Introduzione e report a cura di Marco Gallarati
Foto di Emanuela Giurano
Progression Tour 2012, terzultima data, Rock & Roll Arena, Romagnano Sesia. In un caldo giovedì di fine marzo, in cui l’estate sembra aver rubato il posto alla primavera, ci facciamo un centinaio di chilometri per andare a documentare la calata italica di un pacchetto metal/death-core di tutto rispetto. Si sa, negli ultimi anni il metal-core è andato scemando in popolarità, mentre il suo gemellino più estremo death-core riesce ancora ad alimentare una buona scena underground e giovanile. Quando però si parla di gente come Heaven Shall Burn e Unearth, fra i capostipiti del genere rispettivamente in Europa e in America, ci si trova di fronte comunque ad un evento certamente appetibile. Nell’isolata Romagnano Sesia, oltretutto in un giorno lavorativo, non è facile però richiamare grandi masse di audience; ed è quindi con un pizzico di delusione che prendiamo nota della soltanto discreta affluenza alla manifestazione, che peraltro, se non proprio di eccezionale livello, è stata di sicuro appagante. Oltre ai due validi co-headliner, di supporto troviamo Suffokate (che sostituiscono i Rise To Remain) e Neaera, band dalla diversa esperienza che sulla carta sono in grado di ben intrattenere. Come prima performance, in apertura alle band d’apertura, abbiamo però i nostri Within Your Pain di Vigevano: sufficiente il loro show, carico di grinta e adrenalina ma anche di una presenza scenica che necessita maggior confidenza, in quanto lo stile proposto, pur in perfetta collisione con la serata, risulta ormai abusato e bisognante personalità. Tempo di un rapido cambio di palco e tocca alle compagini straniere…
WITHIN YOUR PAIN
NEAERA
Pensavamo dovessero suonare prima i Suffokate, invece è subito la volta dei Neaera. Il combo di Munster, Germania, sono anni che ha abbandonato il death-core tout-court per dedicarsi ad un death-black metal melodico potentissimo e ossessivo, solo parzialmente solcato da breakdown mosh. Dal vivo la band è sempre molto preparata, anche se le pettinature di quasi tutti i membri sono alquanto improbabili. Fortuna che Benjamin Hilleke è un frontman attivissimo e simpatico – lo vedremo più tardi anche in mezzo alla folla in occasione dei gruppi seguenti – ed in grado di reggere da solo l’impatto di un live. Una manciata di brani viene eseguita con dedicata perizia e il locale sostiene di buona lena il devastante wall-of-sound dei Neaera, che chiudono con una terremotante “Spearheading The Spawn”, lasciando nel marasma, e stremate, le prime avvisaglie di pogo e violent dancing. Buon riscaldamento di serata.
SUFFOKATE
I Suffokate sono di Oakland e qui da noi non sono molto conosciuti, se non dagli strenui follower della poco fa citata scena death-core. Colpa forse della mancata distribuzione attraverso i canali standard dei loro dischi, chi può dirlo? Ma grazie alla promozione digitale, è parso evidente stasera come il quintetto yankee sia riuscito a ritagliarsi un piccolo ma appassionato seguito anche qui in Italia. La band comunque ci sa fare, nonostante il suo stile sia pieno zeppo di cliché e usi e costumi comuni a quasi tutte le formazioni che praticano il breakdown mosh come filosofia di composizione musicale. Ma, ad esempio, la nostra impressione è che questi ragazzi siano molto più bravi dei tanto osannati Suicide Silence, innanzitutto nel frontman Ricky Hoover, un altro giovine iper-tatuato e dotato di spaventosi dilatatori nei lobi delle orecchie, e poi nel resto dei musicisti, precisi e tecnici. Cambi di tempo a iosa, dunque, ma tutti studiati e strutturati per portare a continui rallentamenti e breakdown, per la gioia del divertente pacchetto di kung-fu moshers in canottiera ed espadrillas che si è schierato nel pit a roteare gli arti. Una mezzora e passa di divertimento circense, dunque, con qualche impellente sbadiglio dovuto solo alla ripetuta riproposizione di un unico schema. Bravi, ma per le capacità tecniche dimostrate pare siano un po’ sprecati.
UNEARTH
Con gli Unearth si sale all’improvviso di livello. La formazione di Boston è, fra quelle oggi in vetrina, la più classic-oriented, con in line-up la presenza di due chitarristi, Ken Susi e Buz McGrath, che non disdegnano il prodigarsi in assoli e arzigogoli virtuosistici. Addirittura Susi si lancia in un paio di clean vocals da ricovero coatto immediato e che ci fanno rizzare i capelli dallo spavento, roba da far sembrare i Caliban, nel campo delle voci pulite nel metal-core, dei maestri. Ma comunque…si parte con il classico Unearth per eccellenza, “The Great Dividers”, sprecatissimo in apertura, quando i suoni sono ancora da calibrare; problemino che, nel caso odierno, per la band si tramuterà in un neo irrisolvibile, creando un impasto cacofonico di note fino a fine setlist. Dicevamo di “The Great Dividers”…il pogo parte immediato e, a rischio sincope, anche chi scrive si lancia in mezzo. La scaletta è buona e divertente, Trevor Phipps e compagni pescano un po’ da tutta la discografia, con pezzi come “My Will Be Done”, “Giles”, “Watch It Burn” e “This Lying World” a farla da padrone ed in grado di far ribollire notevoli sacche di mosh. Peccato per la confusione della resa sonora, che ha un po’ infastidito la fruizione dello show; gli Unearth, per il resto, hanno fornito la solita prestazione energica e in scioltezza. Una conferma appena appena sotto il brillante.
HEAVEN SHALL BURN
Si arriva agli Heaven Shall Burn, headliner di quest’oggi, ed il paradosso è che un po’ di gente impegnata nel movimentare il pit degli Unearth sparisce letteralmente di fronte al combo tedesco, sancendo così una parziale sconfitta del death-core europeo contro quello americano. Forse la band è troppo legata al death melodico epico e marziale dei Bolt Thrower ed i suoi ‘breakdown’ non sono esattamente uguali a quelli che di solito fomentano i ragazzini più giovani e convinti, bensì inseriti in un contesto più organico e fluido di strutturazione del pezzo, ma fatto è che, dopo l’intro a sorpresa che rispolvera il motivetto della sigla del telefilm Eighties ‘Airwolf’ (in Italia ‘Supercopter’), l’impatto che “The Omen” ha sul pubblico è sì coinvolgente ma non annichilente. Molto meglio la successiva “Counterweight”, mattonata di cemento armato che Marcus Bischoff lascia cantare in parte anche ai fan strizzati sulle transenne. Nessun fronzolo per gli HSB, nessuno striscione, nessun ammenicolo, solo quattro sfavillanti luci tonde posate sul palco, luci che generano panorami stranianti ogni tanto. Con delle camicie sudate e impiastricciate all’inverosimile, i cinque germanici, fra cui è da rilevare la perdurante assenza del drummer Matthias Voigt, forniscono una prova inebriante e impegnativa da sostenere, che vede i suoi picchi più alti all’altezza delle esecuzioni di “Black Tears”, “Voice Of The Voiceless” e “Endzeit”. Eseguito anche il vecchio classico “Behind A Wall Of Silence”, mentre di minore impatto sono risultate essere le composizioni più recenti, come ad esempio la scarsina “Return To Sanity”, posta in chiusura di setlist. Come bis, per fortuna, ecco l’arrivo della storica “The Weapon They Fear” e della cover di “Not My God” degli Hate Squad, per un commiato dal pubblico di Romagnano più che dignitoso e massacrante. Molto meglio di quando suonarono al Rockplanet di Cervia, un anno e mezzo fa. Ora aspettiamo le loro prossime mosse in studio, considerato che gli Heaven Shall Burn sono giunti ad un delicato momento della loro carriera.