13/06/2007 - Heineken Jammin’ Festival 2007 @ Parco San Giuliano - Venezia

Pubblicato il 20/06/2007 da
A cura di Maurizio “MorrizZ” Borghi

Giovedi 14 giugno è la data di partenza per l’Heineken Jammin Festival, per la prima volta sul suolo del parco San Giuliano di Venezia. Una location accogliente e verdissima, molto estesa anche se relativamente scomoda da raggiungere dalle diverse parti d’Italia. Anche se il caldo è umido e sfiancante il sole tarda ad uscire, e pure una pioggerella fa preoccupare i presenti memori del diluvio al Gods Of Metal. Di sicuro interesse per il pubblico metal la prima giornata del festival, che date le sfortunate circostanze si trasformerà nell’unica: come tutti avrete sentito dai telegiornali, infatti, il venerdì, senza alcun preavviso, si è sfiorata la tragedia, quando una tromba d’aria ha abbattuto diversi piloni che reggevano il palco causando diversi feriti (nessuno grave fortunatamente) e il crollo della struttura. La furia del vento, unita alla grandine, ha divelto anche alcuni alberi, scoperchiato delle strutture e causato moltissimi danni: in poco tempo è stata posta la parola fine alla manifestazione, quando a pochi chilometri la gente ignara continuava ad accorrere al parco. Sfortunatamente, piuttosto di parlare di musica e celebrare un ritrovo gioioso, Madre Natura sposta le righe dedicate all’evento nelle sezioni di cronaca dei media, ma non su Metalitalia.com. Questa la cronaca della giornata, indubbiamente ben riuscita sia per una organizzazione puntuale sia per una professionalità lodevole dello staff impegnato.

IDOLS ARE DEAD

Ad aprire la prima (e unica, dati gli eventi che si verificheranno venerdì 15 giugno) giornata dell’Heineken Jammin Festival 2007 ci sono i vincitori di uno speciale contest organizzato esplicitamente per l’evento. Nu metal molto groovy, energico ma ficcante, decisamente ben confezionato per gli Idols Are Dead. I più attenti riconosceranno Mana dei Folder alla voce, accompagnato da Luka degli Addiction Crew e da altri nuovi musicisti di Bologna: ecco spiegato tanto talento! Ci sono buone probabilità che torneremo a sentire parlare di loro…

LAUREN HARRIS

Eccola qui. Ancora. Inevitabile come la morte e le tasse. Non ce l’abbiamo con la figlioletta di Mr. Harris, ma oramai la storia sta diventando prevedibile: crede ancora di farcela la ragazza, quando un anno pieno di tour di spalla dei Maiden non ha rimediato più che qualche coro ironico e qualche sfottò? Per rispetto al padre nessuno esagera, ma l’hard rock zuccheroso della moretta targata 1984 non fa presa e si dimostra null’altro che un divertissement, ci si dimentica però che un bel gioco dura poco. In sintesi la giovane è carina e si impegna, ma le linee melodiche sono di quanto più scontato e inefficace possiate trovare su un grande palco. Avete notato il nonno alla batteria?

MASTODON

Essendo la proposta indubbiamente più complessa della giornata i Mastodon sono stati artefici di uno spettacolare successo: il pubblico giovane del frontepalco li ha sorretti fin da subito, mentre le retrovie venivano catturate dall’esibizione di stile della formazione di Atlanta. Brann Dailor è un terremoto dietro la batteria, e non si scompone un secondo nemmeno quando il sole lo travolge dopo la pioggia leggera di una mezz’ora prima. Brant, vestito completamente di nero, accusa il solleone ma non smette di dannarsi l’anima per riproporre, nel set più corto di un’ora, le canzoni tratte principalmente dall’ultimo “Blood Mountain”. Peccato per il sonoro non degno di una tale sanguigna prestazione: dopo averli visti a supporto di Tool, Iron e Machine Head sarebbe ora per il pubblico italiano di assaporarli da headliner.

DOMINE

Addirittura dopo i Mastodon, tocca ai toscani Domine sfoggiare il loro power-epic metal agli accaldati. La formazione, capitanata dai fratelli Paoli e da Morby, ha uno slot davvero importante e non deve fallire l’esibizione, che potrebbe non ripetersi una seconda volta in un festival di tale portata. Con l’entusiasmo di un ragazzino il frontman si abbandona quindi a una prova come sempre professionale dal punto di vista vocale, a volte un po’ incosciente quando si lancia in corse degne di Bruce Dickinson rischiando entrambi i polmoni: i grandi acuti di Morby non mancano però di esaltare i true metaller presenti, che dimostrano di voler conservare questo patrimonio vivente di metallo italiano. Un’esibizione convincente, ma forse un po’ noiosa per la frangia di pubblico a digiuno di power e che aspettava la diversa proposta degli Stone Sour.

STONE SOUR

In continua ascesa, sempre più sicuri di sé, sempre più osannati da un numero di kid crescente, forti di un look curatissimo: si può dire con senno che gli Stone Sour NON sono il progetto parallelo di Corey Taylor e James Root: sono decisamente più simili a un secondo figlio a cui si dedicano tanto quanto al primogenito. Taylor, che si sta facendo ricrescere i capelli, è un frontman istrionico e straordinario: gli occhi sono tutti per lui, i corpi aspettano un suo sorriso e una sua incitazione per scatenarsi. Vocalmente si conferma un’ottima ugola, partendo dall’energia di “30/30-150” e passando per delicata e attesissima “Through Glass”, che non ha mancato di far sciogliere il gentil sesso. Niente “Sillywords” in scaletta, e una conclusione affidata a tracce dal primo album: “Blotter”,”Hell & Consequences” e “Get Inside”. Un “ciao bello” e uno “stronzo” ironico ad un fan che ha rovinato il momento acustico, in italiano quasi perfetto (merito di Cristina Scabbia probabilmente, presente a supportare il compagno) fanno il resto. Il forte presentimento è che la storia degli Stone Sour non finisce qui.

SLAYER

La leggenda si materializza con gli Slayer. Cosa scrivere su una formazione che non ha bisogno di presentazioni? Sessantacinque minuti dove i vecchi si sono dimostrati arcigni e indistruttibili, pur con qualche furbizia, come le pause allungate tra un pezzo e l’altro e la predilezione di pezzi più cadenzati. Così viene rispolverata anche “Bloodline”, una canzone che la formazione esegue abbastanza raramente, in mezzo a “God Hates Us All”, “Dead Skin Mask”, “War Ensemble” e agli estratti del nuovo disco, ovvero il singolo “Eyes Of The Insane”, “Cult” e la moderna “Jihad”. Araya è sorride beffardo e scherza col pubblico, King invece, come al solito, ha lo sguardo incazzato e scatena la follia dei presenti con un costante e sfrenato headbangin’. Si sa che nei festival la formazione non si esprime prettamente al massimo delle proprie capacità, ma a parte un calo evidente della voce di Araya nel finale i presenti possono dirsi più che soddisfatti. Chiudono entrambe le canzoni richieste a gran voce in tutti i momenti di silenzio: “Raining Blood” e “Angel Of Death” – e non è un’ovvietà, spesso e volentieri anche una di queste viene tagliata!

IRON MAIDEN

Il prato del Parco San Giuliano è calpestato finalmente da un pubblico numeroso quando calano le tenebre ed arriva il momento degli headliner, gli attesi Iron Maiden, inossidabili e acclamatissimi, assenti dall’oramai lontano novembre quando fecero un doppio sold-out al Forum di Milano. Grazie al cielo l’audace esperimento di riproporre l’intero “A Matter of Life and Death” è giunto alla sua necessaria fine. Ai posteri appare più chiara la motivazione che li ha spinti ad un esperimento così rischioso: è lampante come uno spettacolo degli Iron, impegnati nei grandi classici, sia sostanzialmente una perfetta replica di un suo casuale predecessore, con pochissime trascurabili varianti. Agli occhi del defender il problema non si pone: non solo i Maiden sono in forma smagliante, ma possono colmare ancora una volta, temporaneamente, il desiderio inappagabile di vederli dal vivo; i fan più giovani invece hanno la possibilità di vedere i grandi classici per la prima volta su un palco, forti di una interpretazione spettacolare e di un contorno, sia a livello scenico che di appoggio del pubblico, quasi imparagonabile. Chi invece li vede per l’ennesima volta e spera in qualche colpo di scena verrà irrimediabilmente deluso, considerate le stesse trovate sceniche piazzate alla stessa medesima canzone: nessun problema anche in questo caso, di sicuro questi ultimi sono una percentuale infinitamente inferiore. L’inizio è quasi un incubo: “Different World”,”These Colours Don’t Run” e “Brighter Than A Thousand Suns” sono eseguite una di fila all’altra, proprio nell’ordine del CD. Poi però parte una lunghissima serie di Classici, con la C maiuscola, prevedibili ma necessari. “The Reincarnation Of Benjamin Breeg” e “For The Greater Good Of God” intervallano un’ultima volta, consegnando ai Maiden-fan le conclusive “2 Minutes To Midnight”,”The Evil That Men Do” e “Hallowed Be Thy Name”. Tutti felici, tutti contenti: il popolo metallaro è pago, e davvero nessuno potrà aspettarsi le nefaste casualità della giornata successiva: l’Heineken Jammin Festival si conclude in pratica il primo giorno, e speriamo vivamente possa tornare a vivere il prossimo anno, considerata, dopo la tromba d’aria che ha causato la fine prematura, anche la bufera che si abbatterà sull’organizzazione.

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