Report di Sara Sostini
Foto di Simona Luchini
Soffocati da una contemporaneità spesso troppo veloce o disumanizzante, spesso abbiamo bisogno di evadere da sovrastrutture opprimenti o routine monotone, riscoprendo un bisogno, estremamente umano: quello di storie capaci di ricongiungerci con una natura viva e quasi senziente, con un passato mitizzato carico di spiritualità. Mondi e tradizioni distanti esercitano un fascino particolare – e il rinnovato interesse per le tradizioni norrene anche nella cultura pop contemporanea ne è un indizio – cui è difficile resistere. Basta guardare la folla multiforme e foltissima (composta da metallari, gente in abiti di fattura antecedente il 1200 o in abbigliamento silvestre, facepaint che non avrebbe sfigurato sul set di “Braveheart”, giovanissimi e più stagionati appassionati di musica e non solo) accorsa all’Alcatraz di Milano per la prima data italiana degli Heilung: il collettivo nordeuropeo è araldo di un modo unico ed efficace di fondere sperimentazione sonora, folklore e storia europea, la cui partecipazione alle colonne sonore della serie tv “Vikings” o al secondo, futuro capitolo di “Senua’s Saga: Hellblade” ha solo contribuito a sottolinearne la potenza atmosferica ed evocativa, che nel recente “Drif” trova nuove sfumature e profondità espressive. Il gelido venerdì di inizio dicembre che accoglie la calata italiana del tour vede il locale milanese circondato da una coda di spettatori già fin dall’apertura dei cancelli; d’altronde le due proposte musicali scelte come supporto – i loop ipnotici di Lili Refrain e il connubio tra elettronica, folk e cantautorato di Eivør – sono parte di un piatto talmente succulento per cui vale la pena presentarsi – traffico e lavori permettendo – all’Alcatraz sin dal tardo pomeriggio. A voi il racconto di un viaggio speciale.
Il primo, stentoreo battito di tamburo che inaugura la performance di LILI REFRAIN, capace di rimbombare con una potenza inusuale nell’Alcatraz, rende evidente due cose: la prima è che sarà una serata indimenticabile. La seconda, non meno importante, è che il settaggio dell’acustica è a livelli eccezionali: che siano percussioni, note di chitarra o modulazioni vocali, ciascuno degli elementi che compongono la musica della minuta artista italiana risulta mirabilmente definito e limpido, dando uno spessore ulteriore ad una proposta musicale già di per sè particolare. La ‘Nostra Signora delle stratificazioni sonore’ ha infatti costruito negli anni un percorso sperimentale originale e fluido, capace di toccare derive ambient e ‘post-‘, accarezzando suggestioni stoner-sludge ma tracciando una strada personale e unica, alla scoperta delle infinite applicazioni dei loop e delle sperimentazioni sonore (nel sottobosco underground capitolino e non solo), arrivata con il recente “Mana” ad una ulteriore, viaggiosissima tappa.
È difficile sottrarsi al potere ipnotico di note ripetute all’infinito, riflesse e rifratte su strutture sempre in sovrapposizione: lo testimoniano le centinaia di teste che si muovono a ritmo sull’assorta cavalcata “Mama Wata”, mentre la musicista intesse un arazzo caleidoscopico in cui le percussioni sono la trama, le partiture di chitarra l’ordito e la voce – ora urlata, ringhiante, ora distorta, ora cristallina e chiarissima – la spoletta che viaggia sapiente per intrecciare il tutto. Ad un iniziale, apparente stupore da parte del pubblico, presto si sostituisce un coinvolgimento sempre crescente, ma non siamo stupiti: per quanto particolare possa essere la proposta di Lili Refrain, la sua bravura nel costruire il concerto con gesti e abbigliamento da sciamana, insieme ad una maestria musicale fuori dal comune, evidente soprattutto nell’eccezionale lavoro di chitarra (forse più in primo piano negli esordi, che vi invitiamo a recuperare), è veloce nello stregare e conquistare la platea; questa, dal canto suo, non si fa problemi a salutare con un’ovazione il finale da scapoccio di “Travellers”, regalando a Lili un “benvenuta!” che inevitabilmente ha il sapore di casa. A fine concerto Lili ringrazia commossa, contenta e fiera di essere sopra quel palco ad inaugurare a suon di loop una serata dai toni tanto sacrali; dal canto nostro condividiamo lo stesso suo sorriso, perchè ci riesce difficile immaginare una partenza migliore.
Il nostro viaggio prosegue decisamente su lidi più siderali con EIVØR: la biondissima compositirice delle isole Fær Øer, stasera accompagnata da un altro musicista dietro sintetizzatori, tastiere ed effetti vari, è stata capace di unire l’algida bellezza siderale della tradizione musicale delle proprie terre con l’elettronica, impreziosendo l’ibrido risultante con una voce evocativa e melodiosa. Molti questa sera sono qui anche per lei, forse anche per il suo lavoro nella colonna sonora della serie tv “The Last Kingdom”, i cui estratti effettivamente scuotono il locale per intensità e carica emotiva, ed il vigoroso applauso iniziale ne è testimonianza. I vocalizzi acuti e soavi di “Gullspunnin”, in grado di ammorbidire un linguaggio per latitudine aspro e spigoloso, si mescolano con delicatezza alle basi elettroniche, creando immagini di scenari gelidi, mare sciabordante e cieli possibili solo a latitudini estreme, tratteggiandone però i lati più panoramici e aggraziati con la delicatezza assorta di una ninnananna. Forse non è qualcosa che ascolteremmo tutti i giorni, lo ammettiamo, però ad esempio il ritmo gutturale e cadenzato di “Trøllabundin”, con le strofe raschiate e dall’andamento quasi bestiale, eseguita solo con voce e tamburo, ci ha regalato un finale più coinvolgente di quello che ci aspettavamo.
Poi tutto questo viene, semplicemente, spazzato via. Quello che gli HEILUNG portano sul palco infatti non è un concerto in senso stretto, nè una mera rappresentazione teatrale: assomiglia, se proprio dovessimo avventurarci a trovare qualche paragone, ad una messa in scena sacrale di un mito in talune cerimonie dell’antichità, di cui si ripercorreva la storia reiterandone gesti, parole, canti, parte di una ritualità codificata e simbolica. Eppure non basta neanche questa immagine per descrivere a quanto abbiamo assistito, perchè Kai Uwe Faust, Christopher Juul e Maria Franz, insieme al collettivo di musiciste, musicisti e officianti vari che compongono la versione live degli Heilung, reinterpretano quelle storie primigenie amplificandone l’impatto e la carica emotiva attraverso l’utilizzo di voci bestiali oppure ieratiche, con un muro percussivo che ha pochi uguali anche nei virtuosi della batteria nel mondo metal a livello di intensità e una ricchezza di scenografie (oltre nebbia e fumi d’incenso scorgiamo degli alberi, per dire) e coreografie davvero impressionante.
Palchi di ossa, battaglie sanguinose riflesse negli occhi febbrili su “Hakkerskaldyr”, sacrifici umani, ispirazioni divine, furia tribale, shieldmaiden, strumenti dimenticati dalle ere del tempo, danze trascendenti (“Hamrer Hippyer”), inni sacrali – la magia di “Hakkerskaldyr” è palpabile – e bracieri ardenti: dalla cerimonia d’apertura, seguita da “In Maidjan” istantaneamente da pelle d’oca, fino alla chiusura a base di sudore e fuoco, gli Heilung raccontano una storia fatta di tanti racconti diversi, sapientemente uniti insieme dalla musica, coscientemente riproposti in modo da poter lasciare a ciascuno spettatore la possibilità di partecipare a livello emotivo e talvolta spirituale e interpretare quanto vede con una certa libertà. E forse anche con un certo rispetto per un tipo di musica che rende davvero solo con un buon grado di raccoglimento o partecipazione (che sia cantando o ululando, abbiamo sentito di tutto), cosa talvolta difficile nel corso della serata per l’immancabile muro di telefoni e chiacchiericcio distratto qua e là.
Ma neppure questo basta a tenerci ancorati alla realtà più contingente, perché il muro sonoro e immaginifico dilaga dal palco e scuote chiunque senza distinzione, moltiplicando i suoni più minimali (come lo sfregamento di legnetti, o la sabbia che scorre in una conchiglia) e ingigantendo i rintocchi più baritonali: dalle apparenze sciamaniche di Kai alla furiosa carica dei tamburi di Christopher e degli altri due percussionisti, alla potenza ‘fisica’ della voce di Maria e del resto del comparto canoro, veniamo trascinati attraverso epoche e geografie diverse, ripercorrendo una storia umana seguendo linee ancestrali e radici secolari profondamente immerse in una terra senza nome. Qualunque sia il grado di gradimento di una proposta musicale (e culturale) di questo tipo, è impossibile non rimanerne toccati, in senso positivo o negativo secondo i propri gusti; da parte nostra non nascondiamo l’emozione di aver ‘visto con tutti e cinque i sensi’ cosa vogliano dire brani come “Norupo” (estratto insieme a molte altre da “Futha”) o “Anoana” dall’ultimo “Drif”. Si arriva a fine esibizione inevitabilmente provati ma, quando l’ultima voluta d’incenso si posa sulla folla dagli occhi scintillanti e rapiti, infine, sappiamo di aver assistito al concerto dell’anno, per coinvolgimento e intensità.
LILI REFRAIN
EIVØR
HEILUNG