Report a cura di Emilio Cortese, Igor Belotti e Luca Pessina
Introduzione di Emilio Cortese
Il francese Hellfest è un festival che ormai non ha più bisogno di tante presentazioni. Da qualche anno a questa parte, infatti, la tre giorni di Clisson può vantare running order davvero da capogiro, in cui ci si trova davanti a scelte molto difficili del tipo “E adesso quale concerto guardo e quale invece sacrifico?”. Dal punto di vista musicale, infatti, questo evento crediamo abbia ben pochi rivali. Si tratta di un festival in grado di accontentare davvero tutti i tipi di timpani metallici, offrendo nomi classici e storici (Judas Priest, Scorpions od Ozzy), oppure più moderni e accattivanti (In Flames, Alter Bridge). Ma c’è anche molto spazio per realtà estreme di ogni genere: dai riuniti Coroner agli insuperabili Bolt Thrower, passando per Opeth, Morbid Angel, Melvins, Electric Wizard, senza tralasciare realtà e generi più underground come il punk/hardcore (Raw Power, Bad Brains e via dicendo). Una volta visto un bill del genere, c’è da non pensarci due volte, caricare lo zaino in spalla e affrontare questa tre giorni di metallo pesante tutta d’un fiato. Il festival si svolge su quattro palchi: due “Main Stage” affiancati, divisi soltanto da un megaschermo, dove si alternano le esibizioni dei gruppi più in vista e famosi, e due palchi “minori” situati nei rispettivi tendoni (nominati Rock Hard e Terrorizer tent), dove ad alternarsi sono le band un po’ più di nicchia e underground e dove si ricrea bene o male un’atmosfera “da club”, sicuramente più adatta a certi gruppi e anche a determinati generi musicali quali lo stoner, il doom o l’hardcore. Una vasta zona è dedicata al merchandise di vario genere: due tendoni abbastanza estesi di bancarelle con magliette, gadget vari e una marea sconfinata di CD – un autentico paradiso per i collezionisti – allietano i pochi momenti liberi durante la giornata del metallaro da festival che, per rifocillarsi, dovrà cercare la specialità meno speziata, dall’aspetto meno pasticciato o semplicemente dall’odore meno disgustoso, tra le numerose bancarelle presenti nell’area festival. L’edizione del 2011 purtroppo è stata condizionata da un clima avverso che non ha aiutato troppo il pubblico, il quale si è trovato alle prese con una fastidiosissima pioggia (soprattutto durante il primo giorno) e temperature per lo più fredde, accompagnate da un vento pungente che arrivava persino a far battere i denti durante gli ultimi concerti, i quali proseguivano fino alle 2 di notte. Del clima non ideale per un festival non si può di certo incolpare nessuno, ma per quel che riguarda la vivibilità dello stesso, crediamo che l’orgazizzazione abbia ancora qualche lacuna. Cominciamo col dire che trenta docce per qualcosa come trentamila persone riteniamo siano davvero troppe poche, così come troppi pochi erano i bagni, situati per giunta soltanto all’inizio dell’area camping (lasciamo immaginare peraltro le condizioni in cui questi versavano già dalle prime ore del mattino), costringendo i più a espletare i proprio bisogni fisiologici un po’ ovunque, vuoi per le lunghe file, vuoi appunto per le condizioni degli stessi gabinetti; un’organizzazione delle tende totalmente abbandonata al buonsenso – questo eterno sconosciuto – dei presenti ha creato poi un autentico labirinto realmente ingestibile, soprattutto in concomitanza con il rientro dai concerti a notte fonda, dove non era possibile rintracciare nemmeno una luce ad illuminare l’area camping. Insomma, diciamo che dal punto di vista della vivibilità, questo festival ha ancora ampio spazio di miglioramento. Impeccabile invece l’organizzazione dei concerti: tutti puntualissimi e senza troppi sconvolgimenti di running order, suoni per lo più buoni e cambi di palco, anche impegnativi, gestiti con ottimo tempismo e senza sbagli di sorta. Nel complesso, l’Hellfest rimane un festival con nomi allettanti, ma se siete abituati ad avere a che fare con campeggi e un “contorno” organizzati alla perfezione – vedi Germania – il consiglio potrebbe essere quello di valutare una soluzione alternativa in tema di pernottamento.
ARCHITECTS
Una delle prime esibizioni a cui chi scrive riesce a presenziare per intero è quella degli inglesi Architects. Avevamo già avuto modo di vedere il combo inglese in sede live in un contesto di piccolo club e ci erano sembrati parecchio convincenti sopra ad un palco ed eravamo molto curiosi di vederli in un contesto decisamente diverso come può essere quello di un grande festival come l’Hellfest. E dobbiamo dire che l’impressione avuta non è stata quella di un gruppo particolarmente sciolto e a proprio agio. Vuoi la troppa distanza tra il palco e le prime file, vuoi che proprio all’inizio della loro esibizione ha fatto la sua comparsa una fastidiosa pioggia che ha fatto sicuramente diminuire il pubblico – già di per sé non molto numeroso – ma di fatto la mezz’ora a disposizione di Sam Carter e soci ci ha lasciato qualche dubbio. Se tecnicamente nulla si ha da eccepire ai ragazzi, che hanno svolto, come si suol dire, il loro “compitino” in maniera decorosissima, dal punto di vista del coinvolgimento del pubblico e dell’empatia da stabilire in questo tipo di contesti i nostri devono ancora fare esperienza. Va detto però che il pubblico degli Architects non sembra essere particolarmente esigente e chi era estimatore della band non sembra aver cambiato idea dopo questa esibizione, anzi, il pubblico ha pogato sia sulle note di pezzi come “Numbers Count For Nothing” che sulle hit, decisamente più orecchiabili, dell’ultima fatica in studio. (Emilio Cortese)
IN SOLITUDE
Niente male questi giovani svedesi In Solitude. Appena ventenni o poco più (si vocifera che il bassista abbia solo diciassette anni), sembrano aver assimilato la materia dell’heavy metal in maniera davvero magistrale. La loro musica non ha nulla di innovativo, ma capita raramente di ascoltare band che, pur rifacendosi a modelli triti e ritriti, riescano a raggiungere risultati così convincenti. La proposta del gruppo è inseribile nell’odierno filone del retro metal, così come i loro connazionali Enforcer o i canadesi Cauldron, ma la musica degli In Solitude risulta più tenebrosa ed evocativa rispetto a queste band. Gli svedesi hanno appena terminato un tour di supporto ai leggendari Pentagram e questa estate appariranno in diversi festival europei, segno che la Metal Blade, che ha da poco pubblicato il loro ‘The World the Flesh the Devil’, sembri voler investire su di loro. Il concerto di Hellfest appare immediatamente convincente non appena la band comincia la propria esibizione. La coppia di chitarristi è chiaramente ispirata a modelli come quello degli Iron Maiden e Mercyful Fate, due nomi che hanno una palese influenza sulla musica del gruppo, anche se gli svedesi sembrando avere una decisa fascinazione per tutto il metallo più oscuro degli anni ’80, dalla NWOBHM di Angel Witch e Witchfynde al doom. La band se la cava egregiamente ai propri strumenti, e il cantante Pelle Åhman è un frontman azzeccato per questo tipo di band, anzi, se i costumi dei Ghost sono troppo pacchiani, l’immagine più canonica degli In Solitude (salvo che per una volpe curiosamente attaccata al collo del giovane cantante) probabilmente incontrerà di più il vostro favore. Vedremo se questa band sarà in grado di progredire, ma quanto realizzato finora merita già un plauso. (Igor Belotti)
DODHEIMSGARD (DHG)
La prova del live viene superata con una certa disinvoltura dai Dodheimsgard, band che, come noto, non è certo abituata a calcare i palchi con regolarità. D’altronde, il gruppo ha il buon senso di incentrare lo show su alcuni dei suoi brani più d’impatto e di affidarsi quasi in toto all’estro e al carisma del frontman Kvohst – che calamita l’attenzione dell’audience con un’ottima prova vocale; di conseguenza, anche chi non è particolarmente familiare con il black metal dei norvegesi riesce a farsi catturare dallo show, che ha luogo in una Rock Hard Tent già piuttosto gremita. Purtroppo i suoni non sono perfetti – a volte le chitarre sono troppo confuse, in altri momenti le tastiere non emergono a dovere – ma tutto sommato si resta favorevolmente impressionati dalla performance della band, che con la giusta attitudine e del makeup azzeccato si fa ben presto segnalare come uno dei gruppi più particolari di questa edizione del festival. Palma di miglior brano dello show al classico “Ion Storm”, tratto dal cult album “666 International”. (Luca Pessina)
PRIMORDIAL
I Primordial stanno vivendo un vero e proprio momento d’oro. Non solo i loro album risultano sempre più ricercati e ispirati, ma anche le loro performance live stanno acquistando sempre più pathos. Probabilmente, il fatto di suonare live un po’ più spesso sta agevolando i nostri a entrare definitivamente in sintonia con questa dimensione. Oggi i Primordial su un palco risultano notevolmente più compatti ed affiatati rispetto al passato. Inoltre, il poter contare su un frontman eccellente come Alan Nemtheanga rende tutto più facile: il cantante tiene il palco in maniera magistrale e non perde per un secondo le redini del pubblico, che lo segue come se fosse il proprio condottiero. Un mixaggio più che buono completa quindi l’opera… in cinquanta minuti gli irlandesi fanno calare il pubblico della Rock Hard Tent in un turbinio di atmosfere epiche e battagliere, che raggiungono l’apice di intensità all’altezza della monumentale “The Coffin Ships” e del già classico “Bloodied Yet Unbowed”. Epic metal d’alta scuola. (Luca Pessina)
THE EXPLOITED
Una performance che non potevamo assolutamente perdere è quella dei The Exploited, capitanati dal mitico e inossidabile Wattie Buchan. Diciamoci la verità qual è quel metallaro che non ha anche solo un album del combo inglese? Oppure, chi è che non ha mai sentito veri e propri cavalli di battaglia come “Punks Not Dead” o “Cop Cars”, “Army Life” e via citando canzoni di quel disco fondamentale per il genere punk/hardcore (ma anche la musica heavy metal in generale) che è “Punk’s Not Dead”? Ecco quindi presto spiegate le motivazioni dell’entusiasmo che ci ha accompagnato durante l’oretta scarsa di concerto degli Exploited che ci hanno regalato una performance scoppiettante, divertente e assolutamente piena dell’adrenalina che continua a trasudare in ogni passaggio della loro musica. Da “U.S.A.” a “Sex And Violence” abbiamo letteralmente goduto della furia cieca di questo gruppo fondamentale, e poco importano le imprecisioni tecniche o una incomprensione su un attacco di una canzone: questo è il genere, questi sono gli Exploited, prendere o lasciare… noi li prendiamo a orecchie spalancate! (Emilio Cortese)
MESHUGGAH
E’ molto facile tessere le lodi di un gruppo come i Meshuggah: la loro preparazione tecnica, la loro importanza storica, la loro inconfondibile unicità, sono tutte cose che ormai sanno anche i sassi. Avremmo anche potuto evitare di scrivere questo report, in fin dei conti non si sta dicendo nulla di realmente nuovo. Ma la loro performance oggi è stata talmente sopra le righe che ci sembrava quasi deleterio tacerne. Le urla inumane ma al contempo terribilmente espressive di uno Jens Kidman in forma strabiliante hanno letteralmente catalizzato l’attenzione del pubblico, ipnotizzato dal solito impianto sonoro inconcepibilmente cervellotico ma al contempo terribilmente dinamico ma soprattutto marziale. Dalla splendida “Bleed” in poi il concerto è stato un autentico crescendo di intensità ed emozioni, esplodendo definitivamente con l’immancabile cavallo di battaglia “Future Breed Machine”, lasciata come chiusura di un concerto che ci ha lasciato letteralmente senza parole, completamente ipnotizzati sotto alla pioggia a bocca aperta ammutoliti e anche un po’ confusi. Concerto della giornata senza ombra di dubbio. (Emilio Cortese)
Setlist:
Rational Gaze
Pravus
Combustion
Lethargica
Bleed
Perpetual Black Second
Straws Pulled At Random
Future Breed Machine
MORBID ANGEL
Dopo la pubblicazione del discusso “Illud Divinum Insanus”, i Morbid Angel sono attesi al varco da buona parte dei fan di vecchia data, ansiosi di verificare dal vivo lo stato di forma della band e, soprattutto, di vedere quante canzoni dell’ultima fatica verranno incluse nella setlist. Il gruppo decide di andare sul sicuro e, con una mossa un po’ ruffiana ma certamente apprezzatissima, apre il concerto con quattro dei suoi principali cavalli di battaglia: “Immortal Rites”, “Fall From Grace”, “Rapture” e “Maze Of Torment”. La risposta del pubblico è ovviamente fragorosa, ma non solo per la scelta dei brani: effettivamente, questa sera i Morbid Angel suonano molto bene. Tim Yeung non avrà il tocco inconfondibile del maestro Sandoval, ma resta pur sempre un ottimo batterista; David Vincent, dal canto suo, si fa perdonare il look da Nikki Sixx con una prova non sopra le righe tuttavia concreta e per quanto possibile fedele allo studio. Trey Azagthoth e Destructhor, infine, fanno al meglio il loro dovere, imbastendo il corpo principale dei pezzi con indubbia precisione e concedendosi poi qualche interessante variazione a livello di assoli. Dopo un incipit tanto convincente, si riesce perciò a digerire meglio la parentesi (da contratto) dedicata al nuovo album: non si sbuffa troppo durante “Existo Vulgoré” e “I Am Morbid”, mentre tutto sommato si gradisce “Nevermore”, che anche live si dimostra la traccia più incisiva di “Illud…”. Il finale, come prevedibile, presenta un ritorno ai grandi classici, su cui naturalmente spicca “God Of Emptiness”, forse il brano più atteso da tutti i fan. (Luca Pessina)
Setlist:
Immortal Rites
Fall From Grace
Rapture
Maze of Torment
Existo Vulgoré
Nevermore
I Am Morbid
Angel of Disease
Chapel of Ghouls
Where the Slime Live
God of Emptiness
World Of Shit (The Promised Land)
IN FLAMES
Iniziamo con la solita premessa che ormai non dovrebbe nemmeno esserci bisogno di fare ma che, per dovere di cronaca, faremo ugualmente: chiunque avesse in cuor suo anche solo una remota speranza di sentire anche solo un brano di “The Jester Race” sarà necessariamente rimasto deluso da questo concerto, e molto probabilmente lo sarà anche dei prossimi show della band svedese. Il pezzo più vecchio che i nostri hanno suonato infatti (se la memoria non ci inganna) è “Pinball Map”, estratta da “Clayman” (2000). Il lotto di canzoni ripercorre gli ultimi tre-quattro album della band, proponendo anche qualche brano di “Sounds Of A Playground Fading”, che sarebbe uscito nei negozi pochi giorni dopo il concerto. “Cloud Connected” e “Trigger” aprono le danze e il palco viene subito avvolto da fiammate varie scenografiche che scaldano un pubblico per la verità piuttosto freddo (ma va detto che questa freddezza pervade tutti i concerti, quindi non è da attribuire necessariamente alla performance degli In Flames), mentre “Disconnected” tiene alta la tensione. Seguono alcuni brani estratti appunto dall’ultima fatica in studio, tra cui “Deliver Us” – che il pubblico conosce già piuttosto bene. “Take This Life” è una bella scarica di adrenalina prima dei fuochi d’artificio finali che chiudono uno show di una band obiettivamente in ottima forma e con un seguito davvero di tutto rispetto. Si rassegnino i fan della prima ora, gli In Flames di oggi hanno preso questa strada che sembra essere quella a loro più congeniale, oggi come oggi. (Emilio Cortese)
Setlist:
Cloud Connected
Trigger
Alias
Pinball Map
Delight and Angers
Deliver Us
Only for the Weak
Disconnected
The Mirror’s Truth
Where the Dead Ships Dwell
Leeches
Come Clarity
The Quiet Place
Take This Life
My Sweet Shadow
ANGEL WITCH
La leggenda degli Angel Witch si basa sul primo omonimo album, difficile sostenere il contrario. I successivi ‘Screamin’ and Bleedin’’(1985) e ‘Frontal Assault’ (1986), giunti fuori tempo massimo per la NWOBHM, sono poca cosa al confronto di quanto stava partorendo l’heavy metal in quegli anni. I tentativi di Kevin Heybourne di ridare splendore alla sua creatura non sono mancati negli anni, come all’inizio dei ’90, quando cercò di riavviare la formazione sul territorio americano, tentativo naufragato e che a livello discografico produsse solamente il live del 1990. Dopo uno stop di quasi dieci anni, Kevin ci riprova agli inizi del nuovo millennio, con una nuova line-up inglese, un live registrato a Londra e un’apparizione al Wacken Open Air del 2000, per quella che sembra in tutto e per tutto l’ennesima falsa ripartenza. Bisognerà infatti aspettare il 2003 di rivedere la band in azione, questa volta con un’altra formazione americana (che includeva anche l’Exodus/Heaten Lee Altus) ed un’apparizione al Bang Your Head di quell’anno. In entrambe queste ultime versioni la band si dimostra incapace di reggere il confronto con la propria leggenda e dal vivo si rivela poco entusiasmante. Quando nel 2009 vengono annunciate alcune apparizioni nei festival, tra cui l’olandese Roadburn, viene spontaneo domandarsi se non sia il caso di lasciare riposare in pace questa vecchia gloria dell’heavy metal. La sorpresa però è dietro l’angolo. La nuova formazione, i cui membri sono tutti provenienti dalla scena londinese, è di gran lunga superiore a tutte quelle viste in opera fin’ora e si candida come l’unica in grado di poter rendere giustizia al glorioso e sempre più lontano passato di questa band. Quando nel 2010 un noto cultore della NWOBHM come Bill Steer, già visto all’opera nei primi Napalm Death, ma soprattutto con i Carcass e il suo trio hard blues Firebird, entra nella formazione, è evidente che le cose non possono che migliorare ulteriormente. Nel novembre 2010 la band fa il proprio debutto sul suolo italiano in quel di Bologna come headliner del British Steel Festival con un concerto entusiasmante. Ci sono voluti quasi 30 anni, ma finalmente gli Angel Witch sono di nuovo al top! Il concerto di Hellfest, pur con meno tempo a disposizione dell’apparizione italiana (la band ha a disposizione solamente 40 minuti in tarda mattinata), riconferma le ottime impressioni lasciate di recente. La scaletta è incentrata totalmente sui pezzi del primo leggendario album, con un’apertura interessante con ‘Gorgon’, attraverso ‘Confused’, ‘Sorceress’, ’White Witch’, ‘Atlantis’ fino alla chiusura scontata ma sempre trascinante dell’inno ‘Angel Witch’. Una gradita riconferma, e soprattutto la gioia di vedere una leggenda risorgere dalle proprie ceneri. Never say never! (Igor Belotti)
Setlist:
Gorgon
Confused
Sorceress
White Witch
Atlantis
Angel Of Death
Baphomet
Angel Witch
YOUR DEMISE
Gli inglesi Your Demise sono uno dei primi gruppi a calcare il palco della Terrorizer Tent che nella giornata di sabato ha visto l’hardcore come principale protagonista. Certo, se li si mette a confronto con autentici mostri sacri come Bad Brains, Converge, Raw Power o anche Shai Hulud, D.R.I. o U.S. Bombs, c’è da dire che la strada da fare è ancora tanta. Però dobbiamo dire che questi ragazzi il loro lavoro lo sanno fare bene. La loro proposta è divertente, scanzonata, la loro indole festaiola e “da baccano” ci fanno assistere ad una mezz’ora di concerto sostanzialmente piacevole. I brani riproposti sono quasi tutti estratti dalla loro ultima fatica in studio “The Kids We Used To Be”, e il contesto tenda crea quell’atmosfera da club che è sicuramente più congegnale al combo d’oltremanica, capitanato da un indiavolato frontman Ed McRae che si butta in mezzo al pubblico facendolo cantare, pogare, sventolare le magliette ecc. Bravi ragazzi questi Your Demise, li abbiamo guardati molto volentieri. (Emilio Cortese)
RAW POWER
Mentre sul palco principale i The Haunted davano forfait – rinviando la loro esibizione a notte fonda sotto un tendone nel campeggio del festival – i nostrani Raw Power mettevano a fuoco e fiamme la Terrorizer Tend facendola strabordare di becera ignoranza hardcore prettamente old-school. Capitanati del prode MP – Mauro Codeluppi – i Raw Power non si prendono un solo istante di pausa, lasciano perdere tutti i vari annunci, proclami, discorsi interminabili che costernano i concerti delle attuali band sedicenti hardcore. Preferiscono che sia la loro impenetrabile e velocissima musica a investire il pubblico. Niente voci pulite, niente stacchi mosh, niente di tutto questo, solo durissimo hardcore sparato “in your face”, con tutta la violenza, la rabbia e l’attitudine di una carriera lunga, costernata dalle difficoltà, ma non per questo scalfita passione per questo genere. Il pubblico si spintona, salta, si lancia in furiosi circle pit, riempie il tendone di un polverone ingestibile e i Raw Power non si fermano mai! Applausi e rispetto. (Emilio Cortese)
U.F.O.
Da quando Michael Schenker ha lasciato definitivamente la band agli inizi dello scorso decennio, le colonne portanti Phil Mogg e Pete Way sembrano essersi rimboccate le maniche per ridare stabilità a questa band, riuscendo a recuperare lungo la strada anche lo storico batterista Andy Parker. L’ingresso di Vinne Moore ricorda per certi versi quello di Steve Morse nei Deep Purple, ossia un virtuoso dello strumento al servizio di una band con una tradizione da rispettare. Peccato solo che la pausa temporanea lontano dal gruppo dello storico bassista Pete Way, nella quale senza di lui la band nel frattempo ha realizzato ‘The Visitor’ (pubblicato nel 2009), stia proseguendo fino ad oggi. Avrebbe dovuto essere un’assenza per motivi di salute, ma a quanto pare lo storico bassista sta collaborando con Michael Schenker, per cui viene da chiedersi cosa ci sia sotto, e soprattutto se l’allontanamento dagli UFO sia momentaneo o definitivo. In occasione dell’esibizione della band inglese a Hellfest troviamo il bassista Barry Sparks, già visto in azione con gli UFO stessi, con il Micheal Schenker Group e i Dokken. Il set del gruppo è nel primo pomeriggio per cui la band ha a disposizione un tempo ridotto, ma la setlist riesce a combinare immancabili classici come ‘Only You Can Rock Me’, ‘Too Hot To Handle’, ‘Lights Out’ e ‘Rock Bottom’ con episodi più recenti dell’era Moore. La voce di Phil Mogg, sempre più un simpatico vecchietto sul palco, nonostante il tempo che passa, riesce ad emozionare come sempre durante ‘Love to Love’. Il concerto si chiude nella maniera più ovvia, ossia con ‘Doctor Doctor’ e gli UFO lasciano il ricordo di una performance non particolarmente adrenalinica, ma comunque di classe. (Igor Belotti)
SHAI HULUD
Gli Shai Hulud hanno da sempre un seguito esiguo ma fedelissimo. Non è perciò un caso che ogni persona presente nella Terrorizer Tent sia a dir poco esaltata al momento del loro arrivo on stage. E questo nonostante i continui cambi di lineup a cui i nostri hanno dovuto far fronte dagli inizi a oggi. Addirittura, l’ingresso del nuovo e giovanissimo frontman Mike Moynihan non è stato nemmeno annunciato ufficialmente, segno che ormai persino la band stessa non presta più di tanta attenzione a questi cambiamenti! Comunque, l’acquisto pare azzeccato, visto che il ragazzo è dotato di una buona presenza scenica e appare vocalmente dotato a sufficienza per riproporre adeguatamente i vecchi cavalli di battaglia. L’hardcore metallizzato e dalle tinte progressive degli Shai Hulud quest’oggi gode inoltre di buoni suoni e i nostri non faticano a scatenare circle pit e ondate di crowd surfing nella mezzora a loro disposizione. Intelligentemente, Matt Fox e soci puntano poi sui loro brani più catchy e famosi, da “Given Flight By Demons’ Wings” a “Set Your Body Ablaze”, infiammando gli animi ed esaltando a dismisura tutti gli astanti. La proposta degli Shai Hulud non è mai stata particolarmente facile da decifrare, ma per chi è in sintonia con essa, i live show della band rappresentano da sempre una grande scarica di adrenalina e passione. (Luca Pessina)
THIN LIZZY
Inutile cadere nell’ovvio. E’ scontato dire che i Thin Lizzy senza Phil Lynott non hanno regione di esistere, ma le versioni della band portate fin’ora in giro per il mondo da Scott Gorham, sembrano più delle celebrazioni della musica dei Thin Lizzy, che la volontà di portare avanti la band senza il suo storico leader. Come dice qualcuno, questa è la migliore cover band dei Thin Lizzy del pianeta. L’incarnazione con John Sykes ultimamente aveva indurito troppo il suono, complice la chitarra dello stesso Sykes e il drumming di Tommy Aldrige, per quanto eccellenti, entrambi troppo pesanti per i Thin Lizzy. Ora che Sykes è fuori dai giochi, a Gorham è toccato rimboccarsi le maniche e ricostruire la band ancora una volta. L’auspicio era che il chitarrista sarebbe riuscito a coinvolgere il suo alter ego della formazione più classica, Brian Robertson, e magari addirittura Brian Downey alla batteria. Quella sarebbe stata davvero una formazione degna di portare a testa alta il nome Thin Lizzy, pur senza Phil Lynott. Queste preghiere sono state ascoltate solo per Brian Downey, uno dei batteristi più bravi e sottovalutati di tutta la scena hard rock anni ’70, oltre che ad essere l’unica costante della band accanto a Phil Lynott. Oltre al solito Marco Mendoza al basso, alla voce questa volta c’è l’ex Almighty Rick Warwick, mentre alla chitarra troviamo l’attuale chitarrista dei Guns N’ Roses Richard Fortus, che ha sostituito Vivian Campbell, tornato ai suoi impegni nei Def Leppard, dopo una parentesi come chitarrista nel primo tour di questa nuova formazione. La scaletta è identica a quella ammirata durante il passaggio in Italia della band di qualche mese fa (dove alla chitarra c’era ancora Campbell), scremata però di alcune “chicche” come ‘Do Anything You Want To’ e ‘Angel of Death’. Rimangono dunque i classici e, nel caso dei Thin Lizzy, si tratta di una vittoria certa: ‘Jailbreak’, ‘The Boys Are Back in Town’, ‘Cowboy Song’ sono sempre canzoni fantastiche, suonate da quelli che sono comunque sempre musicisti di primo livello. Particolarmente apprezzate ‘Emerald’ e ‘Whisky in the Jar’, recuperata da quest’ultima versione della band, mentre la chiusura dei 6 minuti di rock celtico ‘Black Rose’ sono sempre da brivido. (Igor Belotti)
Setlist:
Are You Ready
Waiting For An Alibi
Jailbreak
Don’t Believe a Word
Whiskey in the Jar
Emerald
Cowboy Song
The Boys Are Back In Town
Rosalie
Black Rose
SEPTICFLESH
Avendo pubblicato buona parte dei loro album per due etichette francesi (la Holy Records e la Season Of Mist) non stupisce che i Septicflesh vengano trattati con grande riguardo all’Hellfest. Uno degli slot di prima serata della Rock Hard Tent viene infatti assegnato alla band greca, la quale ripaga organizzazione e fan con un concerto molto convincente. Certo, prima di tutto bisogna superare il fatto che i nostri, per motivi economici e logistici, si esibiscano con tutte le orchestrazioni e le clean vocals pre-registrate, cosa che per forza di cose rende certi passaggi un po’ freddi. Tuttavia, una volta ingerito questo boccone, non è per niente difficile farsi rapire dalla proposta del quartetto, che in questi ultimi anni è diventata una live band con i fiocchi. Ovviamente un giorno ci piacerebbe vedere all’opera la formazione con il buon Sotiris Vayenas sul palco, in modo da poter godere almeno di voci pulite cantate sul momento, ma quando si ascoltano tracce imponenti come “Oceans Of Grey” o “Virtues Of The Beast” è comunque facile accontentarsi. I death metallers greci tengono il palco ottimamente e Spiros “Seth” Antoniou si rivela frontman sempre più scafato, che non rinuncia al dialogo col pubblico nonostante cerchi di mantenere un certo alone di mistero. Si spera ora che la crescente popolarità di cui sta godendo il gruppo conduca presto a un tour da headliner: ci piacerebbe parecchio avere modo di ascoltare brani estratti dai primi leggendari album, oltre a quelli degli apprezzatissimi lavori recenti. (Luca Pessina)
D.R.I.
Finalmente l’occasione di ammirare i leggendari DRI dal vivo! Non sappiamo quando la band sia passata per l’ultima volta dall’Italia, ma una cosa è certa, è ora che ci ritorni al più presto. Della formazione originale rimangono solo Kurt Brecht e Spike Cassady, ma il batterista Rob Rampy è in formazione sin dal 1990, mentre l’acquisto più recente, quella vecchia volpe di Harald Oimoen, storico headbanger della Bay Area, è talmente integrato nel gruppo che è come se ne avesse sempre fatto parte. Con le sue maschere e con le sue gag, è proprio lui, insieme al cantante Kurt Brecht, ad attirare maggiormente l’attenzione nel gruppo, mentre Kurt si dimena ancora per il palco durante l’esecuzione delle varie ‘Acid Rain’ e ‘Five Year Plan’. Più che un gruppo di quasi cinquantenni, sembra di trovarsi ancora di fronte ai ragazzacci dei tempi di ‘Four of a Kind’. Il loro crossover non sarà più quanto innovativo di oggi c’è sulla scena, ma poco importa, visto che non ha perso nulla della propria efficacia. Anzi, dispiace ammettere che il concerto dei DRI è di gran lunga superiore a quello del giorno prima dei loro colleghi COC, un altro nome storico della scena thrash/hardcore degli anni ’80. (Igor Belotti)
KREATOR
Si è soliti pensare che gli storici thrasher tedeschi Kreator godano della massima fama in patria, ma il contesto in cui si sono esibiti in quel di Hellfest, con una grossa produzione allestita sul palco e una fascia oraria decisamente buona al calar del sole, fa pensare che la band goda di una grandissima popolarità anche in Francia. Le note di ‘Choir of the Damned’, intro dell’indimenticabile ‘Pleasure to Kill’, violentissimo album del 1986, ingannano, perché invece tocca alla title-track dell’ultimo ‘Hordes of Chaos’ ad aprire il concerto. Le occasioni di vedere la band di Mille Petrozza dal vivo nel contesto di un festival non sono certo mancate negli anni e il gruppo sembra trovare la propria dimensione ideale sui grossi palchi. Tutto sembra dipendere principalmente dalla forma di Ventor, storico batterista della band: anni fa, in alcune occasioni sembrava quasi zavorrare la band, ma quando è in serata, come testimoniano alcuni passati concerti a Wacken, state certi che assisterete ad un ottimo concerto dei Kreator! Questo è il caso del concerto di Hellfest. Mille Petrozza è come al solito quantomeno irritante nelle sue introduzioni urlate ai pezzi, ma al concerto di questa sera non manca nulla per soddisfare il proprio pubblico. L’ultimo album della band fornisce diversi brani alla scaletta di questa sera, tra cui ‘Warcurse’ e ‘Destroy What Destroys You’, così come il precedente ‘Enemy of God’, mentre, curiosa coincidenza, gli album storici vengono rappresentati dalle title-track: ‘Endless Pain’, ‘Terrible Certainty’, ‘Pleasure to Kill’ e ‘Coma of Souls’. Dai capitoli più sperimentali e alternativi della seconda metà degli anni ’90 viene proposta solo ‘Phobia’, che comunque si integra bene con il resto del repertorio, mentre l’esperienza gotica di ‘Endorama’ sembra ormai del tutto dimenticata. Proprio da ‘Violent Revolution’, che nel 2001 riaffermò i Kreator come nome di punta del thrash metal europeo, viene estratto il trittico ‘Reconquering the Throne’/’The Patriarch’/‘Violent Revolution’ che chiude momentaneamente il concerto prima dell’immancabile bis di ‘Flag of Hate’ e ’Tormentor’. (Igor Belotti)
BOLT THROWER
Suonano dal vivo di rado, ma quando decidono di farlo non ce n’è per nessuno. I Bolt Thrower si confermano anche all’Hellfest una live band straordinaria, che almeno in campo death metal non ha quasi alcun rivale. Arrivano sul palco preceduti dal solito intro epico e attaccano con uno dei loro maggiori cavalli di battaglia, “The IVth Crusade”. Basta questo per mandare la folla in delirio. La Rock Hard Tent è stra-colma di gente e si fa fatica a muoversi, eppure le prime file iniziano a ondeggiare, generando un pogo vecchia scuola che cesserà solo a concerto terminato. Come sempre, il buon Karl Willetts appare sorridente e assolutamente motivato, così come il resto della squadra, che si muove di poco dalle proprie posizioni ma erge un muro sonoro che parla da solo. Rispetto alle performance degli ultimi anni, la setlist propone qualche brano datato in più, anche se ovviamente non mancano parecchi estratti dall’ultimo – e ormai vecchio di sei anni – “Those Once Loyal”. Il pubblico, comunque, sembra esaltarsi maggiormente su “The Killchain”, “Cenotaph”, “Where Next To Conquer” e “No Guts, No Glory”, quest’ultima urlata da tutti all’altezza del ritornello. Come di consueto, con il passare dei minuti i Bolt Thrower diventano un carro armato inarrestabile, che distrugge qualsiasi cosa gli si pari davanti. Nemmeno dei suoni a tratti un po’ impastati frenano la corsa dei nostri… si arriva a “When Cannons Fades”, da tempo ultimo pezzo della setlist, letteralmente stremati. I death metallers di Coventry ancora una volta non hanno scherzato nè fatto prigionieri. (Luca Pessina)
Setlist:
The IVth Crusade
The Killchain
Powder Burns
When Glory Beckons
World Eater
Cenotaph
Anti-Tank
Where Next to Conquer
Silent Demise
Salvo
… For Victory
No Guts, No Glory
When Cannons Fade
SCORPIONS
Difficile non pensare agli Scorpions come al gruppo di maggior successo di sempre che la Germania abbia mai prodotto in ambito hard rock/heavy metal. Neanche gli Accept, che negli anni ’80 godettero di grande fama internazionale, possono competere con i 40 anni di carriera di successo degli scorpioni di Hannover. Ma proprio mentre gli Accept si preparavano al come-back con l’ottimo ‘Blood of the Nations’, gli Scorpions annunciavano il proprio ritiro dalle scene con la pubblicazione di ‘Sting in the Tail’ dello scorso anno e il tour mondiale che lo avrebbe seguito. La scelta, considerando che il debutto discografico della band tedesca risale addirittura al 1972 e che i suoi membri fondatori hanno passato la sessantina, appare più che comprensibile. Il desiderio di Rudolf Schenker e Klaus Meine è quella di abbandonare la scena “al top”, cosa che possiamo concedere ai vecchi rocker tedeschi, visto le più che dignitose prove discografiche realizzate dal gruppo nell’ultimo decennio, nonostante un periodo di deciso appannamento negli anni ’90. Al momento non sono previste date italiane del tour, per cui questa è l’ultima occasione di ammirare la band dal vivo per tutti gli Italiani presenti al festival. Il concerto è programmato in uno dei due palchi principali e il pubblico è già molto numeroso prima dell’inizio del concerto. L’apertura è con la title-track di ‘Sting In The Tail’, ma colpisce subito il volume bassissimo dell’impianto. La mente va ad un’altra esibizione degli Scorpions nei grandi festival europei, quella di Wacken 2006, e anche in quell’occasione il volume era particolarmente basso, tanto da poter chiacchierare tranquillamente senza neppure alzare la voce con chi ti stava a fianco. A differenza di quella esibizione, è totalmente assente la parte di repertorio relativa all’epoca con Uli Jon Roth, ospite quella sera insieme a Michael Schenker e Herman Rarebell. Gli album prediletti nella scaletta di questa sera sono quelli del periodo “classico” con Matthias Jabs, da altre trent’anni ascia del gruppo al fianco di Rudy Schenker. La setlist pesca quasi totalmente dal periodo 1979 – 1984, in cui i tedeschi produssero quattro album, ‘Lovedrive’, ‘Animal Magnetism’, ‘Blackout’ e ‘Love At First Sting’, che conquistarono il mercato americano e che trasformarono la band da solida realtà hard rock europea a superstar internazionali. Il nuovo album fa capolino nuovamente con ‘Raised On Rock’, una canzone capace di condensare come poche lo Scorpions sound più classico, e dalla ballad ‘The Best Is Yet to Come’. Ovviamente le ballad, croce e delizia dei fan della gruppo tedesco, non potevano mancare e tra le altre proposte ci sono ‘Holiday’ e l’immancabile ‘Still Loving You’. L’esecuzione della band non è sempre precisa e impeccabile, ma riesce ad essere comunque coinvolgente, mentre risultano francamente un po’ noiosi l’assolo di batteria di James Kottak ‘Kottak Attack’ e quello di Matthias Jabs ‘Six String Sting’, entrambi eseguiti verso la fine del concerto. La band si congeda dopo i bis di ‘Still Loving You’ e ‘Rock You Like A Hurricane’. Un concerto forse non memorabile, ma sapere che gli Scorpions sono ormai prossimi alla pensione mette comunque un senso di tristezza. (Igor Belotti)
Setlist:
Sting In The Tail
Make It Real
Bad Boys Running Wild
The Zoo
Coast To Coast
Loving You Sunday Morning
The Best Is Yet To Come
Holiday
Raised on Rock
Tease Me Please Me
Dynamite
Kottak Attack (drum solo)
Blackout
Six String Sting (guitar solo)
Big City Nights
———-
Still Loving You
Rock You Like A Hurricane
CORONER
La reunion di punta di questo Hellfest è stata di sicuro quella degli svizzeri Coroner. Autentico culto per molti thrasher e non solo, la ricomparsa sulle scene del gruppo è stata una sorpresa per molti, visti i 15 anni di silenzio quasi totale intercorsi dallo scioglimento della band, interrotti solamente dalle apparizioni non troppo durature con Kreator e Apollyon Sun. E’ un peccato che il gruppo suoni proprio in contemporanea ai Tryptikon di Tom Warrior, visto il legame tra i Celtic Frost di quest’ultimo e i Coroner. Come tutte le apparizioni post-headliner (in questo caso gli Scorpions) l’affluenza del pubblico, esausto dopo una giornata di concerti, si riduce notevolmente: il pubblico più “generalista” se ne va a dormire, mentre i cultori delle band ancora in programma resistono stoici. Il pubblico dei Coroner, tutt’altro che esiguo nonostante l’orario, di certo non ha intenzione di lasciarsi sfuggire un concerto atteso come questo. La band sale sul palco dopo essere stata annunciata e attacca con ‘Golden Cashmere Sleeper, Part 1’, dalla compilation omonima al gruppo con inediti del 1995, ultimo atto discografico della band, quasi a voler riprendere il discorso lì dove fu interrotto. Si prosegue con ‘Internal Conflicts’ da ‘Grin’, ultimo album vero e proprio della band datato 1993, procedendo così a ritroso nel cammino discografico degli svizzeri. Il thrash metal “evoluto” del gruppo è esattamente come ce lo ricordavamo: l’aggressività spesso lascia spazio a soluzioni più studiate, le strutture sono complesse, con un livello tecnico sempre alto. L’esibizione in tarda nottata conferisce poi al concerto un’atmosfera particolare che ben si addice alla musica dei Coroner, mentre i tre membri del gruppo appaiono perfettamente coordinati tra di loro, con una precisione svizzera, è proprio il caso di dirlo, nonostante la band sia stata ferma per 15 lunghi anni. La scaletta proposta tocca tutti i capitoli della carriera del gruppo, con almeno un paio di estratti per album, solo l’esordio ‘R.I.P.’ del 1987 viene rappresentato dalla sola ‘Reborn Through Hate’, eseguita in chiusura. Il concerto di Hellfest ha rappresentato per molti l’occasione di togliersi finalmente la curiosità di vedere questa band in azione. A chiunque questa occasione fosse sfuggita, o se semplicemente non ne avete avuto abbastanza, la band suonerà in Italia in occasione del Rock Hard Festival presso il Live di Trezzo sull’Adda il 17 Settembre. (Igor Belotti)
Setlist:
Golden Cashmere Sleeper, Part 1
Internal Conflicts
Masked Jackal
Status: Still Thinking
Metamorphosis
D.O.A.
Semtex Revolution
Divine Step (Conspectu Mortis)
No Need to Be Human
Grin (Nails Hurt)
———-
Reborn Through Hate
TRIPTYKON
Tom G. Fischer dimostra per l’ennesima volta di avere “due palle così” accettando di esibirsi esattamente in concomitanza con l’attesissima performance dei Coroner. Come prevedibile, visto l’evento che sta avendo luogo su uno dei due palchi principali, la Rock Hard Tent non risulta pienissima, tuttavia il gruppo svizzero-tedesco procede senza indugi e sfodera una prestazione altamente convincente, che rende piena giustizia a quanto espresso sino ad ora in studio. A dire il vero, metà del concerto viene occupato da classici dei Celtic Frost (“Procreation Of The Wicked” arriva subito in apertura!), ma una traccia come “Goetia” è più che sufficiente a palesare l’estrema validità del progetto Triptykon, che in brevissimo tempo è diventato un punto di riferimento per gli amanti del metal estremo più cupo e d’atmosfera. Questa sera si rimane inoltre particolarmente impressionati dalla prova del drummer Norman Lonhard, dotato di tecnica, potenza e groove. Ancora una volta, Fischer si è dimostrato musicista e leader di grande esperienza, andando a pescare questo talento dai metal-corers Fear My Thoughts. Insomma, stasera non si è in molti, ma chi c’è letteralmente gode di fronte all’esibizione degli autori di “Eparistera Daimones”. Con poche parole e una serie di brani ben eseguiti, i Triptykon conquistano la serata. (Luca Pessina)
Setlist:
Crucifixus
Procreation (of the Wicked)
Goetia
Circle of the Tyrants
Babylon Fell
Synagoga Satanae
The Prolonging
Winter
LAST DAYS OF HUMANITY
Si potrebbe stare a discutere su quale sia la sottile linea di confine che separa un certo tipo di musica dal rumore, ma non è questa la sede per dilungarci in questo tipo di riflessioni, di fatto, sfidiamo chiunque non sia un amante del grind più becero e oltranzista a resistere per più di qualche minuto ad una performance come quella degli olandesi Last Days Of Humanity. Qualunque persona un minimo sana di mente scapperebbe a gambe levate dalla valanga sonora sprigionata dai quattro pazzi sul palco che urlano canzoni come se fosse schegge impazzite, mandando in delirio una manciata di scalmanati, tra cui ovviamente anche chi scrive. Blast beat sparati a velocità incomprensibili, riff confusionali, isterici e schizofrenici, urla ultra gutturali, lancinanti e cacofoniche, brani dalla durata di non più di un paio di minuti. E ancora: pogo efferato, scapocciamento selvaggio, incitamenti gridati con quanto fiato in corpo… Tutto questo è meraviglioso, che tutti gli altri se ne scappino pure a gambe levate, non sanno quel che si perdono! (Emilio Cortese)
GHOST
Il nome dei Ghost si sta facendo strada in maniera inaspettata. La band è nel cartellone di praticamente tutti i festival estivi di quest’anno, il loro disco d’esordio è passato tutt’altro che inosservato ed è arrivato addirittura all’orecchio di James Hetfield, che recentemente li ha definiti “una ventata di aria fresca per il metal”. Qualcuno li considera prossimi a fare il botto, ma una cosa è certa, la band svedese è destinata a dividere, tra chi li considera un’entità interessante e chi una pagliacciata, per via della curiosa immagine scelta dal gruppo. Musicalmente non inventano nulla, la loro originalità sta nel combinare elementi diversi, retro-metal e melodia, tra Mercyful Fate e Blue Oyster Cult. Se vogliamo guardare a casi precedenti nella storia del rock di band mascherate come Kiss e Slipknot, un’immagine anticonvenzionale e strampalata come quella dei Ghost alienerà sicuramente le simpatie di chi non riuscirà a prenderli sul serio, ma potrebbe fare presa sulle grandi masse. Il concerto di Hellfest inizia con la consueta intro di organo mentre i ghoul senza nome salgono sul palco incappucciati, e il cantante, per intenderci, quello vestito da papa col volto dipinto da teschio, si posiziona in mezzo al palco con dei portaincenso accesi che scendono con delle catene dalle sue mani. Il tutto è ovviamente molto kitch, ma nonostante la presenza ultra statica sul palco, la band riesce a intrattenere il proprio pubblico senza risultare noiosa. Avendo solo il debutto ‘Opus Eponymos’ all’attivo, il set si concentra totalmente sul disco d’esordio, l’unica sorpresa è la cover di ‘Here Come The Sun’ dei Beatles, qui riarrangiata e integrata alla perfezione col il resto del repertorio. (Igor Belotti)
Setlist:
Con Clavi Con Dio
Elizabeth
Death Knell
Satan Prayer
Prime Mover
Genesis
Here Comes The Sun (The Beatles cover)
Ritual
PAIN OF SALVATION
Chi scrive era molto curioso di vedere i Pain Of Salvation alle prese con i brani di “Road Salt One”, un disco per certi aspetti controverso, sicuramente eccentrico come la band stessa. Daniel Gildenlow è quello che si suol dire un autentico animale da palco, istrionico, spigliato, decisamente a suo agio nei panni del frontman che comunque non toglie spazio ai suoi colleghi, pur amando essere al centro dell’attenzione. Quasi superfluo stare a tessere le lodi di questi ragazzi come musicisti che, in più occasioni, ci hanno dimostrato di saper maneggiare tutti i loro strumenti con una certa maestria. Ancora una volta rimaniamo sorpresi però dalla facilità con cui tutto questo viene fatto, dato che comunque l’impianto sonoro che i Pain Of Salvation erigono ad ogni brano è notevolmente strutturato tra doppie voci, tappeti tastieristici, ritmiche spezzettate ecc. Eppure tutto questo viene fatto con innata naturalezza, con sicurezza e palpabile passione per la musica suonata. Momenti di vero godimento vengono provati da chi scrive durante “Ashes” e “Her Voices”, due brani stupendi, riproposti in maniera magistrale. Molto bene anche “No Way”, estratta dall’ultimo album. Ci attendevamo molto da loro, le nostre aspettative sono state ripagate in pieno. Applausi. (Emilio Cortese)
GRAND MAGUS
E’ il momento di ammirare di nuovo in azione i Grand Magus, campioni dell’heavy metal più epico e nordico, in occasione della loro esibizione nella Terrorizer tend. Dopo lo straordinario ‘Iron Will’ era prevedibile che per il trio di Stoccolma si spalancassero delle porte e difatti il successivo ‘Hammer of the North’ dello scorso anno è stato pubblicato nientemeno che dalla Roadrunner. L’apertura è affidata a ‘Kingslayer’, da ‘Wolf’s Retur’, il disco che ha visto la band sterzare completamente verso sonorità epiche e prettamente metalliche, seguita dall’inarrivabile ‘Like The Oar Strikes The Water’, opener di ‘Iron Will’. I quarantacinque minuti disponibili per la loro esibizione non sono molti e infatti il gruppo si concentra sul repertorio degli ultimi tre dischi, sebbene sarebbe stato interessante ascoltare anche estratti del materiale precedente, come dall’ottimo ‘Monument’, caratterizzato da tempi più lenti e un approccio più doom. L’ultimo ‘Hammer of the North’ è rappresentato dalla title-track, da un’interessante ‘Ravens Guide Our Way’ e da ‘I, The Jury’, alternate al materiale del precedente ‘Iron Will’. La band, composta dal batterista Seb, dal bassista Fox e dal cantante/chitarrista JB si dimostra coordinata e compatta, anche se in alcuni frangenti sembra soffrire la condizione di essere solamente un trio dal vivo, con un peso particolarmente gravoso per il frontman JB, impegnato su più fronti e unica chitarra del gruppo. Senza negare il valore del chitarrista o della sua band, lascia perplessi quando JB non suona gli assoli delle sue canzoni così come sono su disco, cosa che può far sorgere dubbi inquietanti. Polemiche a parte, con la title-track di ‘Iron Will’ si conclude quello che comunque è un concerto di buon livello. (Igor Belotti)
MORGOTH
Probabilmente non se lo aspettavano in molti, ma la performance dei Morgoth va senza dubbio annoverata tra le migliori dell’edizione 2011 dell’Hellfest! Il gruppo tedesco, riformatosi di recente per celebrare il ventesimo anniversario della pubblicazione di “Cursed”, gioiellino death metal uscito nel 1991, arriva quasi in punta di piedi, ma nella giornata di domenica esce da vero vincitore nella Rock Hard Tent. Poche parole, ancor meno pause e tanta, tanta cattiveria e sostanza! Subito si rimane impressionati dalla qualità dei suoni – sembra quasi di ascoltare un CD tanto sono pieni e definiti! – e poco dopo si spalanca la bocca davanti all’affiatamento della band, che sembra proprio essersi preparata nei minimi dettagli per questa serie di date estive. Viene privilegiato il materiale più pesante del repertorio per questo show e la decisione è naturalmente indovinata. Nelle prime file si rintraccia un trasporto che sino a questo momento avevano visto solo per gruppi stra-noti come Morbid Angel o Bolt Thrower. I Morgoth vengono osannati riff dopo riff, pezzo dopo pezzo, in un crescendo di entusiasmo che su “Pits of Utumno” e “White Gallery” sfocia spesso e volentieri in un pogo furioso. Marc Grewe, come accennato, presenta i brani brevemente e quasi in maniera schiva, ma forse perchè sa che è più che sufficiente la musica per aizzare la folla. Ci si guarda attorno e si vedono solo facce piacevolemente sorprese… che per i Morgoth questo sia l’inizio di un nuovo capitolo della carriera? (Luca Pessina)
JUDAS PRIEST
Inutile girarci attorno, qualunque fan dei Judas Priest sarà rimasto spiazzato dalla notizia dell’abbandono di una delle colonne portanti della band come KK Downing alla vigilia di questo ‘Epitaph’ tour, sebbene la band sia esistita per diversi anni nonostante l’abbandono del loro iconico frontman, sostituito per due album dall’allora sconosciuto Tim ‘Ripper’ Owens. Viene da chiedersi quali tensioni interne alla band si devono essere generate perché lo storico chitarrista si tirasse indietro proprio prima di quello doveva essere il loro tour d’addio. La band poi ha aggiunto confusione dichiarando ci sarà un nuovo album e che questo sarà l’ultimo tour vero e proprio, ma non necessariamente non ci saranno altri concerti. E’ quindi legittimo chiedersi se si sia trattato di una dubbia trovata pubblicitaria, o se forse il problema fosse proprio KK, visto le recenti dichiarazioni di Glen Tipton, secondo il quale l’ingresso di Richie Faulkner, sostituto di KK, abbia “iniettato così tanto entusiasmo nella band”. Sorge spontaneo domandarsi anche se Faulkner sia stato scelto anche per il suo aspetto, oltre che per le sue capacità allo strumento, vista una rassomiglianza tale da poter essere tranquillamente scambiato per KK in lontananza dai fan più distratti. Il pubblico è numerosissimo e il concerto ha inizio con ‘Rapid Fire’, già opener del tour anniversario di ‘British Steel’ dello scorso anno, seguita dall’immancabile ‘Metal Gods’. Con più di trentacinque anni di carriera e così tanti classici da proporre, non è facile per i Judas Priest trovare lo spazio in scaletta per pezzi meno conosciuti, ma la band delle Midlands tira fuori dal cilindro brani come ‘Starbreaker’, ’Blood Red Skies’, non eseguiti dal vivo da chissà quando, e addirittura una ‘Never Satisfied’, che risale addirittura dall’esordio ‘Rocka Rolla’ del 1974! Ognuno di noi avrebbe le proprie preferenze personali riguardo a pezzi meno noti e classici minori, ma l’intento di rendere la scaletta di questo tour meno prevedibile è comunque lodevole. La performance della band è compatta, sostenuta come sempre dal solido drumming dell’ottimo Scott Travis, il nuovo chitarrista si rivela all’altezza della situazione e anche la prestazione di Rob Halford è soddisfacente, nonostante l’età non giochi certo a favore del cantante inglese. L’esibizione della band, co-headliner della serata insieme a Ozzy Osbourne, è leggermente più breve di quelle in cui la band è headliner, come in occasione del Gods of Metal italiano, ma la band appare decisamente più convincente ora di quanto non lo fosse in alcuni concerti spompati del tour della reunion del 2004. Dopo i sei minuti di super power metal di ‘Painkiller’, tanto immancabile nella setlist del gruppo quanto superiore alle capacità odierne di Halford (che se la cava comunque dignitosamente in questa occasione), la band saluta il pubblico, per poi tornare sul palco con ‘Hell Bent for Leather’, in cui il front-man fa il suo ingresso a cavallo della consueta Harley Davidson, seguita da ‘You’ve Got Another Thing Comin’’. Se questa dovesse essere davvero l’ultima occasione di ammirare i Judas Priest, i nostri hanno lasciato perlomeno un buon ricordo. (Igor Belotti)
Setlist:
Rapid Fire
Metal Gods
Judas Rising
Starbreaker
Victim of Changes
Never Satisfied
Night Crawler
Beyond the Realms of Death
Blood Red Skies
The Green Manalishi (With the Two-Pronged Crown)
Breaking the Law
Painkiller
———-
Hell Bent for Leather
You’ve Got Another Thing Comin’
KYUSS LIVES!
Tocca a questa incarnazione dei Kyuss, in contemporanea a quelle di Opeth e Cradle of Filth, chiudere l’edizione 2011 dell’Hellfest. E’ l’una di notte e il pubblico del festival è dimezzato rispetto a quello della giornata, ma ciononostante la Terrorizer tend che ospita il concerto è comunque stracolma di irriducibili fan, così come di curiosi che vogliono vedere in azione una delle band più seminali degli anni ’90. E’ una strana coincidenza che questa reunion sia scaturita proprio durante l’apparizione del progetto di John Garcia ‘Garcia Plays Kyuss’ nell’edizione dell’anno precedente di questo festival, dove sia Brant Bjork che Nick Oliveri erano presenti con le loro rispettive band. A dire il vero, guardando il programma della Terrorizer tend dello scorso anno, sembrava quasi che questo fosse fatto apposta per far incontrare in qualche modo i musicisti, visito che le rispettive esibizioni erano una di seguito all’altra. Se questa interpretazione è corretta o meno, poco importa, ciò che conta è che Nick Oliveri e Brant Bjork si unirono a John Garcia per i bis di ‘Gardenia’ e ‘Green Machine’ e ora 3/4 della band originale è tornata insieme. Inutile dire che è un peccato che non ci sia stato modo di coinvolgere il chitarrista Josh Homme, ormai abituato con i suoi Queens of the Stone Age a contesti più “mainstream”. Il chitarrista Bruno Fevery, già visto in azione con il progetto ‘Garcia Plays Kyuss’, si trova quindi nella condizione di colmare un vuoto enorme, visto il ruolo fondamentale di Homme nei Kyuss originari. Si potrebbe disquisire all’infinito sul senso di riportare in vita, perlomeno in sede live, una band priva di uno dei suoi elementi cardine, ma l’impressione è che questa sia innanzitutto una celebrazione della musica dei Kyuss e il nome Kuyss Lives! ce lo ricorda. A dire il vero si potrebbe fare un’ulteriore considerazione, ossia che dei quattro album prodotti dai Kyuss, solo i primi due dischi vedono in formazione sia Bjork che Oliveri, quest’ultimo difatti aveva già lasciato la band quando questi realizzarono ‘Welcome to Sky Valley’ ed entrambi non suonarono nel capitolo finale del gruppo ‘…And the Circus Leaves Town’. La scaletta di questo tour è incentrata completamente sugli ultimi tre dischi realizzati dalla band, con l’esclusione totale del materiale del primo disco ‘Wretch’, quindi sia Bjork che Oliveri si cimentano in più brani di cui non parteciparono alle registrazioni originarie, sostituiti da Alfredo Hernandez e Scott Reeder. Se vogliamo considerare anche ciò una forzatura, rimane il fatto che questa è l’unica occasione che abbiamo ai giorni nostri di ammirare i Kyuss in azione, consapevoli anche del fatto che Josh Homme difficilmente ritornerà nella band. Sarà l’ora tarda e la stanchezza di tre giorni di festival, ma l’incedere carico di groove della musica dei Kyuss e le sue sfumature psichedeliche sembrano avere un effetto ancora più ipnotico, l’orario conferisce poi al concerto una atmosfera particolare, quasi surreale. John Garcia, non sempre al top negli ultimi anni, questa sera invece appare in forma, e il resto della band crea un tutt’uno compatto. Purtroppo l’assenza di un drum-riser non permette di vedere Brant Bjork in azione ad eccezione delle prime file, ma anche solo affidandoci all’udito il batterista sembra ancora in grado di infondere alla band il giusto groove, nonostante da anni sia abituato a ricoprire il ruolo di frontman e chitarrista nella sua band solista. La band non delude e si rivela più coinvolgente del progetto ‘Garcia Plays Kyuss’, regalando al proprio esausto pubblico un concerto per cui è valsa la pensa rimanere fino alla fine. (Igor Belotti)
Setlist:
Gardenia
Hurricane
Thumb
One Inch Man
Freedom Run
Asteroid
Supa Scoopa and Mighty Scoop
Molten Universe
Whitewater
El Rodeo
100°
———-
Odyssey
Green Machine