro; provengono dall’Australia, ma pubblicano per un’etichetta tedesca, la High Roller Records, che ha dato alle stampe nel 2012 l’esordio “Dominion Of Darkness”. Borchiati e tesi allo spasimo come si conviene a degli extreme thrasher, commettono il fatale errore di suonare la stessa canzone per quaranticinque minuti filati. No, non è vero, hanno sciorinato in pratica tutto quello che hanno nel repertorio, purtroppo questo è costituito da una infilata di rasoiate fra primi Slayer, Kreator, Venom e Possessed che, se da una parte mostrano una furia cieca invidiabile, dall’altra rimasticano a cicli brevissimi tre-quattro riff al massimo e pattern votati all’aggressione unilaterale. Le linee vocali esacerbate dall’odio non aiutano nel distinguere un brano dall’altro, gli assoli schizzati e hannemaniani ci provocano un minimo di condiscendenza per l’operato del trio aussie, ma dopo una ventina di minuti cominciamo a dare occhiate preoccupate all’orologio. Esso non ci aiuta, perché il tempo concesso dall’organizzazione è sempre generoso, in certi casi fin eccessivo, come nella presente circostanza; quaranticinque minuti per gli Hellbringer sono davvero troppi e tiriamo un sospiro di sollievo quando il set giunge finalmente al termine.
WIZARD
Non nutrivamo molte aspettative per gli Wizard, tutt’altro; l’ensemble di Bocholt, assurto agli onori delle cronache metalliche nel ‘99 con “Bound By Metal”, ha visto affievolirsi nel corso delle stagioni la carica epica degli esordi, spostandosi progressivamente su un power metal profondamente affine alla tradizione teutonica, con un ampio utilizzo di quadrate marce anthemiche e una coralità di facile presa piuttosto prevedibile. I fattori esperienza e furbizia sono fortunatamente una dote in possesso di Sven D’Anna e soci; il biondo cantante, notevolmente appesantitosi a causa della tipica dieta a birra e wurstel della nazione tedesca, non ha perso la voce né le doti di intrattenitore, e confidando su una dialettica spigliata sa come farsi seguire dai presenti, comunque già molto benevoli di partenza con chiunque, figuriamoci con una delle poche squadre di casa di quest’anno! Effettivamente i Wizard dal vivo sanno il fatto loro e soprattutto con la prima manciata di canzoni, plasmate secondo le regole dell’epic metal glorioso e col cuore in mano, fanno breccia anche tra gli scettici quali siamo noi. D’Anna scende perfino sul prato a farsi un lungo giro tra i fan, in un clima molto rilassato, da festa di paese, in cui i Nostri possono permettersi di andare avanti con qualche trama un po’ scontata e non vedere comunque affievolirsi il supporto delle prime file. Se sono ancora qui a omaggiare il metal nella sua branca meno contaminata un motivo ci sarà e oggi crediamo di averlo capito anche noi.
EVIL INVADERS
Fra la pletora di glorie più o meno vetuste spuntano un manipolo di giovanissimi speed metal freaks, gli Evil Invaders. Fuori con un ep e un demo, i belgi si distinguono, già prima di suonare, per un banco del merchandising molto ricco, con almeno quattro differenti tipologie di magliette – aspetto che all’Headbangers Open Air va tenuto ancora più in rilievo che altrove, qua si mette mano al portafoglio con disinvoltura – dal cui design capiamo esattamente cosa cerchino questi ragazzi nel metal. Velocità incontrollata, urla, stridori assortiti, ruvidezza sono ingredienti fondamentali nella proposta del quartetto, dedito a uno speed metal purissimo e viziato, come si conviene, da galoppate di incontaminato heavy metal Ottantiano. Della connotazione speed metal apprezziamo l’insensatezza delle ritmiche, sempre sparate, e un’esternazione di vocalizzi acutissimi e fuori controllo, fiore all’occhiello per chi, come il sottoscritto, ha per fuorilegge delle sette note come i Solitarie – ahinoi, scioltisi quest’anno – un sordido appetito. L’irruzione delle taglienti linee vocali è mitigata da lunghe, anzi, chilometriche, parentesi strumentali a base di scontri di fuoco fra le due asce che, per durata e focosità, assomigliano a duelli cavallereschi in piena regola. Vi è leggermente da sistemare la scrittura dei brani, per ora non esaltante, ma la foga alla Destructor/Exciter e la sicurezza con cui calcano il palco ci fa promuovere l’operato degli Evil Invaders. Termometro della situazione, la coda al banchetto per accaparrarsi il merchandise del gruppo al termine dell’esibizione.
TURBO
Questa è proprio una grossa chicca. I Turbo sono uno dei capisaldi della scena polacca, aderiscono alla causa del metal da trent’anni, hanno alle spalle una discografia sterminata e praticamente non hanno mai fermato i motori da quando sono nati; hanno vissuto molteplici fasi evolutive, iniziando dall’hard rock e portandosi nel corso degli anni dalle parti del thrash metal, per tornare negli ultimi tempi al suono delle origini, restando una band per pochi al di fuori dei patri confini, ma con un following fedele e che non li ha persi di vista nei continui processi di cambiamento sonoro. La line-up odierna ha tra le sue fila strumentisti dal viso rugoso e altri appartenenti a ben altre ere geologiche, tra cui spicca per fisico e modi da seduttore il cantante Tomasz Struszczyk, dotato di una bella voce cristallina e della sicurezza del vero frontman. A dirla tutta, il variegato materiale dei Turbo non ci strega fino in fondo: le partiture più esasperate e intricate, assimilabili al power/thrash americano dei tempi andati, fanno il loro nel farci scapicollare le teste e lustrano a dovere l’ampio bagaglio tecnico della formazione, mentre i toni melodici e morbidi ci paiono un po’ standardizzati e poveri di agganci forti nei chorus e nelle strofe. Si sgranano gli occhi per i numeri in possesso del vecchio axeman Wojciech Hoffmann, che non manca di puntellare con solo efflorescenti, preziosi e ricchi di spunti, ogni singolo brano, risultando uno dei maggiori motivi di interesse della performance odierna. L’area attorno alla tettoia, abbastanza vuota nei primi minuti, si riempie adeguatamente a lavori in corso, e possiamo dire che anche per i metaller di Poznàn la trasferta germanica ha avuto un decoroso successo.
POLTERGEIST
Aggiunti all’ultimo a causa della defezione dei Paradox, i Poltergeist colgono la palla al balzo di uno slot di rilievo come questo nell’anno successivo alla reunion del 2013. Se non ne avete avuto notizia non vi preoccupate, i Nostri sono probabilmente più noti per la colorata copertina di “Depression”, ad opera di uno dei più rinomati artisti dediti ad artwork metal, Alex Hermann, che non per la musica. Oggi c’è modo di compensare tale ignoranza e di verificare come se la passino questi thrasher nella nuova incarnazione. Non hanno tratti distintivi così marcati, i Poltergeist, non sono il gruppo riconoscibile in due note, solo dei follower di apprezzabili doti tecniche e allineati alla frangia melodica del thrash, vicini all’operatività di molte band americane della seconda e affollata ondata del periodo ’86-’91. A dispetto di un peso diventato nel frattempo un po’ problematico per gli spostamenti, il singer André Gieder, conosciuto per aver cantato su “Cracked Brain” dei Destruction, saltella e arringa la ciurma sotto di lui, trovando qualche difficoltà nel reggere le frenetiche metriche impostegli dai testi e arrangiandosi ogni tanto sulle note alte. Il lavoro chitarristico tumultuoso e curato negli hook melodici tiene vispe le prime file, il materiale si rivela complessivamente ancora fresco e, complici le velocità di crociera mediamente sostenute, il prato spelacchiato dinnanzi allo stage si popola di thrasher dagli ‘anta ai poco più che maggiorenni. Le facce sorridenti e distese di tutti i musicisti raccontano di una giornata indimenticabile per questi svizzeri dal poco pedigree, ma dalla passione incrollabile e incorrotta. Uno show solido e divertente.
XENTRIX
Gli Xentrix si presentano dopo un’assenza cospicua: a parte un fugace rientro nel 2006, era dal 1997 che la compagine di Preston non si metteva di buzzo buono per far rivivere la propria musica. Pur non essendo mai stati dei prim’attori della scena thrash continentale, gli inglesi hanno costruito una discografia breve ma valida e senza cadute verticali, che ha nella seconda uscita su lunga distanza “For Whose Advantage” la sua punta di diamante. Tornati all’opera nel 2013, i quattro, con solo un innesto nuovo di pacca, il bassista Chris Shires, si rivelano la band più in palla tra quelle visionate fino a questo punto della giornata. Il thrash asciutto, prevalentemente impostato su tempi medi crudi e ostili, regge adeguatamente la prova del tempo e dà modo di apprezzare un guitar-work che non sarà geniale o ricercato, ma ha a disposizione una serie di riff di sicuro effetto, che non riportano per forza a qualche nome più grosso e affermato. L’impressione che ci danno Chris Astley e compagni è quella di chi è tornato per restare: non abbiamo l’idea che i musicisti siano ancora in rodaggio o afflitti da un malinconico guardarsi indietro, anzi, la compattezza della prova odierna li mette sullo stesso piano di band tornate all’opera già da qualche anno. Anche vocalmente non si hanno cali, e a vedere le maglie in giro ci sono tante persone che attendevano gli albionici con una certa bramosia. Chi scrive non è stato conquistato dal materiale degli Xentrix, se proprio dobbiamo essere sinceri fino in fondo, però qua siamo sulle preferenze individuali: da un punto di vista oggettivo i Nostri non hanno sbagliato praticamente nulla e per i fan che li attendevano al varco il concerto dell’Headbangers Open Air è stato decisamente soddisfacente.
DIAMOND HEAD
I Diamond Head non sono mai riusciti a scrollarsi del tutto dalle spalle l’ingombrante scimmia che li tormenta da trent’anni, ovvero di essere considerati semplicemente uno dei principali motivi di ispirazione dei Metallica e di Lars Ulrich in particolare. La condanna di essere ricordati dal grande pubblico per quelle tre-quattro canzoni entrate poi nell’immaginario collettivo per le versioni dei quattro di San Francisco ha portato a pensare agli autori di “Lightning To The Nations” come a una reliquia parecchio impolverata e ammuffita. Invece dalla reunion del 2002 in avanti, pur senza squilli di tromba e uscite eclatanti, gli uomini di Brian Tatler, mente, chitarrista solista e unico sopravvissuto di coloro che diedero la luce ai Diamond Head, si sono ritagliati un dignitoso angolino nel panorama heavy metal continentale. L’angolino diventa un salone da ballo quando si arriva da queste parti, l’accoglienza riservata agli inglesi è di quelle riservate alle superstar, e poco importa che a guidare la band ci sia un giovane con in testa il tipico crestino da fighetto al posto del mullet, o un’aderente maglia violetta vada a sostituire il chiodo d’ordinanza o una maglia sdrucita di qualche band dimenticata degli Eighties. La voce di questo ragazzo, Chast West, si rivela meritoria e all’altezza del compito da svolgere, anche se qualche imperfezione salta fuori e i vocalizzi non escono sempre con la potenza che sarebbe lecito attendersi. Gli estratti dalle ultime fatiche discografiche, pur gradevoli, non hanno un appeal clamoroso, sono un po’ leggerine, ondeggianti in un hard rock di maniera in cui le melodie NWOBHM sono molto sfumate, se non inesistenti. Tatler ne fa di tutti i colori e tiene alta la bandiera del chitarrismo old-school, ma è sulle obbligatorie “Am I Evil?”, “Lighning To The Nations”, “It’s Electric” che il pubblico si fa sentire. Fortunatamente il grosso dei brani arriva dall’esordio, e un po’ tutti ne ricordano a memoria i passaggi fondamentali, per cui i Diamond Head vanno davvero sul velluto. Quasi quasi i membri della formazione con l’età anagrafica più alta perdono qualche annetto, durante l’esecuzione di questi pezzi, gli acciacchi vanno via e si torna a ruggire, supportati da nuova linfa vitale. E’ il potere salvifico di certa musica. “Helpless” pone termine alla contesa, che ha visto i Diamond Head muoversi con discreta sicurezza, forti altresì di un alone da culto che in questo puntino della campagna tedesca nessuno metterà mai in discussione.
ANVIL
L’affetto per Lips e la sua sporca e sfortunata triade è da studiare: gli Anvil non sono mai stati dei fuoriclasse, ma si sono sempre guadagnati la pagnotta con dedizione e spirito di sacrificio, hanno passato periodi di down completo, hanno risalito la china con pazienza e tenacia e ora godono di un amore e una fedeltà da parte di un certo tipo di pubblico – cocciutamente retrò nei gusti musicali, tradizionalista fino al ripudio di ogni forma di evoluzione, tendenzialmente non compreso da chi sta fuori da questa cerchia – che rende ogni loro concerto una festa e un amarcord simpaticissimo, che fa gongolare di piacere lo sdentato leader. Insieme a quello dei Riot V, è l’esibizione più partecipata della tre giorni, e come sempre non è semplicemente la musica a destare interesse, ma sono soprattutto le pittoresche scenette, sempre uguali e sempre efficaci, che Lips mette in piedi sul palcoscenico a tenere elevata l’attenzione dei convenuti. Obiettivamente le pause che si prende per parlare nella chitarra, filosofeggiare con l’audience, piazzare battute a raffica, chiamando in causa numi tutelari come Ronnie James Dio, sono eccessive e diluiscono la valenza artistica del concerto, che offre un numero di antichi e recenti classici esiguo per il minutaggio a disposizione. Però Lips ci ha abituato a vivere in questo modo scanzonato e carnevalesco lo show, e il trio della foglia d’acero va preso così com’è, non interrogandosi troppo su cosa dovrebbe essere modificato o rivisto nell’interpretazione live. Le facce dell’eterno ragazzo a voce e chitarra valgono comunque tanto, il suo è lo spirito che qualsiasi musicista dovrebbe possedere, nella buona e nella cattiva sorte. Prendendosi tutte queste soste, finisce che la voce del nostro scalcagnato eroe tiene meglio di altre occasioni, e le mostruosità di “Mothra”, il groove di “This Is Thirteen”, il vizioso e pigro incedere di “Metal On Metal” risaltino al massimo del potenziale. A tratti più uno spettacolo di cabaret che un metal happening, quello degli Anvil è un altro concerto soddisfacente ma non trascendentale, in una giornata che sta però per accendersi, proprio col calare delle tenebre, di una luce sinistra e fortissima…
DEATH SS
L’estremo puntiglio con cui i Death SS si prendono cura di ogni dettaglio scenico fa allungare i tempi del cambio palco, fatto abbastanza trascurabile visto che problemi di orario, data la venue in aperta campagna, non ve ne sono. Nonostante la limitatezza dello spazio a disposizione e la presenza della tettoia, il gruppo italiano non rinuncia ai pyros e le prime file vengono arretrate di un paio di metri per evitare spiacevoli incidenti con qualche scintilla in arrivo dal palco. E’ abbastanza improba l’installazione di un telone dove far passare le immagini dei video della band, non fosse altro che l’altezza molto bassa del palco non consente di piazzarlo sullo sfondo e si deve quindi ripiegare su un telo abbstanza ridotto su un lato. Ovviamente, come successo all’Italian Gods Of Metal del 2008, il segnale andrà ad intermittenza, e avremo spesso lo schermo nero o con la schermata di Windows. Pazienza. Sarà questo l’unico aspetto traballante di un concerto spettacolare da parte della leggenda horror metal nostrana. I crocefissi, le fiamme finte, le luci basse e i costumi di scena ci immergono in un’altra dimensione rispetto a quanto vissuto nel resto della giornata, è tutto molto sinistro e lugubre quello che vediamo e la sensazione è quella di trovarsi sul set di un film dell’orrore, con i confini tra realtà e finzione davvero molto, molto labili. Come sempre, non c’è alcun dialogo con il pubblico, anche se Sylvester è tutt’altro che freddo e distaccato e si agita verso gli astanti per chiedere partecipazione durante i chorus, sui quali l’aiuto degli altri membri della formazione è sempre puntuale. Una graziosa performer in abiti succinti, se non inesistenti, contorna alcune canzoni, apparendo di volta in volta come una seducente odalisca, una perversa dama fetish tutta fasciata di latex oppure, come in “Vampire”, suora che cerca coraggiosamente di convertire il vampiro Steve. La cara sorella, nello scontro col cantante, ha ovviamente la peggio e, una volta “morsa”, si spoglia degli abiti per apparire come mamma l’ha fatta e usare il crocefisso per un accenno di masturbazione. Verso la fine dell’esibizione, la signorina si butterà tra la folla per uno stage diving molto gradito dalla prevalente compagine maschile. Dal punto di vista strettamente musicale, osserviamo che gli estratti di “Resurrection” fanno una signora figura al cospetto dei classici del passato e sono accolti bene dall’audience, che a dire il vero è un po’ ridotta al confronto con altri nomi più tradizionalisti visti nella tre giorni. Era accaduto in passato anche con i Fates Warning, le scelte di più ampie vedute non trovano purtroppo la stessa popolarità di quelle ultraortodosse. Pur essendo in un ambiente molto true, tuttavia, l’appeal modernista di “Let The Sabbath Begin” e “Panic” fa facilmente breccia nei cuori teutonici, al pari di episodi più vetusti come “Cursed Mama” e “Terror”. “Heavy Demons” mette la parola fine a un concerto perfetto sotto qualsiasi punto di vista, e l’entusiasmo per la bella figura fatta lo vediamo anche dai compagni d’arme di Sylvester, che ci mettono un po’ a lasciare il palco dopo saluti e foto di rito, mentre il leader lascia il palco senza alcuna reazione. Tolto un problema al microfono di Steve nelle fasi iniziali, inoltre, i suoni sono stati all’altezza della situazione e il buon Freddy Delirio ha potuto fare il bello e il cattivo tempo con le sue tastiere organistiche. Passano gli anni, ma il patto con il diavolo dei Death SS è più saldo che mai.
SOLDIER
Il sabato non poteva che aprirsi con l’ennesimo ripescaggio di metallo inglese dimenticato e disperso chissà dove. I Soldier, mai famosi nemmeno negli anni di auge per un certo tipo di suoni – si contano un demo, un singolo e un live nel lontano ’82, poi stop fino al 2003 – giustificano la chiamata con una prestazione sincera e accorata, curata in ogni aspetto, che ha il suo punto di forza nella voce leggera e di discreta estensione di Richard Frost. Non notiamo nemmeno un grosso debosciamento fisico, che si riflette in una tenuta del palco non diciamo all’altezza di un collettivo di ventenni, ma nemmeno da vecchi bacucchi. Muovendosi con equanime scioltezza fra hard rock ed heavy metal che meno contaminato non si potrebbe, i Soldier gettano sul piatto una serie di brani che si ascoltano con grande piacere; niente di troppo impegnato per le nostre orecchie stanche e ancora da rodare per affrontare al meglio l’ultimo giorno di Headbangers, ma fortunatamente non affoghiamo mai nella faciloneria o nell’approssimativo. “Dogs Of War”, un po’ un’autocelebrazione della parabola di rinascita della band, ci resta impressa come highlight dell’esibizione. Bene così.
COLDSTEEL
Nella corposa galleria di personaggi quasi ignoti al grande pubblico che ogni anno calcano le scene dell’Headbangers Open Air i Coldsteel, almeno per quest’anno, erano coloro che più davano da pensare. Si tratta infatti di una entità thrash newyorkese che ha pubblicato un solo album, “Freakboy”, nel 1992, periodo temporale assimilabile a un vero e proprio Triangolo delle Bermuda del metal tradizionale, dove tanti dischi di valore non hanno assolutamente attecchito nell’immaginario collettivo, causa drastico ridimensionamento di interesse per il settore. Poi, il silenzio, fino al 2012, che vede ripartire i Coldsteel con il solo cantante Troy Norr fra i superstiti della formazione originaria. Assieme ad alcuni giovani musicisti reclutati nel frattempo, si arriva a una nuova manciata di inediti con l’ep “America Idle” del 2013. Riparte così anche l’attività live e questo oggetto misterioso approda in Europa con il suo bel carico di punti interrogativi sulla reale necessità di avere a che fare con un gruppo di tal fatta, che quasi non aveva lasciato traccia nella prima fase di carriera. Visti all’opera, averne di gente del genere in circolazione! La carica dei cinque, soprattutto quella del cantante, inspiegabilmente con la cuffia calata in testa nonostante le alte temperature di metà giornata, è quella di chi è arrivato sul palco per conquistare il mondo, non per suonare. Il power/thrash che ci viene dato in pasto risente chiaramente dell’accentuata cura per preparazione strumentale e orditi melodici che si era diffusa nella seconda ondata del thrash americano, e la scelta di avvalersi di ragazzi che quell’epoca non l’hanno vissuta, ma che hanno studiato a menadito cosa si possa tirar fuori dal proprio strumento, risulta vincente, alla luce di una interazione sopraffina fra le due asce e di tentazioni allo shredding che non si riducono mai a bieco onanismo. Gli screaming laceranti non si contano, così come una certa brutalità e la volontà di spingere i brani costantemente sull’orlo del collasso, attraversati da parte a parte da una serie di assoli prolungati e veloci che non hanno nulla da invidiare a band più quotate. La scaletta vede comparire sia un buon numero di pezzi dall’esordio che composizioni di recente pubblicazione, e grazie allo slot molto generoso – cinquanta minuti, e sono il secondo gruppo di giornata… – il concerto diventa quasi una marcia trionfale.
ADX
ADX, ovvero “Acier Doux”, acciaio dolce, un’espressione usata nell’industria metallurgica: non potevano scegliere un monicker migliore questi francesi, tra le espressioni sonore più resistenti e prolifiche del metallo d’Oltralpe. A fronte di una produzione chilometrica – “Ultimatum”, uscito nel febbraio di quest’anno, è il loro nono album – il quintetto di veneranda età proveniente da Parigi non denota segnali di invecchiamento o di ammorbidimento. Tutt’altro. Forti di una line-up quasi immutata dai lontani esordi del 1982, con il solo bassista Julien Rousseau entrato in tempi recenti, nel 2013, gli ADX catapultano gli ascoltatori nei belligeranti reami dello speed metal più dirompente e tambureggiante che si conosca, aggiungendovi un gusto melodico degno del metal inglese più energico, in stile Saxon per intenderci. Gli anni sul groppone si vanno valere solo in senso positivo, il guitar-work dei francesi risalta per fantasia e freschezza e gli sganassoni tirati dal palco fanno uno più male dell’altro; siamo quasi allibiti nel vedere una band così stagionata prendere per il collo il pubblico con tanta veemenza! La vocalità in lingua madre del bravissimo singer Phil Grelaud non dà soltanto colore, è un valore aggiunto inestimabile, in quanto il lungocrinito cantante ha i polmoni di un palombaro e la sadica propensione a fare della sua ugola un’arma da taglio spietata. Le canzoni poi sono piuttosto articolate ed evitano accuratamente di intestardirsi sui medesimi schemi, sono dei proiettili infuocati che si piantano nella carne in profondità, senza alcuna possibilità di estrazione. La mobilità on-stage dei cinque è un altro dettaglio degno di nota, si spostano molto di più della media dei musicisti di pari età e hanno uno stage-acting aggressivo, da Hells Angels – come in effetti possono sembrare per l’abbigliamento – prestati alla musica. Dopo la botta di vita dei Coldsteel, temevamo un calo di adrenalina, e invece siamo stati felicemente smentiti da una collassante caduta verticale di sbarre d’acciaio, direttamente sulla fronte, della migliore qualità in circolazione.
TYGERS OF PAN TANG
Furbo e avveduto, Robb Weir, al contrario della maggior parte dei suoi colleghi di pari età, ha capito per tempo che avrebbe avuto bisogno di un discreto ricambio generazionale per traghettare con sicurezza la sua beneamata creatura nel nuovo millennio. Così, a poco a poco, ha mutato la line-up, pezzo per pezzo, facendo di necessità virtù, presentandosi nel 2014 in una forma brillante e invidiabile per qualsiasi band che abbia le sue origini nella fine degli anni ’70. I Tygers Of Pan Tang sono il gruppo più raffinato tra quelli della terza giornata di festival, oggi come oggi le Tigri anglosassoni vantano un bagaglio di esperienze, culture e influenze che in ambito metal classico e hard rock non è banale trovare, e ciò si riflette in performance dei singoli di altissima caratura. Mettendo assieme tanto ben di dio, non può che saltar fuori un concerto maiuscolo, incentrato come prevedibile sui tempi remoti, ma che a differenza delle altre compagini NWOBHM ha una sua modernità da offrire. Merito appunto della gioventù (relativa) degli strumentisti coinvolti, che lasciano il segno per vitalità e fluidità nell’interpretare pezzi storici come “Don’t Touch Me There”, “Gangland”, “Spellbound”. Weir, tamarrissimo e con una zazzera grigio argento che pensiamo faccia strage nei locali da ballo per over 50, si diverte un mondo a vedere la sua line-up girare a meraviglia fra anthem rolleggianti e sgasate metalliche, e chissà quanto gongola al pensiero del giorno in cui ha ingaggiato Jacopo Meille. Il cantante italiano è una formidabile enciclopedia di ciò che gravita nel rock e nei suoi dintorni, comprendendo nelle proprie sfumature vocali una forte anima soul e blues, oltre a un sanguigno e caloroso timbro rock, che gli permetterebbe di fare faville anche in realtà di maggior appeal sul grande pubblico. La prestazione all’Headbangers Open Air è impeccabile, chi scrive lo vedeva all’opera per la prima volta ed è rimasto francamente sbalordito da quello che Meille sa eseguire on-stage. Al culmine dell’energia, Weir si permette uno di quei gesti che piacciono tanto a chi di hard rock non capisce una mazza, ossia spacca la sua chitarra sul palco, regalandone qualche moncone al pubblico. Gesto superfluo, ma che dice quanta voglia abbia ancora in corpo quest’uomo. Chapeau.
VIOLENT FORCE
Roba da tedeschi: organizzare un concerto speciale per ricordare una misconosciuta compagine anni ’80, in naftalina da svariati lustri, senza avere a disposizione tutti i componenti ma solo una parte di essi, integrandoli con qualche ragazzotto che sia un grande fanatico del gruppo in questione. I Violent Force si schierano ai nastri di partenza con la presenza del solo cantante/bassista Lemmy tra i membri storici, mentre al suo fianco ci sono la coppia di chitarristi e il batterista dei Rezet, ruvido assemblato metallico di classicissimo thrash teutonico. Al thrash violento e spietato che spaccava crani in giro per quella che allora era la Germania Ovest appartenevano ovviamente gli stessi Violent Force, che vengono accolti con la stessa devozione che i fedeli dimostrano al Papa quando compare dalla finestrella che dà su Piazza San Pietro. Sono anni che vediamo queste scene e non siamo ancora riusciti ad abituarci del tutto: l’attaccamento per quelli che, di fatto, sono musicisti di seconda schiera e hanno prodotto una discografia molto limitata, incapace di diventare iconica per le future generazioni, è qualcosa di esorbitante e difficilmente comprensibile al di fuori delle legioni di appassionati che bazzicano Brande-Hornekirchen. Superati i dolci pensieri di amarcord, finiamo per farci avviluppare pure noi dall’euforia per il rientro dei Violent Force, che riescono nell’impresa non solo di non sfigurare, ma di sguainare le spade in un duello clamorosamente ad armi pari con i capisaldi del thrash germanico e del meglio dell’extreme thrash statunitense. Lemmy rivaleggia seraficamente con Petrozza ed Angelripper, non lo cogliamo in castagna una volta che sia una, l’astinenza dai palchi non ha intaccato il veleno della sua voce grattata e gretta, che puzza di fabbrica siderurgica e miniere come se fossimo ancora nei dintorni della Essen di trent’anni fa. I ragazzi dei Rezet, che con questi suoni hanno pasteggiato fin da piccoli, sono degli ottimi vassalli e rispetto alla band madre fanno una figura migliore, mettendo in fila ritmiche e assoli assolutamente scriteriati e cugini strettissimi di quelli di Slayer e Dark Angel. Giostrandosi fra il materiale di “Malevolent Assault Of Tomorrow” e quello dei primi demo – all’annuncio di “Dead City” succede il finimondo – i Violent Force, almeno per un’ora di questo assolato pomeriggio campagnolo, sono le star assolute e incontrastate del firmamento thrash metal. Underground heroes.
TRAUMA
Trauma. Il nome vi dice qualcosa, ma non riuscite ad associarlo a nulla di importante. Dai, su, prima di andare su Metal Archives e svelare l’arcano, provate a sforzarvi un attimo. Il collegamento è lì, dietro l’angolo, e riguarda proprio la band metal più discussa, amata, odiata, ricca e insultata della storia. I Trauma hanno avuto l’onore di avere tra le loro fila Cliff Burton, che ne fuoriuscì proprio per aggregarsi ai Metallica. Fece in tempo a incidere un demo, non a registrare l’unico lp rilasciato in carriera, “Scratch And Scream”, la cui ristampa ha portato nuovamente sulle scene la formazione, mai baciata da alcun successo commerciale. Obiettivamente anche “Scratch And Scream” per anni non è stato esattamente l’oggetto più ricercato dai collezionisti e quella dell’Headbangers Open Air rappresenta una ghiotta occasione di riscatto. Il quartetto si presenta con una line-up che vede i soli Donny Hillier, voce, e Kris Gustofson, batteria, quali superstiti degli Anni ’80, mentre al basso e alla chitarra ci sono due musicisti reclutati proprio in occasione della reunion. Ruggine? Amalgama da ritrovare? Cedimenti strutturali? E chi li ha visti/sentiti? I Trauma si prendono una bella rivincita, almeno per un giorno, col destino avverso e mettono in piedi un spettacolo di pregio, viaggiando in lungo e in largo nell’hard rock, nel metal melodico, fra le cavalcate intransigenti dello US metal e l’enfasi dei migliori inni che gli Eighties ci hanno regalato. Hillier sfodera una voce allucinante, all’altezza dei migliori cantanti di metal classico in circolazione, e ci chiediamo come una band di tale livello sia rimasta fuori dal giro per così tanto tempo, viste le condizioni smaglianti con cui si presenta dopo una pausa di quasi trent’anni! Qualche ritardo, crediamo, per chi suonerà dopo di loro, li porta a stare sul palco ben più del previsto, e oltre all’intero “Scratch And Scream” arriva materiale dai demo, per la gioia dei presenti, che dopo qualche timidezza iniziale hanno gremito in buon numero lo spazio di fronte al palco. Dopo averli sentiti, i Trauma difficilmente potranno essere ricordati soltanto come “quelli con cui una volta suonava Cliff Burton”.
WHIPLASH
Soliti Whiplash, e consueto baccanale thrash per gli uomini di Tony Portaro. La figura del cantante/bassista si è fatta più affilata negli anni e il suo tipico pizzetto si è sbiancato parecchio dal ritorno sulle scene del 2007; a parte questo nulla cambia nell’offerta musicale del trio, anche oggi in palla a sufficienza per far muovere i più giovani in un discreto mosh e gli altri allo sport preferito del metallaro medio, l’headbanging. La scaletta è pressappoco quella che hanno dato modo di apprezzare negli ultimi anni, incentrata quindi su “Power And Pain” e in generale sulle canzoni più ortodosse e quadrate del repertorio. Scelta ideale per i festival, in particolar modo per uno così tradizionalista come questo, anche se un minimo di coraggio non guasterebbe, considerato che la formazione è sempre in giro e il rischio di vedere una fotocopia di una esibizione passata è alto. “Power Thrashin Mad” e “Spit On Your Grave” restano in ogni caso due belle sassate negli occhi e non possiamo fare altro che apprezzarle, la spinta data in ogni secondo dello show è di quelle che fanno andare via di testa i tipi meno tranquilli e l’estrema stringatezza di ogni pezzo in set-list si traduce in un apprezzamento pressochè pleonastico. Dal canto nostro, arriviamo un po’ prostrati sul finale, crediamo che ciò sia dovuto all’aver ammirato i Whiplash molte volte negli ultimi anni e, avendo questi suonato quasi sempre lo stesso materiale, quello dell’Headbangers Open Air ci è parso uno spettacolo un po’ di routine. Sottolineiamo che è una impressione molto personale, al di là dei gusti dei singoli i tre del New Jersey rimangono una sicurezza e difficilmente tradiscono le attese. Bocciarli per la poca voglia di scompigliare la scaletta sarebbe intellettualmente disonesto.
GRAND MAGUS
I Grand Magus hanno trasceso da un po’ lo status di mera band underground, il passaggio su Nuclear Blast e l’assestamento su un epic metal cadenzato e dai cori calamita, a discapito delle voglie stoner di inizio carriera, hanno allargato esponenzialmente il bacino d’utenza dei tre svedesi. I quali sono riusciti nella difficile impresa di non perdere i sostenitori di lunga data, conquistandone di nuovi, e questo si traduce in un consenso diffuso alla loro proposta in qualsiasi sede si presentino a suonare. Questo discorso vale anche per l’Headbnagers Open Air, che vede come novità l’ennesimo cambio di look di Fox, presentatosi con il capello di nuovo lungo, basette modello foresta vergine e senza barba. A dirla tutta, questo aspetto è abbastanza buffo, ma non è il caso di approfondire granchè la questione, meglio pensare alle cose importanti e concentrarci sulla musica: al netto di una set-list un po’ troppo prevedibile – qualche ripescaggio dai primi lavori non ci sarebbe stato male – i ragazzi viaggiano col pilota automatico su livelli molto alti, talmente coesi che potrebbero suonare tranquillamente ad occhi chiusi. La commistione fra la musica da biker con la fissa dello stoner e quella evocatrice delle eroiche gesta dei guerrieri vichinghi fa i suoi bei danni per l’ennesima volta, e a questa tornata l’abbigliamento da vero metallaro tradizionalista ci fa sembrare il gruppo più stradaiolo del solito. I Grand Magus sollevano una partecipazione vocale importante e, appoggiandosi su un Fox in ottime condizioni di forma, si permettono di scatenare con molta scioltezza i numeri più amati del repertorio da “Iron Will” in avanti. Proprio la title-track dell’album che gli ha permesso il salto di qualità in termini di popolarità è il ricordo più piacevole del concerto, che vive altri momenti topici in corrispondenza di “Ravens Guide Our Way” e “Hammer Of The North”, come di consuetudine canzone di congedo. Molti applausi anche per gli uomini di Stoccolma, sempre professionali ed encomiabili per la resa dei pezzi e la partecipazione emotiva che sanno creare.
RIOT V
Questo è amore vero. Non c’è altro modo di definirlo. Lo percepiamo distintamente, un’entità fisica che si muove nella fresca nottata tedesca e che dà forza e coraggio a una band che sembrava non dovesse esistere più, e invece è ancora tra noi. Un amore che arriva da tutti coloro che non si sono voluti rassegnare alla fine di una leggenda, e in questo momento vedono dare un seguito a una storia che sembrava essersi interrotta definitivamente. La prematura scomparsa di Mark Reale ci aveva fatto credere che per i Riot fosse scoccata l’ora fatale, ma così fortunatamente non è stato. E’ cambiato il nome, Riot V, certo, però la perdita del leader non ha bloccato l’attività di una band forse non abbastanza celebrata per l’importanza che ha avuto nello svilupppo e nell’affermazione del power metal, sia esso di matrice statunitense od europea. In questi luoghi consacrati al metal classico, invece, i die-hard fan riotiani sono numerosissimi e non paiono avere dubbi sulla ragione di portare avanti il nome Riot anche dopo la perdita del deus ex machina. Don Van Stavern e Mike Flyntz sono la memoria storica di una compagine profondamente rinnovata, che vede comparire alla voce una new entry, conosciuta per aver lavorato con Jack Starr nei suoi Burning Star: si tratta di Todd Michael Hall, gioviale ragazzone del Michigan bello palestrato, che pensavamo fosse sulla trentina e invece sfiora i quarantacinque, è amministratore delegato di una società che si occupa di attrezzature professionali per i bar e trova anche il tempo per sfogare la sua passione per l’heavy metal. Non fa rimpiangere gli illustri predecessori e si produce in un’interpretazione fedele ed entusiasta dei grandi classici dei Riot, beccando tutte le note e dialogando con disinvoltura con un pubblico che non gli chiedeva solo di cantare bene, ma di calarsi nei panni del frontman di razza: detto e fatto. Il resto del gruppo non paga dazio a una comprensibile tensione per questa ripartenza, che si andrà a concretizzare con un nuovo disco in autunno, e viaggia alto e sicuro fin dall’apertura affidata alla grande “Narita”. “Wings Are For Angels”, affermano i Riot, e probabilmente l’angelo custode impersonato da Mark Reale si mette a dare una bella mano alla sua creatura, che non sbaglia un colpo e fa godere ai presenti un best-of live di incontenibile potenza emotiva. “Metal Warrior” è un convincente antipasto della nuova opera in studio, “On Your Knees” e “Metal Soldiers” sono due sculture d’acciaio dell’epoca di “The Privilege Of Power”, ma a farla da padrone sono “Thundersteel” e “Fire Down Under”, i due picchi per antonomasia nella discografia dei Nostri. Ci si dà dentro allora con “Swords And Tequila”, “Fire Down Under”, “Flight Of The Warrior”, “Sign Of The Crimson Storm”, “Bloodstreets”, una più acclamata e applaudita dell’altra. Compattissima e prepotente la coppia d’asce, spaccamontagne il duo ritmico, i Riot conducono in porto un’esibizione sopraffina, che vede il momento “lacrime e ricordi” verso la fine, quando arriva il ricordo di Reale: Hall porta sul palco la valigia per chitarra con il suo nome e ricorda, come se qualcuno non lo sapesse, che senza lo sfortunato chitarrista di origine italiana nulla sarebbe mai stato possibile per questa band. L’encore è un’altra valanga di piacere e “Thundersteel”, da sola, mette in riga praticamente il 99% delle realtà power metal odierne. “Outlaw”, sempre, comunque e dovunque, questi sono i Riot e con questo pezzo salutano una spettacolare edizione dell’Headbangers Open Air, fortezza inespugnabile del classic metal e patrimonio irrinunciabile della cultura metal contemporanea.