Report a cura di Fabio Galli, Giovanni Mascherpa, Lorenzo Ottolenghi, Stefano Protti
Foto a cura di Federico Rucco, sito ufficiale Hellfest (http://www.hellfest.fr), Miquel Raga (https://www.flickr.com/people/miquelraga/), Fred Moocher (http://www.hardforce.fr/, https://www.flickr.com/photos/moocherphoto/), Giovanni Mascherpa
Seguendo uno spartito collaudato negli anni, l’attesa per l’Hellfest è stata alimentata da annunci roboanti distillati un poco alla volta, a distanza di qualche mese uno dall’altro, per dare il tempo ai fan di assimilare l’elenco di nomi svelato e far sedimentare la botta emotiva dovuta al gran numero di ensemble da capogiro messi in fila; presa coscienza del ben di dio cui si sarebbe andati incontro,in migliaia hanno deciso di non marcare visita per l’edizione 2015, quella del decennale. Di anno in anno il sold-out arriva sempre prima, in questo caso già a dicembre 2014 i tagliandi sono stati polverizzati, lasciando con un palmo di naso chi ancora si arrovellava nell’indecisione. Non c’è nulla da fare: l’eco delle trionfali edizioni passate, i costanti miglioramenti organizzativi, il ventaglio di opzioni disponibili fra tutti i possibili sottogeneri del metal, la vivibilità dell’area al confronto di altre manifestazioni di pari proporzioni, spingono qualsiasi metallaro a guardare con occhio famelico la kermesse francese. La prova dei fatti, come di consueto, ha retto il peso di aspettative ogni anno sempre più elevate, pienamente giustificate dalle passate esperienze in quest’angolo di Bretagna confinante con la Loira. Clisson si è dimostrata nuovamente generosa e accogliente coi metaller di tutta Europa, gli organizzatori hanno superato se stessi un’altra volta, non badando a spese per allestire un evento memorabile, che potesse unire qualità musicale, spettacolarità e comodità. Se la zona antistante l’ingresso, asfaltata e abbellita già nel 2014 con l’allestimento di una specie di mercatino in stile Camden Town e il Metal Market aperto già al mercoledì, non ha subito modifiche, l’area concerti è stata rivoltata come un calzino. Il fattore più sconcertante – in senso positivo – è stata la semina di un verde praticello laddove gli anni scorsi c’era un terreno piuttosto brullo, ridotto a uno sterrato sconnesso. Prato che non è stato massacrato più di tanto nei tre giorni di transumanza metallara, così da eliminare quasi completamente il problema della polvere, nelle edizioni passate un poco intossicante sotto la furia del mosh. Oltre al soffice tappeto verde, è stato tracciato un sentiero pedonale fra l’ingresso del backstage e l’area del Warzone, sul quale sono state piazzate placche, in stile Hollywood, a ricordo di quanto accaduto nelle precedenti annate. Anche le famose installazioni di lamiera hanno goduto di un parziale restyling, con l’aggiunta di una gabbia per skater poco dopo l’ingresso – anch’esso rivisitato e reso ancora più imponente e minaccioso –e i palchi, seppure non modificati nella collocazione, sono stati ampiamente rivisitati. Altar e Temple sono stati disposti uno di fianco all’altro, col Valley sempre lì accanto: la vera novità è stata però rappresentata dall’abbandono dei tendoni da circo a favore di enormi hangar, col risultato di aumentare lo spazio, rendere le singole venue più areate e migliorare la mobilità all’interno. All’entrata di ogni stage sono stati piazzati dei grossi maxischermi, sui quali veniva indicata l’orario della band successiva e, durante le esibizioni, le immagini dell’intero concerto. Sui Mainstage sono stati introdotti nuovi disegni ai lati, giganteschi e molto colorati, e sono stati allestiti ulteriori schermi, per permettere anche a chi fosse rimasto un po’ arretrato di avere una buona visuale dei concerti. Via anche i gettoni, a favore di una carta ricaricabile che ha ulteriormente sveltito le operazioni ai bar, annullando quasi completamente le code. File viste ben poco anche agli stand alimentari, molto vari e ancora una volta migliorati nella qualità e nella scelta. Il camping, in passato distante dai migliori standard di similari manifestazioni teutoniche, si è rivelato meno caotico del previsto, con aree dedicate alle tende ben distribuite attorno alla zona concerti, un buon numero di docce (completamente gratuite) e di bagni chimici, una security ben presente ma non invasiva. All’interno del ‘campo di battaglia’, oramai è quasi impossibile chiedere di meglio quanto a servizi igienici: acqua potabile sempre disponibile, orinatoi e wc sparsi in ogni dove, pulizia costante degli stessi, addetti sempre in movimento per garantire agibilità delle strutture nonostante la pressione costante di persone nei loro paraggi. Un altro plauso, ed è una costante, va alla cura per la pulizia dell’area: bidoni dell’immondizia ovunque, svuotati regolarmente, e personale in abbondanza impegnato tutto il giorno a raccogliere gli eventuali rifiuti rimasti in giro. Passando alla musica, due considerazioni emergono nell’analisi complessiva dell’evento. La prima, è che il livello delle band e il numero dei nomi in campo resta sempre di primissimo ordine, non scontentando nessuno in termini di valore dei singoli concerti, numerosità di gruppi interessanti – in tanti momenti della giornata i dilemmi su cosa vedere erano davvero difficili da risolvere –ampiezza stilistica. La seconda è che, per ora leggermente ma la tendenza pare essere quella, ci si sta un po’ allontanando dall’underground più vero. Roba da poco per adesso, ma comincia ad esserci l’impressione che non si voglia più rischiare in orari avanzati band mai testate in contesti open-air, appartenenti a circuiti ristretti, come accadeva fino almeno al 2013. In tanta magnificenza, qualche problema comunque c’è stato: salti di corrente vari sui Mainstage, alcuni tali da dover interrompere le esibizioni per alcuni minuti, la ressa all’ingresso del Warzone per i Body Count, che ha impedito a molte persone di vedere all’opera il buon Ice-T e i suoi loschi compari. Chiudiamo parlando del tempo atmosferico: stupendo per tre giorni, il fatto che non fosse piovuto neanche a ridosso della manifestazione ha implicato una mancanza assoluta di disagi. Si è avuto al contrario un gran caldo, in linea con le eccezionali temperature sopportate nel 2014, con un lieve attenuamento della calura solo nella giornata di domenica. Per quanto riguarda quello che andrete a leggere sulle singole esibizioni, sappiate fin d’ora che abbiamo quasi ignorato i Mainstage. Un po’ per gusti dei singoli redattori, un po’ per la maggiore facilità d’approdo ai palchi più piccoli e la loro maggiore vivibilità, abbiamo tralasciato le grandi star. Se invece volete saperne di più sui principali protagonisti degli slot estremisti, di alcuni originali ensemble finora poco considerati, di qualche act in rampa di lancio, accomodatevi! Il report è spalmato sulle tre giornate, per garantirvi – si spera! – una più facile lettura. Nel caso abbiate avuto la fortuna di presenziare a vostra volta, fateci sapere senza peli sulla lingua che Hellfest avete vissuto. Benvenuti all’Inferno.
Il treno fantasma di mezzanotte fa un baccano che non ne avete idea. E’ composto di soli tre vagoni, e quando questi passano sulle rotaie il rombo è quello di un trattore a pieni giri. Trattori potenti e con la conformazione di un bulldozer, come quelli che vedranno all’opera nelle sterminate campagne del Kansas da cui provengono i The Midnight Ghost Train. Suonare nei primi slot dell’Hellfest non è, come si potrebbe pensare, una sventura, tutt’altro: le prime ore di festival vedono tutti belli freschi e riposati, la voglia di musica e l’attesa finalmente ripagata per l’evento spingono chiunque ad appollaiarsi vicino agli stage, senza stare tanto a considerare chi vi stia suonando. Buon per questi musicisti, che forse non avevano mai osservato un numero di persone così elevato a un loro spettacolo, e chissà mai se lo vedranno in futuro. I suoni del Valley sono già settati al meglio, andiamo subito a far festa con una band che ha nel riffing rombante, nei ritmi convulsi e nel poetare blues i suoi capisaldi. Quando hai poco tempo devi spingere come un forsennato e non dare tregua, i primi a saperlo sono proprio i The Midnight Ghost Train stessi, barbe d’ordinanza e canzoni scatenate, masticanti sludge, southern rock e stoner secondo modalità poco sorprendenti ma a dir poco adrenaliniche. Anche se sono solo in due a muoversi davanti al batterista Brandon Burghart, Steve Moss (voce e chitarra) e Mike Boyne (basso) non fanno mai sembrare vuoto il palco, spostandosi costantemente e chiamando a raccolta l’audience per non lasciare che l’entusiasmo scatenato vada ad affievolirsi. La risposta a cotanta botta sonora, paragonabile a Clutch, Black Tusk, ai nostri Isaak, o a degli Orange Goblin meno metallici, è una goduria; salti, cori, headbanging, i primi spintoni in prossimità delle transenne. Magari peccheranno di varietà – i riff che girano sono sempre quelli – i tre americani, però sanno come si sta in scena e a mettere a proprio agio la gente. Per gli autori di “Cold Was The Ground”, uno degli album heavy/sludge meglio riusciti di questo 2015, l’ultimo Hellfest andrà dritto dritto tra i ‘magic moment’ della carriera.
(Giovanni Mascherpa)
SAMSARA BLUES EXPERIMENT
Psychedelic doom da Berlino. Difficile crederci, all’inizio, e ti accosti con diffidenza al palco. Poi i tre iniziano a suonare facendo scomparire ogni dubbio. Ti ricordi degli Ash Ra Tempel, del kraut-rock più elettrico. Quattro lunghe suite magnetiche, chitarre che evaporano al calore del deserto, un basso implacabile a gestire le danze (notevoli le accelerazioni Kyussiane di “Into The Black”) con le parti cantate unico momento prescindibile del concerto. I toni sono soffusi, felpati, sezioni quasi jammate si danno il cambio ad altre più rocciose, lambenti il metal o almeno una concezione dello stoner più sintetica e nota. Musica introspettiva, da viaggio mentale, con uno sguardo calmo e riflessivo sugli albori dell’hard rock, rivisitato con una libertà d’azione decisamente rinfrescante. “Waiting For The Flood” si intitola l’ultimo album del trio (2013), quello in cui si impegna la band è proprio questo: attendere l’alluvione, impegnandosi a dipingere sommessamente ghirigori con chitarra, basso e batteria, percependo e descrivendo il rock come una nuvolaglia di pantomime sinuose mai troppo dure né insistenti. L’unico limite, appunto, è in una vocalità un po’ debole al confronto della sommatoria di ardimenti strumentali, come se la voce fosse stata aggiunta in ultimo, giusto perché doveva starci in qualche maniera. Potrebbero essere una band completamente strumentale, i Samsara Blues Experiment, ed il pubblico non si staccherebbe comunque da loro: forse, ne apprezzerebbe ancora meglio le notevoli doti. Una bella scoperta.
(Giovanni Mascherpa – Stefano Protti)
Con il sole allo zenith, fanno il loro ingresso sull’Altar Stage i blackster belgi Enthroned. L’ora non è certo adatta ad una band dedita ad un black metal occulto e satanico, ma d’altronde non tutti possono suonare quando il sole è tramontato. Nornagest, senza capelli e senza chitarra, cattura il pubblico da subito, con un’ottima presenza scenica, facendo capire da subito che né il poco tempo né l’orario fermeranno gli Enthroned. Senza sosta si passa dal vecchio al nuovo, con un brivido quando si tocca il seminale debut “Prophecies Of A Pagan Fire”. La band porta sul palco un rituale blasfemo, un inno a Satana che esplode e colpisce con tutta la sua violenza, sublimandosi tramite Nornagest. I brividi colgono il pubblico accorso, numeroso (considerando l’orario ed il tipo di band) e partecipe, quando gli Enthroned si lanciano in “As The Wolves Howl Again” e lo spirito del compianto Cernunnos sembra colpire i tamburi degli inferi. Questo è l’inizio della parte più estrema del nostro Hellfest, che tra i palchi Temple e Altar ci annichilirà con tre giorni di sonorità blasfeme, violente e senza un briciolo di tregua.
(Lorenzo Ottolenghi)
SHAPE OF DESPAIR
Con gli Shape Of Despair andiamo a saggiare la consistenza di una delle band del momento, uno dei soli due gruppi funeral doom presenti al festival. La band è attesissima da uno sparuto gruppo di affezionati fan e di incalliti doomster, che abbandonano le fumose (in tutti i sensi) atmosfere del Valley Stage per vedere una delle rarissime esibizioni di questi pionieri della musica più lenta e triste che vi sia in circolazione. Il gruppo, immobile e granitico, esordisce coraggiosamente con “Monotony Fields”, titletrack di un disco – all’epoca – fresco di stampa e che probabilmente nessuno aveva ancora sentito. La voce di Henri Koivula, quindi, si ‘scontra’ con l’ingombrante ricordo di quella di Pasi Koskinen per la prima volta (per molti se non per tutti) dal vivo. Bastano le prime due parole, “Taken down”, per provocare l’ovazione del pubblico, che approva e promuove il nuovo cantante. Non che la band tradisca la minima emozione: gli Shape Of Despair colpiscono come l’alta marea, si sollevano lentamente e, quando sono ormai sopra di noi, ci schiacciano senza rimorso. Lo spettacolo è perfetto e l’iniziale curiosità sulla voce svanisce, lasciandoci con la musica dilaniante e soverchiante dei doomster finlandesi; quaranta minuti di concerto per quattro pezzi che lacerano la carne e mettono a nudo le nostre emozioni. La batteria ha un sound magistrale, ogni colpo su timpano e tom rimbomba, sorretto da un basso che si sente direttamente nello stomaco. Qualche piccolo problema ai volumi di Natalie Koskinen si risolve in pochi minuti ed il concerto termina come un muro di pietra, contro il quale si schiantano speranze ed illusioni. Lentamente (e non potrebbe essere altrimenti) ci dirigiamo al prossimo concerto.
(Lorenzo Ottolenghi)
Un sole cocente accoglie gli Armored Saint sul Mainstage 1, per quello che è uno dei rari concerti classicamente heavy metal della tre giorni. Non è consuetudine vedere il Santo sui palchi europei, quindi quella dell’Hellfest diventa una data imperdibile per tutti i suoi aficionado. Come ci attendevamo, non sono moltissimi ad accorrere per questo show, il pubblico è formato quasi prevalentemente da patiti del metal ottantiano, mentre la fetta di pubblico più ‘generalista’ non sente il fascino degli autori del recente “Win Hands Down”. E proprio dalla titletrack dell’ultimo lavoro in studio prende le mosse l’esibizione, affermando due concetti basilari in pochi istanti: John Bush è vocalmente tonico e i suoni, pur con qualche deficienza nello spessore delle ritmiche chitarristiche, permettono di riconoscere e apprezzare ogni singolo passaggio. La sezione ritmica dal sapore funky/crossover, con Vera in evidente stato di grazia, compromette il self-control dei fan di lunga, che tra un gettito d’acqua e l’altro in arrivo dagli idranti sprigionano un’energia incontenibile, seguendo da vicino gli scatti e le acrobazie di brani che non sono mai stati ‘semplice’ heavy metal. I cinque si giocano il primo asso con “March Of The Saint”, e sul controcoro la risposta dell’audience è maschia, in grado di sopperire a un numero di unità in prossimità delle transenne non altissimo. Sorridono beati questi indomiti cavalieri del metal più eclettico, e si muovono con intelligenza all’interno della loro discografia, omettendo testimonianze dal solo “Raising Fear”. Ecco allora il forbito dialogo vocale di “Nervous Man”, con Vera e Duncan sicuri nel botta e risposta con Bush, la doppietta iniziale di “Revelation”, “Pay Dirt”-“The Pillar”, la nuovissima “Mess” e le sue irresistibili percussioni di gusto sudamericano. Il singer è al settimo cielo, smanioso di offrire una grande prova vocale – missione compiuta – e va a cercare costantemente il contatto con chi ha di fronte. Prima va a bordo stage, poi scende ad abbracciare le prime file e a cantare con loro. Nessuna posa da rockstar, nessun divismo: un uomo da cui tanti aspiranti musicisti avrebbero solo da imparare. Nel mezzo, la pericolosa scalata alle casse traballanti su un lato del palco; per nulla scosso dai tremori che sconsiglierebbero di salire oltre, il caro John va più in alto possibile, e da lì canta con la proverbiale potenza e grinta. La seconda parte di spettacolo, con una gestione razionale del minutaggio degna di un playmaker di pallacanestro nelle azioni più concitate del match, è un crescendo rossiniano: dalla commuovente ascesi nostalgica di “Last Train Home”, alla ‘pugilistica’ – il singer la introduce con due cazzottoni a un avversario immaginario – “Left Hook From Right Field”, fino a uno dei riff più belli degli ultimi 25 anni, quello portante di “Reign Of Fire”, e all’hard rock tentatore di “Can U Deliver”, è una fiera delle meraviglie, con il suono caldo e ricco degli americani ad esagitare una platea da troppo tempo in attesa di vederli all’opera. Quaranta minuti a dir poco perfetti.
(Giovanni Mascherpa)
Setlist
Win Hands Down
March Of The Saint
Nervous Man
Pay Dirt
The Pillar
Mess
Last Train Home
Left Hook From Right Field
Reign Of Fire
Can U Deliver
Nel giro di poche ore vanno in scena sull’Altar le due entità che, per un verso o per l’altro, hanno contribuito all’esacerbazione e rinnovamento di estremismo sonoro da parte dei Paradise Lost, tornati in auge anche presso i fan della prima ora con il nuovo “The Plague Within”. I primi a salire sullo stage di Clisson sono i Vallenfyre di Greg Mackintosh, che ci fanno piombare nel caos più totale con un’accoppiata iniziale, “Scabs”-“Odious Bliss”, grigia come il crust concepito in una qualche desolata periferia suburbana e ignorantemente veemente secondo le usanze del death svedese o inglese dei primi Anni ’90. Mackintosh pare uno squatter in libera uscita da un centro sociale autogestito in modo parecchio spartano, coi dreadlock e i vestiti a dir poco sdruciti. Il piglio vocale fra il Tragedy-style e il death nordico è la quintessenza del metallo della morte più sincero e le sue stesse movenze sono indice di una convinzione assoluta in quello che sta facendo. I suoni sono discreti, solo leggermente bassi, e andranno ad aggiustarsi nel corso dell’esibizione, nella quale apprezziamo la capacità dei quattro di non soffermarsi su un solo aspetto della propria ‘ricetta’ sonica, ma di offrire nell’esiguo minutaggio disponibile un ampio saggio delle proprie doti. Oltre al singer, chi catalizza le nostre attenzioni è l’ex My Dying Bride Hamish Hamilton Glencross, magnifico quando si presta a tessiture ombrose e dilatate nelle parentesi death/doom gotiche – ma sporchissime – di “Cathedrals Of Dread” e “Bereft”. Se possibile, sono queste composizioni dolenti a risaltare sul materiale più diretto; sarà l’appartenenza da tempo immemore alla scena gothic, però le idee messe in evidenza fra queste caliginose note superano le comunque ottime bordate di verace stupro auricolare. L’affluenza non è stellare sotto il tendone, la partecipazione invece sì: meglio non stare in prossimità del mosh se si vuole restare interi!
(Giovanni Mascherpa)
Cosa succederebbe se Iommi e Ward incontrassero oggi Ozzy? O se quattro giovani musicisti delle Midlands inglesi di fine anni Sessanta venissero catapultati una cinquantina d’anni nel futuro? La risposta a questi due faziosi interrogativi non è certo la musica degli Orchid, ma – in questo scenario ipotetico – diciamo che i doomster californiani si avvicinerebbero molto a quello che potrebbe avvenire se le ipotesi di cui sopra si verificassero. La band parte piano, come a voler prendere le misure o a portare gli astanti a chiedersi cosa stia per succedere – anche se le due testate Orange alla destra del palco lasciano poco spazio all’immaginazione – ma con “The Mouth Of Madness” e “Eyes Behind The Wall” gli Orchid decollano e così i loro fan; Theo Mindell è un ottimo frontman e ci guida in un viaggio che richiama costantemente i Black Sabbath. Se la somiglianza è, a volte, tale da rasentare il plagio, poco importa, dato che Mark Thomas Baker sembra aver trovato la formula magica di Tony Iommi, componendo e suonando come un devoto fedele di un oscuro culto (dove i Sabbath sono, ovviamente, gli unici dei). Se qualcuno pensava che certo stoner fosse talmente derivativo da risultare inutile e si è avvicinato al palco del Valley con scetticismo e snobismo, a vedere cosa aveva attirato tutte quelle persone nel tendone dall’onnipresente odore di marijuana, sarà rimasto sorpreso e colpito; perché in pezzi come la conclusiva “He Who Walks Alone” non c’è ricapitolazione di quanto già suonato, ma c’è anche tanta freschezza, nonostante un’ingombrante somiglianza sonora, voluta e cercata. Ottimo, da questo punto di vista, il lavoro dei fonici, che riescono a catturare un suono insieme moderno e ostentatamente vintage. Uno spettacolo senza sbavature, dove ogni nota capita al momento giusto ed ogni pezzo è un piccolo gioiello. I fan non possono che essere in visibilio, davanti ad una band che si conferma grandiosa anche nella dimensione live e che lascia il palco tra applausi ed ovazioni.
(Lorenzo Ottolenghi)
BILLY IDOL
“Ci sono voluti quaranta minuti e lo spirito di Jim Morrison perché trovasse la voce”. Billy Idol esordisce nel torrido pomeriggio con “Postcard From The Past”, pezzo nuovo che certo non aiuta a creare un feeling immediato col pubblico. Fortunatamente arrivano subito tre classici in successione: “Dancing With Myself”, “White Wedding” e “Flesh For Fantasy”, eppure qualcosa non funziona. Il pubblico vorrebbe partecipare, ma gli arrangiamenti live sono strani, spiazzano un po’ troppo e la voce del vecchio Billy proprio non c’è; Idol e Steve Stevens cercano di dare una scossa agli astanti ma non sortiscono un grande effetto (forse anche perché danno l’impressione di essere un po’ strafottenti e di considerare quasi un insulto la scarsa partecipazione). Forse chi, come il sottoscritto, ha vissuto gli Anni ‘80 aveva aspettative troppo alte per un concerto open air di Billy Idol e forse il tutto va preso un po’ come uno spettacolo (anche se non è che il palco sia particolarmente ricco) o come una sorta di visita al museo del rock. Insomma, uno di quei concerti a cui le persone vanno per mettere una crocetta di fianco ad un nome e poter dire: “Billly Idol? L’ho visto all’Hellfest”. Verso la fine del concerto, dopo un’imbarazzante “Cradle Of Love”, ecco “L.A. Woman” e, con sorpresa un po’ di tutti, ricompare la voce. Gli ultimi quindici minuti (“L.A. Woman”, “Rebel Yell” e “Mony,Mony”) sono grandiosi (ok, forse anche la voglia di vedere e sentire davvero Billy Idol ce li rende migliori di quanto siano in realtà), comunque ci danno l’idea di cosa avrebbe potuto essere questo concerto. Il quale, nel complesso, è stata una mezza delusione: si potrebbero incolpare i suoni ed i volumi, ma ci sentiamo di dire che, in questo caso, si tratterebbe dell’unico concerto di tutto il festival ad aver sofferto di questo tipo di problemi. Potremmo azzardare che il buon Billy non abbia “scaldato” la voce a dovere prima dello show, ma, anche in questo caso, ci sembra improbabile che un professionista con un’esperienza più che trentennale commetta una simile leggerezza. Più semplicemente, crediamo che sia incappato in una giornata storta, come capita a qualunque artista. Peccato.
(Lorenzo Ottolenghi)
WOLFBRIGADE
Il sole picchia con inusitata abnegazione per queste latitudini e saluta a metà pomeriggio un manipolo di musicisti che non hanno troppe remore nello scorticare vivi i presenti. Mentre la pelle va squamandosi con i raggi quasi allo zenit, salgono sul Warzone i Wolfbrigade, una delle più rinomate istituzioni in campo crust/d-beat. Gente di spirito proletario e abituata alla concretezza, questi svedesi portano avanti un discorso radicale e insensibile alle mode del momento o a necessità di aggiornamento del sound. Quando arriviamo davanti al palco c’è un ampia porzione di terreno sgombra tra le prime tre-quattro file e la parte restante del pubblico: in pratica, è come se fosse già stato tracciato il perimetro del campo di battaglia. I cinque partono a testa bassa e scatenano i mosher di professione – nel mezzo, notiamo i soliti buontemponi muscolati con maglia gialla del ‘mosh team’, una delle presenze fisse sotto i palchi più ‘caldi’ dell’Hellfest – che davanti a un combo tanto riottoso vanno a nozze. Ogni pezzo è una fucilata di conclamata urgenza punk appesantito da chitarre bituminose e spessissime: il tiro è notevole, e non ci vuole chissà quanta dimestichezza col materiale proposto per essere pienamente coinvolti da quanto udito. Da bravi fabbri picchiatori quali sono, i Wolfbrigade avanzano come un toro in corrida, inserendo nel quadrato marasma generale qualche isolato, e benedetto, stacco rock’n’roll. Se non si è d-beater indefessi, la mancanza di qualsiasi costruzione un po’ ambiziosa e di melodie riconoscibili – come accade per esempio con Tragedy e From Ashes Rise, e in parte coi Victims – rende alla lunga monotono un concerto comunque abbastanza lungo per i canoni del genere (circa cinquanta minuti), anche se la prestazione dei cinque rimane ineccepibile e all’altezza della loro fama.
(Giovanni Mascherpa)
OATHBREAKER
Inauguriamo il palco Warzone con l’esibizione dei belgi Oathbreaker, chiamati a sostituire i defezionari Trap Them: in perfetto orario rispetto al programma i quattro salgono sul palco attaccando con “No Rest For The Weary”, estratto della loro – convincente – ultima fatica “Eros|Anteros”. Il quartetto appare sin da subito motivato a non sfigurare e a sfruttare al meglio la possibilità offerta: Caro Tanghe alla voce si dimostra una frontman assolutamente eccezionale, capace di catalizzare a sé l’attenzione dei presenti con i suoi scream lancinanti ed un’esecuzione teatrale e sofferta. Lo show dei belgi, senza rinunciare ad una buona fedeltà di esecuzione, è totalmente devoto ad un approccio fisico e distruttivo, con somma felicità di tutti gli astanti: movimenti schizzati, sudore ed headbanging sono gli unici ingredienti della prestazione del quartetto, con una Tanghe che per tutta la durata dell’esecuzione non ha mai mostrato il volto, perennemente nascosto dalla lunga chioma, quasi a voler innalzare un muro tra esecutore e pubblico. Durante l’esecuzione riconosciamo “Abyss”, “Glimpse Of The Unseen” e “The Abyss Looks Into Me”, velenosi episodi hardcore vomitati senza remore sul pubblico con infinito astio e veemenza: essi si stemperano solamente in alcuni sognanti intermezzi, dove una Tanghe quasi irriconoscibile sussurra dolcemente al microfono le strofe dei brani, interrompendo per alcuni istanti le terrificanti urla che compongono il grosso delle sue parti vocali. I quaranta minuti concessi all’esibizione scorrono veloci senza cali d’intensità, e rimaniamo piacevolmente colpiti dal muro sonoro innalzato da questa giovane formazione: complici dei suoni assolutamente perfetti e dalla buona partecipazione di tutto il pubblico presente non indugiamo nell’includere la prestazione degli Oathbreaker tra le più intense e convincenti dell’intera giornata. Attitudine e capacità compositive – nonché esecutive – vengono ormai padroneggiate a dovere da questi quattro ragazzi: se vi dovesse capitare l’opportunità di vederli in azione in futuro, non lasciatevela sfuggire. Siamo certi che non questi ambiziosi musicisti non vi deluderanno.
(Fabio Galli)
BLOODBATH
Nomen-omen. I Bloodbath si installano sull’Altar gettando idealmente sangue dappertutto, consci di quante aspettative li circondino dopo il fortunato “Grand Morbid Funeral”, viaggio a ritroso alle radici del death metal primordiale. Tutto quanto vediamo sul palco richiama un bagno di materia rossastra di esagerate proporzioni, dal fondale ai teli issati ovunque sull’ampio stage. I musicisti vincono poi a mani basse il premio per il miglior trucco di scena del festival: tutti e cinque sono ricoperti di sangue finto, come se avessero subito un gavettone di tale liquido, e se non sapessimo che è tutta finzione ci verrebbe da scappare a gambe levate alla loro vista. Impressionante come Holmes si sia calato pienamente nella parte di frontman death metal, quando per anni sembrava avulso perfino dal metal propriamente detto. Il suonare poco in giro con questa formazione acuisce l’entusiasmo dei musicisti, invasati come se da questo concerto dipendesse chissà cosa nei loro destini futuri. Inizialmente i suoni sono bassi, ma è un aspetto di cui non si cura praticamente nessuno: gli istinti omicida non conoscono freno e nel pit non stanno certo a farsi carezze, divincolandosi brutali nel tenere il passo delle barbarie promulgate dai Bloodbath. Holmes soddisfa pienamente le nostre aspettative di tenuta vocale: è vero che il growl diventa spesso un cantato sporco molto urlato, ma questa resa genuina, così lontana dal perfezionismo di molti colleghi più giovani, la grinta priva di calcoli immessa in ogni parola ringhiata al microfono ci fanno alzare il pollice a favore del singer inglese. Ilarità generale quando inforca gli occhiali da sole, trasformandosi nel prete perverso di qualche film horror, giusto un attimo di folclore in una performance tra le più applaudite e caratterizzate da una partecipazione degna di uno degli headliner sui mainstage. Piace anche l’estrema omogeneità dei pezzi sotto il trattamento dell’attuale line-up, che leviga le differenze tra, ad esempio, una “Mock The Cross” e una “Anne”, a favore di un’atmosfera sordida e malata che ci attrae perversamente e non ci lascia respirare fino al termine dell’esibizione. Lo show va talmente bene che, fatto inusuale a quest’orario, i Bloodbath lasciano e ritornano nello spazio di qualche minuto per l’encore, “Eaten”. Nel caso qualcuno ritenesse i Bloodbath attuali una semplice operazione nostalgia, ci permettiamo di dirgli che si sbaglia di grosso!
(Giovanni Mascherpa)
ENVY
I veterani Envy sono una delle rare concessioni del festival al post-hardcore, e sotto al Valley si raduna un folto gruppo di appassionati per non perdersi l’evento. Musicalmente ormai prossimi a Deafheaven e Ghost Bath, i giapponesi mostrano tuttavia maggiore talento nell’integrare spietati scream a parti più atmosferiche. Dopo l’onirica partenza di “A Warm Room” (grondante influenze emo), il concerto prosegue per oltre un’ora alternando malinconia urbana ed esplosioni controllate di violenza, quasi ci si trovasse di fronte alla versione metal di un gruppo post-rock (non a caso ad occuparsi di loro c’è la Rock Action Records dei Mogwai). Tecnica sopraffina (ogni suono è perfettamente riconoscibile, anche nei passaggi più rumorosi), gusto nel calibrare le influenze più disparate (emo, hardcore, shoegaze, post-rock, ma anche l’hardcore evoluto dei Karate nei frammenti cantati/recitati) ed innato talento nell’emozionare senza cadere nel ridicolo. Inutile dire che perderseli al loro prossimo passaggio in Europa sarebbe un atto criminale.
(Stefano Protti)
SATYRICON
Arriviamo con qualche minuto di anticipo in zona Temple per assicurarci una buona visuale sull’esibizione del duo norvegese che, vista la quantità di pubblico presente, è sicuramente tra le formazioni più gettonate tra quelle in programma la sera della prima giornata. Non ci tocca attendere troppo prima che le note di “Voice of Shadows” accolgano sul palco Frost, debitamente tributato da applausi ed incitamenti da parte di tutti i presenti. Una volta che il nutrito numero di turnisti scelti per le date dal vivo ha preso posto, è con l’arrivo sul palco di Satyr che l’atmosfera si infiamma, sulle note di “The Rite of Our Cross”, estratto di “Now, Diabolical”: luci, suoni, voce, tutto assolutamente perfetto sin dai primi attimi dell’esibizione. Rimaniamo stupiti nel constatare la coesione tra la band e i turnisti: Steinar Gundersen e Diogo Bastos alle chitarre insieme a Anders Odden al basso si dimostrano assolutamente degni del ruolo ricoperto, lanciandosi in continui headbanging e scambiandosi continuamente di posizione per l’intera durata dello show. Ci fa piacere verificare che pur non brillando quanto il materiale più vetusto, dal vivo brani come “Our World, It Rumbles Tonight” e “Nekrohaven”, presi dall’ultimo, omonimo, album riescano comunque a fare la loro sporca figura, rinvigorite da una performance fisica assolutamente dirompente. Viene letteralmente saccheggiato – ben quattro brani – “Now, Diabolical”, mentre per il resto dell’esibizione Satyr decide giustamente di pagare pegno ad ogni pubblicazione inserendo in scaletta un brano da ogni album. Si passa quindi da vere e proprie hit come la titletrack di “Now, Diabolical” al groove di “The Pentagram Burns”, passando per una traccia progressiva e cangiante come “Filthgrinder”, autentico spartiacque della mutazione sonora della formazione avvenuta con “Rebel Extravaganza”. Che si spinga il piede sull’acceleratore o che si dia spazio a tempi medi molto ritmici, i Satyricon convincono senza mezzi termini e sentendo lo scroscio di applausi alla fine di ogni pezzo siamo certi che non siamo stati i soli a pensarlo. Satyr si conferma un assoluto trascinatore, sempre pronto a interagire visivamente con il proprio pubblico. Tralascia, volutamente, qualsiasi tipo di sproloquio e cerca di far parlare il più possibile la propria musica. Il tempo è tiranno e si arriva velocemente verso le fasi conclusive dello show, dove vengono proposte l’epica “Mother North” – cantata a gran voce da tutti i presenti – e la monolitica “K.I.N.G.”. Una vera e propria menzione d’onore all’impianto luci che, programmato a dovere, ha sensibilmente aggiunto una marcia in più allo show, donando atmosfera a pathos all’intera esibizione. I Satyricon salutano e lasciano il palco osannati dai presenti come dei veri e propri eroi: non fatichiamo a definire la loro performance tra le migliori – se non la migliore in assoluto! – di questa edizione dell’Hellfest. Promossi con lode.
(Fabio Galli)
MESHUGGAH
La notte porta consiglio e alienazione. Fa comparire entità superbe di estrazione oramai ben nota, e si compiace di lasciarle sfogare in tutto il loro gelido furore meccanicistico. I Meshuggah officiano l’ennesimo baccanale di robot futuristi in complotto per dilaniare mente e fisico dei poveri umanoidi, operazione compiuta con la solita, irresistibile, perfezione nell’azione. L’aspetto scenografico è un po’ contenuto se confrontato con quanto ammirato nei concerti degli ultimi tour al chiuso, con l’assenza dei famigerati laser che accompagnano le esibizioni da headliner degli svedesi, ma è un dettaglio marginale a fronte della prova strumentale sfacciatamente chirurgica e dell’energia destabilizzante profusa in ogni nota. La scaletta non presenta grandi sorprese, con l’apertura affidata a “Rational Gaze” e un susseguirsi di cerebralismi aggrovigliati e smodatamente groovy che uccidono ogni minimo controllo sul fisico dei presenti, ridotti a inermi manichini nelle mani di esseri sovrannaturali, serissimi nell’unirsi in un solo, elaboratissimo, atto di manipolazione degli individui postisi al loro cospetto. Soggiogati dalle luci stroboscopiche perennemente puntate negli occhi, coi musicisti quasi sempre in controluce, ammiriamo un concerto che scorre nelle orecchie e davanti agli occhi a scatti irregolari, slegato da ritmi terreni, con il tempo stesso che sembra avanzare e arretrare, allungarsi e restringersi sotto le martellate di “Future Breed Machine”, “obZen”, “Do Not Look Down”. Thordendal e Hagström schiacciano, artigliano, sventrano materia cerebrale e la reimpastano secondo infinite modalità, mentre Kidman ondeggia a braccia larghe come un tiranno che si compiace dell’acclamazione dei suoi sudditi, tenendoli sotto tiro con occhio sprezzante e indagatore. Lo sconcertante stillicidio si ferma con la parentesi di “Mind’s Mirrors”, necessario preambolo allo spaccato di “Catch Thirtythree” rappresentato da “In Death – Is Life”-“In Death – Is Death”, da alcuni anni i due colpi di commiato del quintetto. Per chi li ha visti all’opera di recente, ci sarà stata un pizzico di delusione nel risentire più o meno sempre la solita scaletta, mentre per tutti gli altri (incluso chi scrive, che non vedeva i Meshuggah dal 2008) si è trattato di un concerto a dir poco mostruoso.
(Giovanni Mascherpa)
Setlist:
Rational Gaze
obZen
Do Not Look Down
The Hurt that Finds You First
Future Breed Machine
Demiurge
Bleed
Encore:
Mind’s Mirrors (registrata)
In Death – Is Life
In Death – Is Death
WOVENHAND
Dave Eugene Edwards. Il fanatico cristiano sudista che registrava i dischi dei 16 Horsepower nei fienili. Il solitario cantautore ritiratosi nell’esilio fangoso del folklore americano. Il predicatore dell’apocalisse, con l’avatar Wovenhand. La sua vita offerta in dono per tutti noi. Parlare del male per riportarci a Dio. Non cambia il fine, ma cambiano le parole e le note. Oggi i WovenHand hanno recuperato l’elettricità degli anni giovani, ma il contesto è talmente diverso da rendere impossibile ogni sovrapposizione. Il country rock che erano soliti proporre si è trasfigurato in un assalto elettrico violento, la voce non canta, invoca. Il male non è più solo il ragazzo spostato che aspetta tua figlia fuori da scuola per darle fuoco, in risposta ad un rifiuto. Ora c’è il demonio, ci sono i Grandi Antichi. Il gruppo sente la presenza degli spiriti maligni, sul palco del Valley, e reagisce nell’unico modo possibile. Inscena un esorcismo, in cui tutti sembrano perdere il controllo ad ogni passo. Quasi impossibile discutere sulle canzoni (quasi tutte tratte dagli ultimi, durissimi, “The Laughing Stock” e “Refractory Obdurate”), lo show è un flusso continuo di elettricità, da cui affiorano gioielli southern rock come “Masonic Youth”, “Hiss” e “King David”. Edwards è avvolto in un fumo bianco, il volto semi-nascosto dalla tesa di un cappello, si alterna alla chitarra elettrica e al banjo, la voce perennemente filtrata, con le mani imita ogni tanto uno stregone indiano. Fa davvero paura. Tra il pubblico, qualcuno getta la spugna e si allontana, in cerca di qualcosa di più tradizionalmente metal e meno estremo. Per quelli che resistono, è uno spettacolo difficilmente dimenticabile, seppure un po’ troppo monolitico rispetto ai lavori in studio.
(Stefano Protti)
SHINING
L’ultimo concerto del primo giorno di Hellfest è quello dei sopravvissuti, di chi ha resistito a caldo e ore di volumi pazzeschi ben oltre il tramonto – da queste parti, a giugno, il buio arriva quasi alle undici di sera – e con la forza della disperazione tiene botta fino al gran finale. Perché di questo si tratta, quando sul Temple vengono chiamati a sfogarsi i patroni del jazz metal, i norvegesi Shining. Rivoluzionari alchimisti di commistioni che altri hanno provato, ma non hanno portato a tali vette di frenesia schizofrenica, e soprattutto non le hanno rese per certi versi assimilabili dalle masse, questi sorridenti manipolatori del rumore si sono costruiti una fama di live band eccezionale, ben testimoniata dal cd/dvd “Live Blackjazz”. Si presentano sobri ed eleganti come se dovessero presenziare in un teatro d’opera, non a un festival metal, e marcano già in questo la loro differenza, l’appartenenza a due mondi apparentemente antitetici, quello del jazz e quello del metal, ma che alla fine possono dialogare fraternamente e permettere creazioni di altisonante impatto. Probabile si sia installato il fonico degli Shining stessi al mixer, difatti i livelli dei singoli strumenti e i volumi sono a dir poco fantasmagorici e possiamo apprezzare pienamente in tutta la sua follia la conosciuta “The Madness And The Damage Done”. Pattern percussivi jazz sminuzzati in un frullatore, tastiere industrial, scorribande chitarristiche a velocità grind e harsh vocals rompono gli argini della tradizione e impongono nuove leggi nel modo di vivere un concerto. Il relativamente sparuto pubblico può mettere da parte il leggero torpore con cui spesso accade di seguire le esibizioni oltre l’una di notte, e segue con sufficiente attenzione le architetture in costante trasformazione della band, temprata da anni di studio ed esercizio fino a diventare l’ensemble coeso e spiritato che tutti oggi possono ammirare. Jørgen Munkeby si è ritagliato su misura un modo di essere frontman quasi unico, nel quale ritroviamo il genio del polistrumentista bagnato da un talento superiore, il performer istrionico nato per rimodellare in una veste ancora più esaltante quanto di buono composto in studio, l’intrattenitore simpatico e spigliato che sa mettere a suo agio l’audience con poche frasi ad effetto. A fasi irrazionali, mirabolanti negli eccessi di velocità e complicazione, con il sax a portare quasi alla danza sconnessa e a una gioia sinistra, impazzando in ambiti Zorniani, si susseguono momenti in cui sembra di udire della techno durissima rivisitata in chiave metal. Con Munkeby a chiamare a raccolta sotto le spoglie di un dj dell’anno 3000. Accanto alle note “HEALTER SKELTER” e “The One Inside”, gli Shining con nostra somma sorpresa mettono in fila ben tre inediti dal nuovo disco in uscita il 2 ottobre per Indie Recordings. “Chords Long Stand”, “Last Day” e “Thousand Eyes” fanno subito un’ottima impressione, seguendo in modo abbastanza logico il percorso intrapreso con “One One One”, nel segno di una maggiore fruibilità e con molti attacchi diretti, in alcuni casi con un ‘tunz-tunz’ piuttosto evidente ma non fastidioso, accanto a tracimazioni strumentali comparabili a quelle di “Gridstone” e “Blackjazz”. La superba cover dei King Crimson “21st Century Schizoid Man” e la relativamente facile “I Won’t Forget” consumano le esigue energie rimaste, nostre e della band, nel segno di un’appagante sconsideratezza e di una qualità musicale tra le più alte della tre giorni.
(Giovanni Mascherpa)
Setilist:
The Madness And The Damage Done
The One Inside
Fisheye
My Dying Drive
Chords Long stand
Last Day
Thousand Eyes
HEALTER SKELTER
21st Century Schizoid Man
I Won’t Forget