Report a cura di Giovanni Mascherpa
Foto a cura di Laurent Burnier (http://www.laurentburnier.com), Nathan Dobbelaere (https://www.flickr.com/photos/stxjimmy), Philippe Bareille (https://www.flickr.com/photos/pbareille/sets/), Andrey Kalinovsky (http://csaoh.com), sito ufficiale Hellfest (http://www.hellfest.fr), Enrico Mascherpa
Nuova edizione dell’Hellfest, e anche questa volta la spinta al titanismo e al perfezionamento ha portato all’ennesima memorabile tre giorni in terra francese. Senza nulla togliere ad altre importanti manifestazioni similari che si svolgono nel Vecchio Continente, nessuna può vantare la completezza di nomi di questa kermesse, che mette assieme da parecchi anni, precisamente dal 2006, una line-up che accontenta praticamente qualsiasi tipo di degustatore di sonorità pesanti. Dall’hard rock al punk melodico, dall’heavy metal classico al black metal, dal death metal allo stoner, qualsiasi sottogenere, nicchia, categoria di musica dura viene rappresentata dalle parti di Clisson, includendo nello stesso spazio concertistico quelli che sono i fruitori tipici del Roadburn, del Desertfest, del Graspop, del Neurotic Deathfest, con la possibilità di svagare tra mondi sonori antitetici nello spazio di qualche decina di metri. Anche quest’anno la scelta era davvero infinita, in ogni slot orario si faceva fatica a scegliere chi ammirare, tanto che solo la stanchezza poteva realmente fermare il metallaro più motivato dal godimento completo e appagante dei propri gruppi preferiti, o dall’esplorazione di qualche realtà che incuriosiva da anni e non si era mai affrontata in vita propria. Si è trattato, come sempre, di un cammino di scoperta e assimilazione intenso, quasi impossibile da vivere altrove in un lasso di tempo così limitato. A livello logistico vi sono stati alcuni cambiamenti rispetto al recente passato: i più significativi hanno comportato l’installazione di una ruota panoramica laddove prima vi erano gli stand alimentari, trasferiti sulla sinistra dell’ingresso al posto dell’Extreme Market, spostato nella zona antistante l’entrata. L’aumento dei bagni nell’area concerti ha aumentato esponenzialmente le condizioni igieniche, comunque mai al di sotto di uno standard ragionevole anche negli anni passati. E’ rimasta la divisione delle band su sei palchi, con i due Mainstage all’aperto a convogliare sonorità classiche e nomi altisonanti, il Warzone in posizione decentrata a veicolare il messaggio del punk nelle sue molteplici declinazioni, e i tendoni da circo destinati ad accogliere l’estremismo del death metal, l’Altar, quello del black metal, il Temple, e tutto quanto avesse a che fare con doom et similia, il Valley. Gli stand per la somministrazione di bevande e quelli del merchandise sono stati accolti dalle ormai note installazioni di lamiera dal gusto post-moderno, a cui si sono aggiunte alcune carcasse di auto da film post-apocalittico e la minacciosa statua di un corvo, tra le strutture più fotografate e ammirate. Nelle immediate vicinanze dell’area concerti si sono fatte le cose in grande, allestendo una vera e propria piazza con al centro una notevole scultura bianca a forma di teschio e ricoperta da tre grosse farfalle, mentre lo sterrato è stato ricoperto dall’asfalto e tutt’attorno sono stati disposti una serie di negozi, allocati in costruzioni che andavano a ricordare quelle di Camden Town a Londra. La parte del leone da queste parti l’ha fatta comunque l’Extreme Market, ad occhio e croce addirittura ampliato nelle dimensioni e dispensatore di delizie che, ahimè per il portafoglio, ci siamo dedicati a far nostre. Dimentichiamo di dirvi che, ancora prima del controllo biglietti e dell’ingresso all’area campeggio, campeggiava l’orgogliosa scritta in lettere metalliche “Clisson Rock City”, e nella rotonda antistante svettava una enorme chitarra colorata. Insomma, un’accoglienza da brividi già al momento della consegna dell’agognato braccialetto d’ingrsso. Un’ultima nota sul tempo: pazzesco! L’usuale freddo e il vento tagliente ci hanno dato tregua e hanno concesso spazio a un caldo da pianura padana, con punte di trenta gradi e temperature gradevolissime anche nelle ore notturne. Chi scrive non ha necessitato di felpa né di mantella per gli interi tre giorni, un fatto degno dell’accensione di un cero in qualsiasi santuario sia considerato di proprio gradimento. E ora, dopo questo lungo preambolo, sotto con l’infilata di watt che ci siamo con somma gioia sorbiti.
CONAN
Dovessero mai sottoporvi il quesito su quale sia l’entità sonica più pesante del pianeta, rispondete senza indugio indicando i Conan. Non tergiversate, non tentennate, non andate a cercare nella memoria improbabili confronti o paragoni. Sappiamo dagli anni precedenti che il Valley ha la qualità di suoni mediamente migliore dell’intero Hellfest, sappiamo che le tonnellate di elettricità vomitate qua sotto non hanno eguali né in similari situazioni open-air né nelle migliori venue al chiuso, eppure non possiamo essere preparati a quello che succede durante la manifestazione d’onnipotenza del trio di stanza a Liverpool. Al primo riff scaraventatoci addosso da Jon Davis sentiamo stringerci un nodo alla gola e una pressione al torace spaventosa finisce per costiparci come se una mano enorme stesse spingendo sul nostro petto. Viviamo attimi di sgomento, non crediamo ai segnali che ci manda il nostro corpo, non è possibile che il suono di una chitarra possa indurre reazioni simili nell’organismo. Invece è tutto vero, non si arriva alla sensazione di dolore ma ci si va maledettamente vicino. Ecco, questo è l’esordio dei Conan, manipolatori di frequenze che gli altri non osano proporre, non possono dominare, si guardano bene dall’affrontare per non essere travalicati e inglobati dai loro effetti. Yob, gli Electric Wizard di “Come My Fanatics” e “Dopethrone”, gli Ufomammut e i Sunn O ))) si uniscono idealmente nella musica degli albionici per annientarci. Prevediamo che da un momento all’altro il lungo e affilato sacerdote che appare sulle copertine dei dischi del trio appaia ai nostri occhi dopo aver sradicato il tendone del Valley dal suolo, e disponga di noi a proprio piacimento. Ciò non accade, ma la paura e il timore reverenziale verso quanto suonato non ci lascia per tutta la mezz’ora del concerto e per buona parte del resto della giornata. Gravosi come tenere in braccio una balena, devastanti come uno tsunami, disturbanti più di un vicino che bestemmia alla moglie alle tre di notte, i Conan fanno rintronare i padiglioni auricolari peggio di un bombardamento e si configurano quale arma ideale da utilizzare in una guerra combattuta con armi non convenzionali. Impressionanti.
IMPIETY
Intanto che proviamo a smaltire l’impressionante valanga elettrica dei Conan, ci tuffiamo sotto il Temple per appagare la nostra curiosità per i Singapore guys, al secolo Impiety. Affermatisi nell’underground con una proposta cruda e verace che mette insieme le più grette espressioni di black, death e thrash, gli Impiety hanno una mezz’ora tonda tonda per strapparci l’anima e, visto come si pongono, qualche sorriso. Il face-painting tra il panda style e la maschera di Batman e Robin è più divertente che minaccioso, mentre a livello musicale potremo imputare qualche lacuna per la varietà di linee guida e arrangiamenti, ma nulla per impatto, presenza scenica e trasporto. Non si viene all’Hellfest per gente come gli Impiety, ma senza la possibilità di vedere questi piccoli tasselli di storia del metal underground il festival perderebbe parte della sua aurea di leggenda. Gli assoli schizzati di Nizam Aziz, prodigo di linguacce manco fosse Gene Simmons, – per la cronaca, il ragazzo la lingua ce l’ha più corta del bassista dei Kiss – sono l’ingrediente piccante su una pietanza rustica ma che si fa divorare con sommo piacere. La spinta all’ignoranza depravata e alla blasfemia da hooligan dell’anti-religiosità è di prim’ordine, e si scapoccia alla grande, non mancando di incitare a più riprese questo invasato trio. Prendendo a prestito il titolo di una loro perla di saggezza, lunga vita ai Lords Of Apokalypse!
SATAN
All’epoca della NWOBHM precorrevano i tempi e anticipavano le tendenze future, piazzando riff al limite del thrash quando il termine doveva ancora essere coniato; oggi, ritornati agli antichi splendori con un disco fresco ed entusiasmante come “Life Sentence”, possono permettersi di calcare le scene con lo spirito e l’energia dei giovani. L’inconfondibile avvio di “Trial By Fire”, il loro più celebre cavallo di battaglia grazie alla coverizzazione da parte dei Blind Guardian negli anni ’90, lascia capire che ci sarà da divertirsi e correre divinamente in un ideale flashback agli anni d’oro del metallo inglese. A Brian Ross possiamo eccepire una tinta ai capelli molto discutibile, non la voce. Il vecchio metaller inglese ha un timbro caldo e sensuale, abbinato alle doti da screamer, che lo rendono unico e immediatamente riconoscibile. La musica dei Satan fa guardare con sguardo sconsolato ai tristi quartieri periferici delle città industriali anglosassoni, con una punta di romantica decadenza per luoghi in sé privi di ogni poesia e positività: “Alone In The Docks” (in chiusura), “Blades Of Steel”, “Break Free” sono le carte migliori nel mazzo del capolavoro “Court In The Act” e mantengono live quella irrefrenabile vivacità e durezza che se agli esordi erano una novità completa, oggi non suonano per niente desuete e sorpassate. “Time To Die”, “Testimony”, “Twenty Twenty Five”, dall’ultimo album, ricollegano al passato recentissimo, annullando lo spazio temporale di trent’anni dagli estratti dell’esordio per via di una qualità di scrittura, e di interpretazione, magicamente intatta. Sul palco sono gli stessi cinque individui che hanno costruito la leggenda underground dei Satan, e si sente: nessuno ha le parvenze del turnista, sono tutti molto coinvolti e le occhiate di intesa e compiacimento tra i musicisti sono genuine e sintomo di un reale divertimento. Ci prostriamo infine sulle scorribande soliste di Tippins e Ramsey: gli assoli incrociati, colmi di trasporto, che ci hanno stampato in faccia segnano il punto più alto della tre giorni per quanto riguarda l’heavy metal classico. Con buona pace dei super big che abbiamo allegramente snobbato.
DOWNFALL OF GAIA
Stralci di Cult Of Luna, occhiate al black metal, spedizioni nel crust, racchiuse in avventurosi trail in ascesa alle cime del post-metal; questo è quanto hanno da offrire i tedeschi Downfall Of Gaia, tra i pochi esponenti di sonorità “post” in questa edizione dell’Hellfest. Di fan veri del quartetto non ve ne sono tantissimi sotto il Valley, è più uno stuolo di curiosi ansiosi di mettere un’altra tacca sulla propria cintura quello che popola gli spazi dinnanzi al palco. La difficoltà con gli autori di “Suffocating In The Swarm Of Cranes” è che si parte a bassi regimi, i primi minuti sono sostanzialmente di introduzione, in una bonaccia di riff corpulenti che stentano a farci tremare di piacere. E’ questo un punto critico in cui si possono trovare molti collettivi che presentano canzoni lunghe e in crescendo che, volendo usare una metafora ciclistica, si presentano come dei tapponi di montagna, in cui nei primi km si risparmiano le gambe, e poi ci si inerpica su pendenze spezzagambe senza trovare sosta all’impegno massimale fino al traguardo. Superate le perplessità iniziali, difatti, i tedeschi sguainano le armi e colpiscono da più fronti, infittendo di nebbia impenetrabile i riff e bastonando, finalmente famelici, le nostre orecchie. Il triplo assedio vocale e le ritmiche dirette di Michael Kaddnar, più stringato e punk di molti colleghi, mettono in luce una rabbia carnale da cruster, altro che le costruzioni vagamente intellettualoidi del post-core! Persi nel nostro headbanging, con il collo per ora gradevolmente sano, ci rammarichiamo che i ragazzi stacchino la spina un po’ in anticipo, rinunciando a quasi una decina di minuti del tempo concessogli. Magari avrebbero potuto calcolare meglio cosa mettere in scaletta e godersi, e farci godere, altra musica. Per quanto abbiamo visto, li promuoviamo comunque senza riserve.
DESTROYER 666
Gli australiani sono l’esempio di come si possa diventare degli idoli underground non avendo dalla propria parte chissà quali idee sconvolgenti, ma semplicemente una dedizione cocciuta e genuina a certi ideali, un songwriting graffiante seppure molto derivativo, e una mole produttiva a livello di una grande industria degli anni ’50.Tanta abnegazione alla causa del metal estremo, in un modo o nell’altro, paga, e si fatica a credere che per una band del genere, buona ma non imperdibile, ci sia tutta questa massa di gente. Bracciali borchiati, un odore di sporco di lungo corso non percepito, ma facilmente immaginabile, un’aggressività che non diventa fisica solo per la distanza tra pubblico e musicisti: tutto questo sono i Destroyer 666, panzer black/thrash incarnante la tipica visceralità malata dell’estremismo oceanico. I quaranta minuti a disposizione vanno via in un’apnea di riff serratissimi, colate di cliché pesudo-satanici da quattro soldi messi lì a mero scopo di intrattenimento, sporadiche ma efficaci puntate in cavalcate anthemiche al sapore ferroso di sangue. Le chiamate alla battaglia di “I Am The Wargod (Ode To The Battle Slain)” trovano pronta risposta da chiunque sia al cospetto dei trapanatori aussie, e sui ritornelli più memorizzabili il sing-a-long, in versione barbari assaporanti sgozzamenti a catena, è forte e diffuso. Per proposte di caratura artistica superiore c’è da guardare altrove, ma se volete legnate, velocità e cattiveria ignorante i Destroyer 666 sono l’ideale. Così l’Hellfest diventa per loro terra di un’altra depredazione.
KADAVAR
Appena usciti dal sopraffino concerto degli Hail Of Bullets, scegliamo di recarci al Valley per goderci il concerto di uno dei gruppi più caldi della scena retrò hard rock. Arriviamo al tendone, e ci troviamo davanti una muraglia umana. L’esperienza insegna che in quel di Clisson, con un po’ di pazienza, ed evitando pure di doversi restringere e sgomitare ad ogni passo, si sta così larghi che guadagnare le prime file sui palchi minori non è impresa difficile; ebbene, con i Kadavar questa tesi è smentita, la densità abitativa è oltre la media e si deve stare leggermente decentrati rispetto ai barbuti rocker tedeschi. Stanno tutti e tre molto avanzati, anche il batterista con i suoi bei tamburi trasparenti, schiacciati a ridosso del palco e con le spalle difese da una roccaforte di ampli, tra cui spicca una folta schiera di Orange. A chi ne ignora l’operato,i berlinesi danno l’idea di transfughi da Easy Rider, ma con un minor grado di scorbuticità, reincarnatisi in una versione aggiornata dei Free. Il blues si infila nella psichedelia, i Led Zeppelin nei primissimi Sabbath, i seventies sprofondano nei sixties e vedi quasi volteggiare a mezz’aria camice di fiori e pantaloni a zampa, in una delirante sfilata del vestiario d’uso comune nell’epoca hippie. I Kadavar sono maledettamente concreti e duri, irresistibili nel rolleggiante tambureggiare di Tiger, fanno muovere il piede a tempo involontariamente, non gli si può resistere. Le ovazioni nelle pause ci fanno trasalire, non pensavamo fossero tanto amati; i ragazzi ammiccano e sorridono, ben lungi da atteggiarsi a novelle rockstar. I lunghi capelli ondeggiano e si confondono con le barbe chilometriche, Lupus Lindemann sprigiona vocals torride, ozzyane ma intonate, che conquistano e sottomettono il Valley. Con i grandi vecchi al tramonto, pare che le nuove leve possano farci dormire sonni tranquilli.
KYLESA
Hanno smesso i panni degli outsider, e hanno preso pienamente possesso di una dimensione da prim’attori sul panorama sludge metal internazionale. I Kylesa, da Savannah, hanno macinato fior di chilometri e passato ore insieme a perfezionare una formula che ora ha poco da spartire con altre realtà coeve o del passato. Gli infiniti tour di cui sono stati protagonisti negli ultimi anni, successivamente all’esplosione su scala internazionale grazie a “Static Tensions”, hanno fatto guadagnare sicurezza e valorosità ai Nostri, che se già nel recente passato ci avevano pienamente convinto in sede live, possono ora vantare una decisa raffinazione e perfezionamento di quei grumi di incertezza che li contraddistinguevano in precedenza. Un minimo di rozzezza in più in confronto con le prove su disco era quanto si udiva fino a un paio di annate orsono, mentre adesso i suoni hanno acquisito rotondità e spessore e le interconnessioni tra doppia batteria, theremin, chitarra, basso e due voci soddisfano anche l’orecchio più fino e facile all’incazzatura di fronte a poca armonia. La set-list basata sugli ultimi full-length fa risaltare lo sbilanciamento recente del cantato sulla voce della Pleasant, ragazza che non sarà mai una frontgirl dalla presenza prorompente, ma che ha acquistato una sicurezza niente male sia nel controllo della voce, sia nel guidare gli astanti all’eccitazione collettiva. Psichedelia, ritmi quadrati, groove accattivante e qualche leggera tentazione a gravitare in orbite occult rock – senza snaturarsi, per carità – sono gli escamotage usati dai Kylesa per far saltare e cantare inebriato l’intero Valley; suoni massicci e sfaccettati danno campo libero a ogni umoralità dei cinque, visibilmente eccitati nel vedere una reazione così benevola nei loro confronti. Gli ultimi pezzi li vedono aumentare il mordente, con qualche ritmo più bastardo a spazzare via l’atmosfera straniante vissuta ad ampi tratti fino a quel momento: tocca quindi a “Scapegoat” e “Running Road” ricordarci quali scossoni sappiano assestare gli americani, autori di uno dei concerti migliori dell’intera tre giorni.
WATAIN
La pazzesca ascesa degli Watain vede oggi un’altra tappa importante nel proscenio di un Temple gremito, ma fino a un certo punto, a causa della concomitanza degli Iron Maiden, che ovviamente catalizzano la maggioranza dei presenti a Clisson. Buon per noi che non soffochiamo nella ressa e ci godiamo da distanza ravvicinata la sabbatica prestazione degli autori di “The Wild Hunt”. Il cantante Erik Danielsson segue la sceneggiatura consueta, prostrandosi di fronte all’altarino davanti alla batteria e muovendosi successivamente come fosse il protagonista di un’opera teatrale. L’espressione stralunata e il face-painting irregolare gli conferiscono un’aura pericolosa e malsana che fa molto black metal anni ’90, e i suoi compari non sono da meno, ghignanti come troll comandati dal cattivone di turno, ovviamente lo spiritato singer. I giochi di luce rosso sangue trasformano il palco in un calderone ribollente, le fiamme si alzano alte e a ritmo con le cadenze date dalla batteria, mentre ogni blasfemia possibile viene sfogata su un’audience adorante, che per sua fortuna viene toccata solo in piccola misura dalla solita gettata di sangue, a causa della distanza superiore al solito tra palco e transenne. Ci sarebbero tutti gli ingredienti per un concerto indimenticabile, che si concretizza fino a un certo punto per un settaggio dei suoni abbastanza deficitario. Non si arriva a storpiare le canzoni, ma manca la botta che ci si aspetterebbe. In queste difficoltà la band non si scompone e sciorina il repertorio recente con ineffabile malvagità sacrilega, insozzando di incubi le menti di chi sta assistendo. Le performance dei singoli sono eccellenti, dall’affilata coppia chitarristica alle bordate di Jonsson dietro le pelli. La palma del più spaventoso in campo va al bassista, che sfrutta la mancanza di capelli e l’attaccatura ormai a metà cranio per allargare al massimo il face-painting e conferire al suo volto, già non bello di suo, un’aria da mostro scappato dal circo. Prima di capire che non portava una maschera abbiamo dovuto guardarlo a lungo… I problemi di suono fanno perdere un po’ di nerbo alle melodie sapientemente tessute dagli Watain, ed è quindi la rozza feralità a sfrugugliare nelle nostre orecchie, più che le alchimie alla Dissection che hanno reso celebri gli Watain negli anni. Da “De Profundis” a “Holocaust Dawn” gli svedesi dimostrano di essere ottimi musicisti ed entertainer abili a ricreare con immagini, mosse e linguaggio del corpo un’idea di Male tangibile e implacabile, e non possiamo che archiviare in maniera favorevole quello che ci hanno mostrato.
ENSLAVED
L’evoluzione in senso prog degli Enslaved è stato uno dei filoni creativi più fertili del terzo millennio: difficile trovare molti altri gruppi che abbiano sfornato così numerose pubblicazioni di alto livello, senza incorrere in passi falsi e facendo ogni volta passi in avanti in direzioni inaspettate. Questo percorso è stato nel tempo assecondato dalle esibizioni dal vivo, che nelle rudezze viking hanno fatto entrare poco alla volta le sottigliezze e le dolcezze del progressive, lasciando spesso alla sola voce di Grutle il compito di ricordare da dove il gruppo provenga. Nel contesto live la band guadagna qualche punto sul piano dell’impatto, per quanto il vigore prosaicamente metal non abbia per nulla abbandonato il gruppo anche su disco, in concerto i Nostri si riappropriano di un modo di fare e di rapportarsi al pubblico da metallari puri. Il più scatenato è il chitarrista Arve Isdal, a torso nudo modello rocker selvaggio, probabilmente per mettere in mostra l’addominale ipertrofico. Ivar Bjørnson si mantiene più defilato e asseconda le scorribande del più esuberante compagno di reparto, mentre Gruntle ruggisce a piene tonsille e, tra un pezzo e l’altro, disegna nell’aria rune immaginarie. Lo snodo cruciale degli Enslaved è costituito dai duetti fra il leader e il tastierista Herbrand Larsen, che ci portano a seconda dei casi a una sensazione di malinconia, di sofferenza, di introspezione. All’apertura maiuscola di “Death In The Eyes Of Dawn” fa da contrappunto una altrettanto splendida “Ruun”, le divagazioni e le multicolori atmosfere della band placano la fame di qualsivoglia leccornia metallica, includendo di fatto tirate incendiarie, spazi di psichedelia sognante, epicità a fiumi. E’ tale la vastità della cultura musicale dei norvegesi che si ha sempre il timore di perdersi qualcosa, di non valutare al meglio ogni frammento, e allora si assiste a quanto suonato con attenzione spasmodica, manco dovessero interrogarci a fine concerto su quello che abbiamo visto e udito. La set-list va a ritroso nel tempo, aggiungendo rasoiate velatamente black metal man mano che si ritorna indietro a release più datate: in “Convoys To Nothingness” e “As Fire Swept Clean the Earth” vengono piazzate alcune accelerazioni dinamitarde che spezzano a tratti il clima vagamente soffuso che si è venuto a creare, prima di una chiusura che più old-school non si potrebbe, sulle ali di “Allfaðr Oðinn”. E qui gli Enslaved tornano davvero ad essere un ensemble viking in procinto di devastare un villaggio nemico, brutalizzando ogni cosa o essere vivente gli si pari davanti. Concerto ineccepibile.
SEPTICFLESH
Tocca agli ellenici Septicflesh chiudere la prima, bollentissima, giornata dell’Hellfest 2014 sull’Altar. La collocazione è sacrosanta per un gruppo che non sbaglia un colpo da tempo immemore e proprio nella giornata odierna porta nei negozi il nuovo album “Titan”. Fierissimo, dal portamento nobile e ieratico, Spiros Antoniou si piazza al centro dello stage e polarizza gli sguardi di un pubblico inevitabilmente stanco, ma ancora reattivo. Gli spazi sotto il tendone sono ben occupati, anche se come di consueto all’Hellfest si sta comodi e non troppo schiacciati nemmeno nelle zone più vicine al palco. Spiros non rinuncia alla sua tuta – di pesantissima pelle nera,di materiale tecnico da motociclismo o chissà cos’altro non ci è dato di sapere – riproducente nerborute fasce muscolari, che gli dà un’aria superomistica di cui il singer sembra compiacersi assai. E’ una sete di conquista e bramosia guerriera quella che sospinge i Septicflesh, battaglieri e assassini fin dalle prime note di “A Great Mass Of Death”. Sinfonie gloriose e incombenti esplodono tra una sfuriata e l’altra della band, inesorabile macinatrice di altere marce che, a ritmi tra il parossistico e il medio-veloce, spalancano occhi e orecchie su colossali scenari di mondi antichi e oscuri in cui magia, sete di potere e cruenta poetica si mischiano e ci flagellano senza darci un attimo di respiro. La scaletta verte sulle ultime opere, quelle dove emerge in maniera spiccata il gusto operistico del combo, capace in questi anni di dare un tocco sanguinario alle arie classiche che difficilmente ci è dato di rilevare altrove. Dal vivo, puntualmente, i ricercati intrecci del disco non perdono alcunché in impatto e fascino, e si rimane soggiogati e atterriti da tutta questa violenza sotto le spoglie di un abito da gran galà. Antoniou non sta più nella (doppia) pelle da cui è ricoperto per vedere quali saranno le reazioni al nuovo disco e annuncia i nuovi brani con orgoglio smisurato, consapevole delle loro doti e dei danni che possono provocare già a un primo ascolto. “Order Of Dracul”, “Burn” e “Prototype” vanno a fare compagnia agli estratti di “Communion” e “The Great Mass”, che tutti insieme infieriscono colpi mortali all’audience. Il sogno di vedere i quattro greci accompagnati sul palco da una vera orchestra crediamo rimarrà tale, ma ci rendiamo conto di essere degli incontentabili, di fronte a un gruppo di altissimo livello e nel pieno della forma come questo.
SUBROSA
Tre signorine carine, un paio di paggi, due violini elettrici, sorrisi e serenità. Subrosa, una ventata di aria fresca e profumata fra tanta torchiatura auricolare, lo sludge evoluto in fantastiche escursioni bucoliche folkeggianti, dolci e fragranti come un campo di lavanda. Le autrici di “More Constant Than The Gods” – la maggioranza di genere impone l’articolo femminile – sono distanti anni luce da pose truci e occhiate severe, hanno una leggerezza d’animo e una tranquillità da brave maestrine, difficilmente riscontrabile a questi livelli. L’acustica spettacolosa del Valley fa risaltare i pregiati dialoghi dei violini, che si prendono la scena nelle lunghe introduzioni accolte in religioso silenzio dall’audience, attenta a non frapporre il minimo rumore a tanta grazia. L’innalzamento di corrente allorché le chitarre si reimpossessano del loro ruolo primigenio di conduttrici delle danze ci trova quasi impreparati a godere del lato irruento e massiccio della formazione, che in questi frangenti suona come una versione esoterica e magica dei Kylesa. Le Subrosa sanno andarci giù pesante e trasformarsi in streghette dagli incantesimi fatali, le sentiamo sporcare le voci e azzannarci, mutando dalle sembianze fatate in un colosso voluminoso e bramoso di scatenare gli elementi sui presenti. I tempi si dilatano e si stringono in una morsa passando da rarefazioni gentili a quadrati, seppur stranianti, bombardamenti doom che erompono stentorei e inattaccabili dalle casse. Facendo trasmigrare la forza evocativa e la fantasia delle note in una artiglieria sludge ambivalente, tranciante ma sempre disposta a quietarsi e riappacificare la mente. Mai avevamo sentito il violino rapportarsi in modo così originale con le tracciature metalliche, e le teste in movimento, rapite dalla bellezza suprema di questa musica, assecondano ampie volute sonore che paiono infinite, note di un paradiso impossibile da ritrovare una volta terminato il concerto. Quasi incredule di tanto entusiasmo evocato, le care ragazze e i due uomini di complemento si congedano non prima di qualche opportuna foto ricordo, da riportare nello Utah a testimonianza del successo della campagna europea.
INCANTATION
Disprezzo, odio, blasfemia: tutti nobili sentimenti sviscerati, figurativamente e fattivamente, nei reami sanguinolenti del death metal. Gli Incantation trasudano questa accozzaglia di orrori meglio di chiunque altro, vomitando dagli strumenti una furia spaventosa e lancinante, in cui non filtra la minima accessibilità e rassicurazione. Gli uomini di McEntee stanno vivendo un periodo magico, si vedono incensati da moltitudini di giovani death metallers che vedono nel loro operato, passato e presente, la stella polare da seguire e venerare, oltre che emulare. In questo clima adorante si svolge l’ennesima prova di superiorità del combo, salito on-stage senza fanfare né ritualità particolari, solo col proprio bagaglio di granitiche sicurezze di propinatori di brutalità dal folto pedigree. E’ una delle prime occasioni per sfoderare le tracce di “Dirges Of Elysium”, accolte benissimo, alla pari di mazzate letali del vecchio, e sempre attuale, repertorio, come “Emaciated Holy Figure” e “The Ibex Moon”. Si trasecola a farsi investire da una intensità così scorticante, a sentirsi idealmente levare la pelle di dosso e poi percepire la propria carne strappata via di netto. E’ raffinata macelleria abissale quella che ci viene offerta, l’apparenza dimessa dei musicisti appena giunti sul palco lascia posto durante lo show a una presa di coscienza del proprio ruolo e a un inviperimento collettivo; McEntee e Lombarozzi si contorcono sugli strumenti, mentre il mosh si fa caotico e irrazionale. I tre quarti d’ora disponibili vertono per una prima metà abbondante sul materiale più martellante e veloce, e una volta che i presenti sono stati messi bellamente in ginocchio, vengono fatti sprofondare in un pantano di masse cadaveriche l’una più puzzolente dell’altra. Esecuzione perfetta e se possibile anche più feroce di quanto apprezzabile su disco, bramosia omicida e suoni discreti conferiscono all’Incantation-time le stimmate per mettere in riga qualsiasi sbarbato dell’ultima ora e buona parte dei musicisti di medesima età ed esperienza dei Nostri. Un succulento eccidio.
WITCH MOUNTAIN
Il caldo ci sta ammazzando e il tendone del Valley è un sarcofago in overload di gradi quando iniziano a farci ondeggiare gli Witch Mountain, uno dei nomi sulla bocca di tutti dell’ultima ondata stoner/doom a stelle e strisce. Con “Cauldron Of The Wild” hanno fatto drizzare le antenne ai seguaci delle sonorità drogate, ma non troppo, e in linea con il doom metal traviato da epicità e occulto. Gli americani stanno in una terra di mezzo che prevede giri di note lunghi, ripetitivi e fumosi, una sezione ritmica rocciosa e un solismo trascendente e impetuoso. L’armamentario di magnificenze mentali evocate e il senso di magia che permea ogni canzone diventa manifesto grazie a una vocalist notevolissima come Uta Plotkin, ragazzona solare e in possesso di una estensione impressionante. Riconosciamo molto sinceramente che, non fosse stato per le note scalate dalla singer, per le sue urla esagerate e l’interpretazione sfavillante di ogni situazione sonora che le si parasse davanti, avremmo trovato la performance dei quattro poco concreta e noiosetta; le colpe vanno da ricercarsi un po’ in un eccesso di minimalismo dei Nostri, un po’ nel minore interesse da parte di chi scrive per questo tipo di suoni. Però una gran voce può far cambiare radicalmente il giudizio su una band, e questo è il caso specifico: Uta ha grinta, carattere, intonazione, passionalità e fa una signora figura sia che debba impersonare il ruolo di una sacerdotessa pagana, sia quella del menestrello oppure della seducente cantante da night club, come le accade all’inizio di un brano. Pur essendo rimasti storditi e poco “presi” dalle trame meno dure e più dilatate del quartetto, non possiamo che apprezzare quanto ci hanno offerto. Il pubblico, effettivamente coinvolto in misura minore che per altre realtà viste sul Valley nei tre giorni, si mostra comunque soddisfatto, e tributa un discreto riconoscimento agli Witch Mountain.
GORGUTS
Luc Lemay ha le fattezze di un professore: sarà l’aria pacata, l’occhiale dalla vistosa montatura, il sorriso rilassato di chi sta venendo a svelare conoscenza, oppure il modo di porsi degli altri musicisti, che al suo fianco danno l’idea di studenti timidi e umili, veneranti il grande maestro con cui hanno l’onore di collaborare. Il leader del quartetto canades ha lo status di un profeta, e oggi arriva in visita a discepoli di lunga data e novizi. Iniziamo col dirvi che quella dell’Hellfest non verrà ricordata come una delle esibizioni da leggenda del combo canadese, frenato da oggettivi problemi sonori che hanno limitato il prorompente e sterminato bagaglio tecnico/compositivo del quartetto. Di colpe proprie, i Gorguts non ne hanno, anzi, per chi come il sottoscritto li ammirava per la prima volta on-stage si è trattata di una esperienza insolita, che sta al death metal come uno scontro tra navicelle stellari è attinente a una battaglia medievale. Le enciclopediche linee delle sei corde rappresentano la cuspide del grattacielo del death metal, la sua espressione più debordante in elaborazione, allucinazione, camaleonticità. Anche se in questa sede le abbiamo udite sferraglianti, poco corpose e a volume innocuo, le asce di Lemay e Hufnagel ci hanno fatto vivere su un ottovolante di note che attraversava cosmi, oceani, giungle, in un percorso dalle mille giravolte e stacchi, in cui per una volta la batteria non assume il ruolo di funambolica guida, ma di intelligente sostegno. I normali carnai che si scatenano davanti all’Altar per una volta si placano – a parte nella conclusiva “Obscura” – e anche i più truci tra i normali frequentatori di questo palco osservano e ammirano, più che frastornarsi di headbanging, consapevoli di avere davanti una creatura che di questo mondo ha poco. Non dispiacerebbe vedere un po’ più di ardore da parte dei componenti del combo, alla fine non ci troviamo al conservatorio e un minimo di istintività sarebbe gradita, ma cambia poco la sostanza di un concerto buono, ma che se avesse avuto i suoni di Nile e Carcass sarebbe stato epocale.
BRUTAL TRUTH
Capolinea. Una storia grind vissuta in due tranche, la prima dal 1990 al 1999, la seconda dal 2006 ad oggi, giunge quest’anno al termine. Questa volta, l’addio è definitivo, e i Brutal Truth stanno salutando i palchi che li hanno ospitati con un ultimo tour da vivere al massimo. Dan Lilker e Kevin Sharp se la ridono intanto che finiscono il soundcheck e aspettano di avere l’ok per dare inizio alle danze; il cantante calca le scene a piedi nudi, cappello bianco in testa, – verrà abbandonato solo negli ultimi minuti – Lilker ha sempre l’espressione di quello che si è svegliato da un lungo letargo, o molto semplicemente si è fumato una canna lunga come la distanza tra stage e mixer. Peccato per le luci basse sullo sfondo, che non ci fanno vedere benissimo le smorfie di Richard Hoak, normalmente prodigo di espressioni una più stupida e squinternata dell’altra: per quel poco che riusciamo a capire, anche oggi è su di giri da questo punto di vista. Nell’ultima occasione in cui li avevamo visionati a Clisson, nel 2012, i Nostri si erano beccati dei volumi ridicoli e non avevano reso al meglio. Quest’oggi, per contrappasso, i fonici mettono in condizioni di comfort il quartetto, che scalda gli animi con estratti dagli ultimi lavori, provocando i primi bollori. Le schegge iniziali fungono idealmente da fionda per proiettare i corpi sotto il tendone gli uni contro gli altri e si assiste a più polvere smossa qua sotto che durante lo spostamento di una mandria di bufali. Sarà la particolare evenienza, sarà un senso quasi di spensieratezza che si avverte da parte dei musicisti, il concerto assume i connotati di una memorabile festa di addio, dove nessuno vuole andarsene e si cerca di regalarsi il miglior commiato possibile. Sharp indulge in un lungo discorso per sintetizzare brevemente la parabola dei Brutal Truth, ricorda che senza i fan nulla sarebbe stato possibile e chiosa con un eloquente: “Grazie di essere stati parte della mia vita!”. Boato e scroscio di applausi, per una dichiarazione di una sincerità disarmante. Gli ultimi minuti si consumano nella retromarcia verso gli esordi sulle note dei proiettili di “Extreme Conditions…”, che se possibile fomentano a un nuovo livello i mosher di professione. I Brutal Truth non potevano scegliere modo migliore per farsi rimpiangere.
MONSTER MAGNET
Un complesso dolomitico di amplificatori è ciò che ci si para davanti quando entriamo nel Valley per il clou della serata su questo palco. Stanno per comparire i Monster Magnet di quel gran miracolato di Dave Wyndorf, che successivamente alla morte scampata per overdose ha ripreso slancio, ritornando su fasti decorosi nelle prove in studio e ricomparendo con regolarità in tour, in condizioni tutt’altro che disdicevoli. Essendo il Valley lo stage santificato allo stoner e ai suoni space, i rocker americani fanno il pienone e per essere sicuri di farsi sentire accatastano l’uno sull’altro una mole di ampli esagerata. Un dispiego di forze imponente, che si traduce in una potenza di fuoco gigantesca. Le mille stoccate da diverse angolazioni che udiamo su disco, lo snocciolare disinvolto di rock’n’roll, psichedelia, metal, hard rock, blues, vengono spazzate via dalla smania di essere heavy, minacciosi, titanici come non mai. Al mixer se possibile si superano rispetto ai normali, elevatissimi, standard e piovono supernove come in una notte di San Lorenzo in cui il pianeta colpito non è disperso in una galassia lontana, ma è la Terra stessa. Lampi rossastri dominano la cromatura delle luci, aumentano la percezione di essere al centro di un divampante incendio di lussuria sonora; i piromani sul palco divampano al proprio interno di una fiamma inestinguibile e autoalimentata da uno stato di grazia che parte dal leader, in forma smagliante vocalmente e lucidissimo nel suggestionare e aizzare il pubblico, e arriva a ogni altro membro. Il tiro della coppia di chitarre, spesso aiutata dalla sei corde di Wyndorf medesimo, fa impazzire la totalità dei presenti e le escursioni nello spazio remoto diventano viaggi picareschi da cui si torna con poca, pochissima, voglia. Negli ultimi tour i Monster Magnet hanno ripercorso in maniera rigorosa i differenti periodi della carriera, e per quest’anno hanno deciso di concentrarsi sui tempi più fertili, quelli dei primi e più abbondanti raccolti; si parla quindi di una apertura sulle ali imbiancate – di cocaina – di “Superjudge”, di epopee oppiacee e dionisiache quali “Twin Earth” e “Powertrip”, di collisioni galattiche immani come nel caso di “Nod Scene” e “Space Lord”. La reazione dell’audience è impressionante, ci troviamo a ridosso delle prime file e non troviamo una persona ferma, o che non stia urlando forsennatamente i chorus in cortese risposta agli inviti di Wyndorf. Durezza, potenza nucleare e feeling a cascata: non serve altro e non vogliamo altro, per i Monster Magnet è un concerto da incorniciare.
NILE
Per motivi misteriosi, che attengono agli strani giochetti che la mente a volte ci propina, stavamo per trascurare i Nile. I pochi ascolti assegnati ultimamente ai deathster del South Carolina stavano per farci compiere un atto delittuoso, visto quello che gli uomini di Sanders sono stati in grado di combinare in questa occasione. Osserviamo, durante gli ultimi minuti di attesa, che il calo di inventiva riscontrato nell’ultima prova in studio non ha scalfito la nomea della band: l’affollamento è notevole, almeno a livello di quello che si registrerà per i Carcass. La batteria di Kollias è un monumento di proporzioni ciclopiche che osserva dall’alto della sua postazione la devozione dei death metaller, ripagata da una entrata in scena tracimante sulle ali insanguinate di “Sacrifice Unto Sebek”. La velocità di esecuzione è inenarrabile, il diluvio di passaggi grind intricatissimi è gestito da Kollias con la tracotante onnipotenza di un dio, mentre le tre voci si accavallano e si divorano in un’orgia di arcana cattiveria figlia della notte dei tempi. Gli schizzati assoli slayeriani vedono compartecipare Toler-Wade e Sanders: il biondo mastermind fa eruttare dallo strumento adagiato sul pancione stridii incontrollati, messi apposta a volume più alto degli altri strumenti per risaltare tronfi e smargiassi. L’assalto multilaterale che viene perpetrato ci trova incatenati e inermi, coi Nile muoversi è quasi impossibile, perché le canzoni sono scaricate addosso come colpi di mitraglia in rapida e letale sequenza. Il corpo rantola, si contorce e infine si affloscia inerme di fronte a cotante ferocia. I growl ci sembra che affrontino un ventaglio di opzioni più ampio del passato, udiamo una maggiore alternanza fra il timbro profondo e inintelligibile di Sanders e la voce più grattata di Tole-Wade, tra cui si ritaglia adeguato spazio anche Todd Ellis. Le luci rosso fuoco, che si accendono, spengono, ruotano e incendiano seguendo i ritmi esagitati della musica, contribuiscono ad allargare il potere evocativo dei Nile, che tra “Enduring the Eternal Molestation of Flame”, “Supreme Humanism of Megalomania”, “The Bowling Of The Jinn” ci frustano implacabili manco fossimo i loro schiavi, che faticosamente trascinano pietroni per costruire una colossale piramide in loro onore. Pochissimi gli spazi per respirare, a parte le zaffate putrefatte di “The Blessed Dead” si parla di manciate di secondi di pace illusoria, fino alla storica “Black Seeds Of Vengeance”, cantata a gran voce in una sadica invocazione delle addormentate divinità egizie. Solo per i Nile interrompono il loro sonno, e quando lo fanno la Terra trema di paura ancestrale. E noi con essa.
GORGOROTH
Il numero del mangiafuoco annuncia un’ora all’insegna del true norwegian black metal, quello che non ha mia piegato la testa, che non si è contaminato, se ne frega di evolversi e vuole restare solo e semplicemente uno strumento di eccidio, depravazione e blasfemia. E’ un’occasione importante per verificare come se la passino gli uomini di Infernus dopo le liti, anche legali, con l’ex singer Gaahl e la cacciata di Pest, il suo sostituto. Ci viene anche da fare un confronto con quanto mostrato l’anno passato sullo stesso palcoscenico da Gaahl medesimo e i suoi God Seed, nell’occasione assolutamente encomiabili e con il singer a dir poco sopra le righe. Persa la teatralità raggelante di quello che è uno dei singer più personali e carismatici del black metal, i Gorgoroth sfoggiano oggi una aderenza ai dogmi da Norvegia anni ’90 che pochi altri possono vantare. C’è gente più estrema, più sperimentale, più esagerata, passateci il termine, nel dispensare cantici mortuari, ma l’equilibrio fra vero spirito old-school, malvagità e freddezza che gli autori di “Quantos Possunt Ad Satanitatem Trahunt” mettono in campo è raro trovare altrove. Le armonizzazioni chitarristiche buttano pece negli occhi e il latrato di Hoest, col capello un po’ prandelliano, si fa cantore di nefandezze con un gusto antico nella voce, quello di chi è rimasto con la mente e il cuore all’epoca in cui dai fiordi si alzavano fiammate, musicali e non, destinate a bruciare alte in eterno. Poca, pochissima scena, contraddistingue l’operato on-stage: il disprezzo per l’umanità palese in ognuno dei figuri pittati sul palco basta e avanza per creare un certo qual disagio, mentre mid-tempo luciferini e legnosi, scorbutici, schiavizzano la platea. E’ un gioco di atmosfere maledette e non di bieche staffilate a doppia cassa fumante, presenti ma non preponderanti, quello che ci è dato di ammirare, con rimandi alla storia gloriosa del nome Gorgoroth nei lineamenti cadenti di “Forces Of Satan Storms”, “Prayer”, “Krig”. La sacrilega epopea norvegese ha in Infernus e nella sua ciurma i suoi più gelosi e fedeli custodi e quanto visto all’Hellfest lo dimostra alla grande.
CARCASS
Non sappiamo più cosa raccontarvi dei Carcass, abbiamo finito aggettivi, termini, espressioni per definire cosa abbia voluto dire ritrovarseli davanti inopinatamente nel 2008, e cosa comporti in emozioni ogni volta che abbiamo il piacere di assistere a un loro show. Sono tornati subito in grande spolvero, hanno ritrovato la voglia di scrivere nuovi pezzi e ora, cambiando due elementi della line-up, si ritrovano se possibile ancora più forti di prima. La dipartita di Erlandsson e Amott non ha lasciato strascichi, la coppia di ferro Steer-Walker ha trovato due rimpiazzi adeguati per una formazione che ora si muove persino più fluida, sicura, onnipotente, sulle assi del palcoscenico. “Buried Dreams” mette tutti in riga con quel suo cocktail di amarezza, frustrazione e voglia di riscatto, la stessa di una band che gode oggi di una approvazione plebiscitaria da parte del pubblico metal. Jeff Walker è particolarmente su di giri e in vena di scherzare, oltre che di fare qualche discorsetto sul “vero” metal, come potrebbe farli Joey Di Maio se avesse meno spocchia e un po’ di sano humour britannico nelle vene. “Lo sapete chi sta suonando là fuori? Gli Avenged Sevenfold! E voi siete qua? Dai, adesso che ve l’ho detto, potete andare. Adesso mi giro, chiudo gli occhi, e quando li riapro vediamo in quanti siete.” Dice più o meno queste parole il buon vecchio Jeff durante la prima pausa, prendendo allegramente per i fondelli chi sta calamitando le attenzioni sul Mainstage in contemporanea all’esibizione dei deathster inglesi. Superata la “sorpresa” di non vedere alcuna defezione da parte dei presenti, i Carcass possono dispiegare nuovamente l’arsenale a disposizione, non negando il piacere di vedere eseguite tutte le autopsie e i trattati medici di maggior successo, da “Incarnated Solvent Abuse” a “This Mortal Coil”, dalla nostalgia canaglia della breve “Genital Grinder” a “Reek Of Putrefaction”. Luci fredde da sala operatoria, fra il verdognolo e l’azzurrino, donano un’atmosfera asettica, che mette a completo agio chirurghi precisi, professionali, abilissimi sia ad aprire la massa di corpi dinnanzi a loro, che a richiuderli senza lasciare orrende cicatrici. L’arte del death metal tinta di grind trova nuova linfa nei brani di “Surgical Steel”: “Cadaver Pouch Conveyor System”, “The Granulating Dark Satanic Mills”, “Unfit For Human Consumption” dal vivo non hanno nulla da invidiare al materiale di lungo corso, l’afflato thrash le fa digerire con somma facilità, le melodie e i refrain immediati, dal grande potere suggestionante, abbattono ogni possibile dubbio sul valore effettivo dell’ultimo full-length. Qualche minuto dopo che una versione di “Heartwork” modello “sento-questa-e-poi-muoio-felice” si è abbattuta su di noi e ha chiuso il concerto, Walker ha talmente voglia di suonare che ricompare on-stage e, come il bambino che chiede di giocare altri cinque minuti prima di cena, chiede di poter suonare un altro pezzo. Lo sguardo supplicante del singer non commuove gli addetti al palco, il tempo a disposizione è finito, per oggi può bastare così. Possiamo andare a nanna contenti e giubilanti.
IN SOLITUDE
Gli In Solitude non stanno crescendo. Stanno impennando verso i piani altissimi della scena classic metal contemporanea. Non abbiamo fatto in tempo a spellarci le mani per “The World. The Flesh. The Devil” che ci hanno steso con “Sister”, e non avevamo neanche finito di dire che dal vivo sono bravi, ma il cantante va un po’ per la tangente e si perde metà delle linee vocali, che ti fanno completamente cambiare opinione, al rialzo. Prendendo le distanze dal primo metallo inglese, i cui influssi erano udibili fino al secondo disco, gli In Solitude optano per una scaletta incentrata esclusivamente sull’ultimo full-length, lasciando interdetti se non li si era ancora visti all’opera nell’ultima tournee. La vena occulta e fumosa è andata ingrossandosi e si addensano volute di presagi sinistri laddove prima partivano cavalcate impetuose di immediata lettura. L’infittimento di mistero e complessità, un po’ come avevano fatto i Mercyful Fate a suo tempo, ce li restituisce più pericolosi e indecifrabili, talmente fantasiosi che da un pezzo all’altro mutano quasi drasticamente i riferimenti e le connessioni, ad altre realtà e perfino agli In Solitude stessi come eravamo abituati a conoscerli. L’occult rock non è più un vago sospetto rintracciabile in qualche breve tratto dei pezzi, e anche dal vivo l’impressione che gli svedesi abbiano preso coscienza del proprio potenziale di narratori di arti magiche, di maledetti aruspici di quel che mai dovrebbe essere nominato, è molto forte. Possiamo ora vederli come i The Devil’s Blood del metal classico: l’opulenta e cangiante natura di composizioni molto articolate come “Buried In The Sun” e “Horses In The Ground” la dicono lunga su cosa siano diventati oggi gli In Solitude! Detto di una prova vocale notevolmente migliorata rispetto al recente passato (chi scrive la raffronta al concerto dell’Headbangers Open Air del 2012), dal lato strumentale verifichiamo che tutto viaggia a gonfie vele, dalla coppia d’asce degna di paragoni illustri con qualsivoglia grande entità del passato, a una sezione ritmica che dovendo accondiscendere a canzoni molto più segmentate e impegnative ha alzato enormemente il proprio livello. Chiude la soffusa, cupa e disperata “He Comes”, dedicata al povero Selim Lemouchi, mente dei già citati The Devil’s Blood la cui luce è brillata forte e accecante, ma troppo brevemente. Omaggio di gran gusto a un musicista andatosene troppo prematuramente.
ULCERATE
Stesso campo, giorno diverso, i neozelandesi Ulcerate idealmente vanno a sfidare i padrini Gorguts per dirimere la questione su chi sia al momento la band più rappresentativa del techno-death metal. Questa ipotetica battaglia ci serve più che altro da pretesto per osservare che, come per i canadesi il giorno precedente, un lavoro al mixer non ottimale può tarpare – parzialmente – le ali anche ai talenti più esuberanti. Gli autori dell’acclamato “Vermis” ad ampi tratti sono protagonisti di un mostruoso clinic di batteria, con qualche accompagnamento di chitarra e basso, tanto sono invadenti i tamburi dell’allucinante Jamie Saint Merat, insieme a George Kollias il batterista più impressionante visto nei tre giorni. Spiace sentire così innocuo uno strumentista versatile e talentuoso come il chitarrista Michael Hoggard, o il suo degno compare al basso, perché nonostante siano un po’ depotenziate le gragnuole di colpi dei Nostri danno alla testa, per come coniugano un’indole death molto arcigna e cupa, legata strettamente a una concezione old-school del genere, e invaghimenti per il post-metal futurista. Rimaniamo sorpresi e allibiti da tanta qualità, padroneggiata con la scioltezza degli artisti di lungo corso che sanno dialogare insieme in un linguaggio difficile da comprendere per i mortali. I tre sono fin troppo composti, sia quando suonano che nelle pause, ma questo dipende dalla semplicità delle persone e dalla naturalezza con cui si approcciano alla musica, senza altri fini che non siano quelli di regalare spartiti di arte della morte foschi e astrusamente splendidi. Al netto della resa sonora, una prova di valore.
DORDEDUH
Lo split di Hupogrammos e Sol Faur dai Negura Bunget ha portato finora più benefici che danni; in attesa di capire cosa potranno combinare gli ex compagni in studio senza l’apporto delle fervide menti creative dei transfughi, abbiamo potuto godere di un esaltante primo capitolo a firma Dordeduh, ora messo in mostra nella prestigiosa teca dell’Hellfest. L’entrata sul Temple è molto scenografica, con un lungo intro suonato esclusivamente tramite due lunghi corni, i tulnic, toacă – molto prosaicamente, una tavola di legno presa a martellate – e tutto l’armamentario di strumenti tradizionali che i due rumeni hanno mutuato dall’esperienza precedente. Al termine di questa inusuale parentesi, il concerto prende una piega più aderente al contesto metal, ma con qualche grado di eccentricità e anticonformismo rispetto alla media. I Dordeduh sono chiaramente un proseguo del Negura Bunget-pensiero, però nello stesso tempo vi si distaccano per l’ampliamento del bacino di influenze, con una maggiore importanza concessa alle parentesi folk e una vena black metal sfumata, riscontrabile in alcune taglienti impennate ritmiche, che si ritagliano un loro spazio fra i prolungati andamenti fra il magico e il fiabesco narrati da Hupogrammos. Lo screaming è solo uno dei toni usati dal singer, che sfodera una bella voce calda da cantastorie, peraltro conosciuta già in passato, solo che veniva usata solo in brevi momenti, con un ruolo di raccordo e interludio rispetto ai punti salienti delle tracce dei Negura Bunget. Il set di puro ascolto e introspezione disorienta, si pone come una farfalla in mezzo a uno stormo di avvoltoi e altri uccelli predatori. Alleggeriti del carico di watt della maggior parte dei colleghi, i Dordeduh ci regalano un concerto diverso, dal sapore antico e autentico, che ci fa respirare in un ambiente rarefatto, vicino alla natura e alla sua purezza primitiva. La caratura dei personaggi impegnati viene quindi rinvigorita da un’altra prova di spessore, segno che i veri creativi non perdono il loro tocco superiore in contesti differenti da quelli d’origine.
REPULSION
I Repulsion, capostipiti insieme ai Napalm Death del movimento grind, hanno interrotto presto la loro parabola ascendente, e nel tempo la loro musica ha assunto un’aura mitologica, che l’apparizione odierna va a ricondurre a una dimensione terrena. Nell’intera tre giorni, questo ci è parso il momento più ancorato al passato, la nostalgia e l’amarcord sono stati palpabili e abbiamo percepito un desiderio fortissimo da parte di tutti di far sentire a casa e benaccolti questi uomini che non hanno ottenuto soldi e lussi dalla loro attività, ma si sono garantiti un posto nel cuore di molte generazioni di metallari. Il mosh è tra i più convulsi del weekend, complici alcuni “fenomeni” che vestono una maglietta con la scritta “in mosh we trust” le prime file sono coinvolte in un caos di polvere e sudore, che durerà per tutti la durata dello slot dedicato ai Repulsion. Il set a base di grind punkeggiante, primordiale e semplicissimo, ha un successo clamoroso, i tre sono in formissima e viene da chiedersi se non sia il caso di dare finalmente un seguito al fulminante esordio, alla luce dell’entusiasmo e della voglia oggi messi in campo. Da parte nostra, non essendo dei die-hard fan di questo stile e data l’intercambiabilità dei pezzi in scaletta, trascorsi una ventina di minuti cominciamo a guardare l’orologio per capire quanto tempo potranno andare avanti, ma complessivamente questo ritorno sulle scene europee può essere giudicato, almeno in questa sede, decisamente positivo.
UNLEASHED
Guerrieri, alle armi! E’ arrivato il vostro comandante, pienotto e rubicondo, digrignante, imbrattato di polvere e sudore, e con tre scudieri che non sono meno cattivi di lui. E’ il momento di scatenare la guerra per la supremazia nordica. “Are you ready for viking death metal?” urla Hedlund al microfono, e la rauca risposta è così convincente che le truppe iniziano a caricare con le lance puntante al petto del nemico. Il growl del leader è diventato uno sporco cantato ruspante da epoca Possessed-Celti Frost, ma da un certo punto di vista va meglio così, perché la natura di capobranco, capopopolo o condottiero che dir si voglia ne esce esaltata e le invocazioni a buttare cuore e coglioni sul campo di battaglia ne escono rafforzate. L’epos sanguinolento e bellicoso è da sempre il tratto distintivo degli Unleashed e oggi più che mai Hedlund ci marcia alla grande, forte altresì di un materiale di recente produzione pienamente all’altezza dei primi lavori, quelli che i fan della prima ora vorrebbero vedere riproposti sino alla nausea. Gli svedesi, con lungimiranza, accontentano un po’ tutti, e d’altronde non è che ci voglia tanto visto che i cambiamenti non sono stati molti negli anni, giusto un’indole motorheadiana che si è fatta largo qua e là, a intermittenza, nei lavori più recenti, oppure un senso della melodia più spiccato in un’opera come “As Yggdrasil Trembles”. I quattro si scompigliano e si piegano sugli strumenti in pose che più death metal non potrebbero essere, eccitando animi imbevuti di alcol, sporcizia, surriscaldati mentalmente e fisicamente, intossicati da una polvere da miniera. Difficile resistere nelle prime file sotto i colpi di un pogo ignorante e affannato come quello visto/subito durante gli Unleashed, non si contano le persone con la mascherina indosso, manco lavorassero in un impianto chimico. Rintracciamo nel mucchio “Wir Kapitulieren Niemals”, “Hammer Battalion”, “The Longships Are Coming”, prima della prevedibile chiusura con l’inno “Death Metal Victory”, doppiata da “Before The Creation Of Time”. I guerrieri urlano, oh se urlano… E il death metal, manco a dirlo, vince anche stavolta.
DARK ANGEL
Le voci e le ipotesi sulla reunion dei Dark Angel si sono susseguite negli anni in maniera quasi grottesca, arrivando a percepire la ridda di ipotesi attorno al futuro dei thrasher losangelini come una vera e propria telenovela, dal lieto fine abbastanza incerto. Insospettabilmente, alla fine le acque si sono mosse, i membri del gruppo si sono riuniti nella line-up di “Leave Scars” e hanno varcato l’Atlantico per portare anche in Europa la loro musica. Tanta attesa viene ripagata da una performance in cui emergono distintamente echi di un’epoca meravigliosa e l’ideologia incorrotta di uno schieramento di strumentisti che ha fatto scuola in termini di martellamento, ossessività, prolungamento della sofferenza fisica e psichica oltre ogni limite lecito e consentito. L’Angelo è invecchiato, ha rughe marcate e pancia prominente, ma è sempre affogato in turbe mentali atroci e irrisolvibili. “Darkness Descends” battezza i discepoli e inocula i primi incubi di un’ora di dolore, di giunture cigolanti e colli spezzati in un headbanging forsennato. “We have returned!” urla Rineheart al termine della programmatica “We Have Arrived”, e non è uno slogan urlato tanto per fare spettacolo, già coi primi due pezzi si capisce quanto questa reunion sia arrivata al momento giusto, a celebrare una ritrovata unità di intenti dei cinque uomini sul palco. Suoni crudissimi sottolineano l’indole nera, selvaggia ma chirurgica di Gene Hoglan e compagni, che alla poca mobilità on-stage sopperiscono con la pressione costante esercitata in ogni istante, un’intensità insostenibile, protratta ben oltre i confini della sopportazione. Il drumming di Hoglan è uno dei misteri gaudiosi del metal, perché come entra nel cervello e lo spacca di netto il buon Gene ci sono poche cose a questo mondo, e la coppia Durkin-Meyer è un muro di granito misto cemento armato, spruzzato di napalm e adornato da aculei letali. Rineheart è rientrato nel ruolo molto bene sia vocalmente, sia come frontman: lo vediamo arringare la folla con la rudezza spaccona che ci siamo sempre immaginati dovesse avere un tipo del genere, mai sorridente né conciliante nelle foto promozionali di venti-venticinque anni orsono. La scaletta si gioca fatalmente sui numeri più diretti e strazianti, e si pasteggia a sassate negli occhi con “No One Answers”, “Never To Rise Again”, “Death Is Certain (Life Is Not)”, quest’ultima introdotta da un toccante discorso di Rineheart sulle persone che ci sono care e sono prematuramente scomparse. Il singer ci ricorda che la canzone nasce dal dolore per la perdita di una persona molto vicina a Gene Hoglna, autore di quasi tutti i testi dei losangelini. Unico estratto dal capolavoro del techno-thrash “Time Does Not Heal” è la title-track, ben eseguita ma un po’ difficile da reggere per il cantante, che non sfigura ma non arriva alle note alte della versione in studio. Meglio allora buttarsi a capofitto su “Merciless Death” e “Perish In Flames”, fino alla riduzione in poltiglia di fisico e mente. Il tempo non guarisce nulla, ma se si ha (molta) pazienza qualcosa alla fine regala, come questo ottimo concerto dei Dark Angel.
BEHEMOTH
L’importanza dei Behemoth è tale nella scena metallica odierna che l’Hellfest li ospita non nella casa madre dei gruppi death metal, l’Altar, ma su uno dei due Mainstage. I tripodi, le aste dei microfoni con serpenti e figure geometriche disposte in inquietanti schemi, in stile egizio-mesopotamico, le aquile a due teste in ferro battuto ai lati della batteria, sono “arredi” che infondono un clima sinistro e cupo anche se ci troviamo sotto un sole cocente. I musicisti sembrano recitino a teatro, ognuno ha imparato uno spartito musicale, concettuale e gestuale che dispiega perfettamente una volta giunto sul palco, guidato dal deux ex machina Nergal, ultimamente vestito come un plebeo di qualche antica civiltà precristiana, con il cappuccio a celare la testa pelata. Al mixer non sono troppo buoni con i polacchi, e come spesso accade sui due palchi maggiori dell’Hellfest chitarre e basso sono sottili e ripuliti, a tutto vantaggio della batteria di Inferno, sovrastante il resto degli strumenti. I difetti riscontrati in apertura andranno migliorando durante lo show, senza arrivare però a un risultato ottimale. Dove non giungono i fonici, ci pensano i Behemoth, che ripagano il folto pubblico con una performance energica e sopra le righe come si conviene a chi ormai guarda dall’alto in basso buona parte del reame extreme metal. Le bardature dei quattro e il face painting non distolgono l’attenzione da brani che spaziano dalla brutalità blasfema di “Christians To The Lions” alle dense atmosfere delle tracce di “The Satanist”, che raggiungono vette di solennità rabbrividenti. Il bilanciamento tra l’istinto predatorio di una normale death metal band e le necessità di assecondare il ruolo di sacerdoti di culti satanici, quali i Nostri sembrano essere, pone la band in una dimensione visuale e musicale distante anni luce da quella della maggior parte dei colleghi visti in questi giorni, Watain esclusi. Tra alte fiammate in arrivo da bordo palco e dai bracieri si consuma un rito dalle forme forse poco comprensibili a un normale fruitore di metal estremo, ma che incute timore e rispetto per la profondità dei contenuti e per la convinzione fanatica che la band emana. Seguendo un copione curato nei minimi dettagli, il gruppo si congeda praticamente due volte, prima con “Chant For Eschaton 2000”, accompagnata da una pioggia di coriandoli neri sparati sulle prime file, poi con il recitativo di “O Father O Satan O Sun!”, durante la quale i quattro vestono una maschera nera che ricorda il teschio di un caprone dal volto umano. Sulle ultime parole pronunciate dalla voce registrata, Nergal, Inferno, Orion e Seth se ne vanno, senza proferire verbo, lasciandoci straniti e un po’ scombussolati.
SOUNDGARDEN
I Soundgarden odierni, presentatisi privi di qualsiasi complemento scenico, a parte lo schermo a led a fondo palco con il logo della formazione, sono una delizia per le orecchie, capaci di tenere fede a una fama costruita negli anni d’oro dell’alternative rock anni ’90. Né inguaribili giovanilisti né nostalgiche vecchie glorie, i quattro on-stage sono solo un manipolo di persone che si diverte a suonare assieme, a interagire con una facilità disarmante per restituire all’audience pezzi frizzanti, virtuosi per quel che serve a illuminare la canzone, scultori di melodie a presa rapida che appena le senti ti entrano nell’anima. Cornell è in ottima forma e risplende nel doppio ruolo di chitarrista e cantante, è un frontman che si esprime come primus inter pares e non da prima donna, lasciando all’altezzoso e inespressivo Thayil il compito di dare i maggiori contributi tecnico/spettacolari. Parecchio sulle sue e serafico ci appare anche il bassista Ben Sheperd, mentre il motore ritmico Matt Cameron ci dà dentro come un forsennato per produrre un groove inebriante. Fra stimmate hard rock, effetti psichedelici, cromature alternative di classe, i Soundgarden passano in rassegna la loro gloriosa storia con un concerto asciutto da egocentrismi, incentrato sulla nuda esaltazione delle proprie doti artistiche. Un’ora di altissimo livello quella in compagnia degli americani, chiusa da una osannata “Beyond The Wheel”. In mezzo e a congedo, una partecipazione popolare molto sentita, con le prevalenti schiere di giovani adulti, cresciuti a pane e “Black Hole Sun”, a urlare nostalgiche i refrain della loro adolescenza. Chapeau ai Soundgarden per come resistono al tempo che scorre ineluttabile.
EMPEROR
I miracoli accadono? No, quando mai, non esistono… Beh, forse, in alcuni casi, dipende… Bando alle ciance, nella musica ci sono eccome, e uno di questi è il ritorno in pompa magna degli Emperor per una selezionata serie di date estive, messe in piedi per celebrare degnamente il celeberrimo esordio sulla lunga distanza “In The Nightside Eclipse”, pietra miliare del black metal sinfonico a tutt’oggi ineguagliata, almeno in quella forma così pervicacemente aderente al true black metal, eppure così colta e sofisticata. C’era qualche timore per le condizioni audio che avrebbero trovato i norvegesi, l’apparizione sul Mainstage 2 faceva temere un sonoro non esente da difetti. Così non è stato, e il trattamento riservato a Ihsahn e alla sua ciurma è stato lussuoso, all’altezza di quello che hanno goduto le formazioni di orario notturno del Temple. Davanti a una folla adorante, preparata a vivere l’evento come qualcosa di unico e irripetibile, i black metallers di Telemark si presentano al massimo della forma, senza cerimonie né idee clamorose sull’allestimento del palco e sui vestiti di scena. Niente face painting, niente dettagli da black metal trucido e tetro, solo i cinque musicisti in tenuta casual, per nulla intimoriti di sfidare il passato e veder magari affiorare le rughe del tempo nel corso della performance. “Into The Infinity Of Thoughts” leva ogni dubbio a chiunque, centrando il primo bersaglio di una lunga serie e disponendo al martirio l’oceano di persone sparso davanti al palco. Fatichiamo obiettivamente a trovare le parole per descrivere cosa abbia rappresentato risentire dalla prima all’ultima nota un tale capolavoro: vent’anni annullati in un’ora, lo screaming di un Ihsahn dall’immagine ripulita e intellettualoide che risuona velenoso e drammaticamente squassante come quando era un ragazzino, le tastiere di Einar Solberg appariscenti e fedeli a quanto scritto dallo stesso Ihsahn una vita fa, il riffing affilato, nero e dirompente che investe come una tormenta nel cuore della notte, in una foresta senza luce. Ciliegina sulla torta pantagruelica cotta a puntino dai Nostri la presenza di Faust dietro le pelli, preciso e filologico nel rinverdire il suo grandioso passato. Sarà l’esaltazione, l’inebriamento provato che ci assale, ma andando avanti nel concerto gli Emperor sembrano guadagnare ancora più sicurezza, segnalando un’inversione di età anagrafica e un ricollegamento a quando passavano le giornate a provare indefessamente, a scrutare ed esplorare le foreste delle loro terre, ascoltando musica classica in compagnia mentre – ahi, i peccati di gioventù – cercavano qualche chiesetta da ardere. Suvvia, non esageriamo, però all’infilata di “The Majesty Of The Nightsky” e “I Am The Black Wizards” siamo completamente divelti dalle emozioni. “Inno A Satana” è annunciata tre volte, cercando la risposta degli astanti, ogni volta più forte e convinta. Al termine, brevissima pausa e ritorno a passo svelto on-stage per due chicche da panico e sconcerto: “Ancient Queen” e “Wrath Of The Tyrant”, direttamente dal primo demo! Manco a dirlo, anche queste ultime fanno riaffiorare pienamente lo spirito norvegese anni ’90, e sollevano gli ultimi roboanti cori plebiscitari per una di quelle Leggende che non appassiranno mai. Il miglior concerto dell’Hellfest 2014. Punto.
1349
I 1349 sono conosciuti per essere il divertissement trucidamente black metal di Frost, che forse non appagato completamente dai Satyricon, dediti ormai a tutt’altro, deve pur sfogare da qualche parte le pulsioni più nere della propria anima. E proprio le turpi emozioni del batterista e degli altri brutti ceffi in sua compagnia trasformano l’ora di concerto, in contemporanea ai Black Sabbath, in una mattanza che mai ci saremmo aspettati. Infatti, grazie anche a dei fonici che, forse per chiudere in bellezza, fanno letteralmente detonare la suppurata vena omicida della formazione, l’ultimo concerto del Temple assume contorni realmente agghiaccianti. Quella dei 1349 non è banalmente un’esibizione violenta, obnubilata dall’odio, ma rappresenta un sadismo così efferato e abnorme rispetto al senso comune da tracciare una linea di demarcazione netta fra cosa voglia dire uccidere in musica, e infierire semplicemente qualche ferita superficiale. Forse la spiegazione migliore dell’effetto-1349 è quella di descriverli come la pestilenza del ‘300, la morte nera che aveva decimato l’Europa e da cui consegue il nome della band. Pile di cadaveri si innalzano al cielo, e la Grande Falciatrice, ebbra del sapore dell’infezione propagata, si diverte a moltiplicare la sofferenza aumentando il ritmo del contagio, e oscurando il sole con corpi putrefatti e miasmi. I Nostri sono talmente in vena stanotte che anche il basso, il grande offeso e dimenticato degli show black metal, fa la sua gran figura. Il bassista medesimo, incappucciato come un lebbroso e con fattezze che potremmo tranquillamente ascrivere a qualche scherzo di madre natura, è una presenza che mette notevolmente a disagio, a causa altresì di un face-painting piuttosto disturbante. Le asperità del riffing sono insormontabili, Frost scatena le pulsioni assassine che ormai spesso frena, almeno in studio, coi Satyricon e ci regala un saggio di stupro delle pelli insostenibile. Il singer Ravn, sguardo perennemente fisso a un punto indistinto della venue, così intenso da ricomprendere nel suo astio tutti coloro che gli si parano davanti, non perde un colpo nonostante debba aggredire scriteriatamente con pochissime pause. Scoccata l’una e arrivato il tempo dei saluti, verrebbe voglia di guardarsi allo specchio per indagare se ci siano cresciuti nuovi capelli bianchi o se siano spuntati bubboni da qualche parte, temendo una scena tipo quella di Don Rodrigo nei Promessi Sposi, alla scoperta del “sozzo bubbone d’un livido paonazzo”. Tiriamo un sospiro di sollievo, siamo ancora tutti interi e non contagiati da morbi senza speranza…
TURBONEGRO
Manca poco, dalle parti del Mainstage si inizia già a sbaraccare a causa delle defezione all’ultimo momento degli Iced Earth. Molte persone sciamano verso le tende, le macchine, i taxi e le navette. Manca poco, ma non è finita. E non c’è modo migliore di chiudere se non con un funny time spensierato come quello che ogni santa sera sanno allestire i Village People del rock, i Turbonegro, L’assenza di concerti sui palchi principali fa convogliare una ulteriore massa umana verso il Warzone, e il colpo d’occhio a pochi minuti dall’ultimo concerto dell’edizione 2014 è impressionante. La carica eversiva degli scandinavi è un barile di dinamite che ha solo bisogno di essere innescato. La miccia è corta e i primi fragori hanno luogo con l’opener “Back To Dungaree High”. L’area a elevati e incontrollati sommovimenti arriva fino al mixer, e la polvere si alza da tutte le parti creando quasi un effetto nebbia. Tony Sylvester è scatenato e sproloquia brillantemente, rendendosi protagonista di dialoghi surreali con gli altri musicisti, in bilico tra provocazione, lascivia e non-sense. Ci sono tutti gli ingredienti per un addio in grande stile all’Hellfest 2014: pubblico carico, band in palla, suoni nitidi ed equilibrati. Basta non sbagliare i tempi di cottura, e non può che saltare fuori una immane festa senza posa e senza ritegno; si balla, si canta, si fa crowdsurfing, si poga, ma con meno impeto che per band strettamente metal. I Turbonegro si prendono tutto il tempo che vogliono e largheggiano nel presentare canzoni da un’ampia porzione della loro storia. Ammiccamenti e moine fanno da contorno a goduriosissime versioni di “All My Friends Are Dead”, “Sailor Man”, “Blow Me (Like The Wind)”. I cinque si dividono brillantemente tra incombenze esecutive e mosse cabarettistiche, giocando con l’ambiguità in più occasioni e inneggiando al libero amore, prendendoci allegramente per il culo con pose gaie tra il serio e il faceto. Sulla parte conclusiva dello show c’è una concentrazione di hit mostruosa, con l’esecuzione in serie di “TNA (The Nihilistic Army)”, “Fuck The World” e addirittura una composizione nuova di pacca, “I’m A Train”. Il coro irresistibile di “Get It On” interrompe momentaneamente il party, ma al rientro i Turbonegro, fregandosene dell’orario che avrebbe imposto di chiudere entro un’ora spaccata, procrastinano il momento dei saluti; gli ultimi balli si svolgono sulle cadenze di “Age Of Pamparius”, “Prince Of The Rodeo”, la cover dei Dire Straits “Money For Nothing”. E’ l’una passata, adesso si deve proprio chiudere. Arriva un ospite, nientemeno che Nick Olivieri, presente all’Hellfest coi suoi Bl’ast, truccato e vestito come se fosse un altro membro della formazione; con il famoso musicista americano ai cori, ecco l’inno per eccellenza dei Turbonegro, la mitica “I Got Erected”. Il coro posto dopo il ritornello ci sembra riecheggiare per molti minuti dopo i saluti della band. Si esce, già con una nostalgia insopprimibile addosso. Per mitigare la malinconia, meglio guardare già al 2015…