Report a cura di Fabio Galli, Giovanni Mascherpa, Lorenzo Ottolenghi, Stefano Protti
Foto a cura di Federico Rucco, sito ufficiale Hellfest (http://www.hellfest.fr), Miquel Raga (https://www.flickr.com/people/miquelraga/), Fred Moocher (http://www.hardforce.fr/, https://www.flickr.com/photos/moocherphoto/), Giovanni Mascherpa
Eccovi il nostro report del secondo giorno dell’Hellfest 2015. Potete leggere la prima parte a questo link.
Con ancora le note di “Stellar” a riverberarci nelle orecchie andiamo a sentire quanto i suoi autori sono in grado di offrire dal vivo. I quattro tedeschi dal nome impronunciabile per chi non ha grande dimestichezza con l’idioma germanico sono nella fase di consolidamento del loro terzo full-length, tappa fondamentale per scalare le graduatorie nel competitivo filone post-black metal. La formazione di Würzburg è di quelle che pestano più duro in tale ambito, anche i blackster intransigenti possono trovare motivi di conforto e sommo divertimento nei loro brani, capaci di assecondare istinti selvaggi come di aprirsi ad atmosfere solenni, talvolta delicate, in altri casi densissime. Se questi giovanotti (tutti sotto i trent’anni) debbono ancora guadagnare qualche punto nel modo di vivere il palco, perché allo stato attuale sono ancora un po’ frenati da timidezza e introversione, l’interpretazione strumentale non ammette replichee; finisce per esacerbarsi sul Temple la componente ruvida dei Der Weg Einer Freiheit, le chitarre si trasformano in gorghi vorticosi e dall’effetto di trascinamento inarrestabile, spinte al parossismo dai blast-beat di Tobias Schuler. Ottima anche la prestazione vocale di Nikita Kamprad, a suo agio anche sul pulito; un pezzo del calibro di “Repulsion”, la splendida opener del disco uscito a marzo per Season Of Mist, chiarisce pienamente i motivi dell’interesse attorno al quartetto. Poesia, rabbia suprema e spirito pugnace non mancano a uno dei talenti più in vista dell’attuale scena extreme metal europea. La prova di fuoco dell’Hellfest, davanti a un pubblico dignitoso nelle presenze, è superata a pieni voti.
(Giovanni Mascherpa)
Persa per strada Sharie Neyland qualche mese dopo l’uscita di “Consolamentum”, si poteva credere che i The Wounded Kings si sentissero un po’ persi senza quello che era stato l’elemento catalizzatore delle ultime due fatiche in studio. Il leader e principale compositore Steve Mills, che in passato ne ha viste tante e non si è mai dato per vinto, non si è scomposto neanche questa volta, e ha riportato in line-up George Birch, primo cantante del gruppo. Questa scelta haridato quell’identità doom metal claustrale ultimamente un po’ adombrata dalle inflessioni stregonesche dell’ex singer, professionista molto brava ma forse un po’ ingombrante per l’ensemble albionico. Pur avendo apprezzato l’ultima fatica in studio del gruppo, la prova dell’Hellfest ci ha dato sensazioni migliori, perché le cantilene di Birch non mettono in secondo piano la musica come accadeva con la Neyland, si mettono sulla sua stessa lunghezza d’onda e creano un amalgama magari meno personale, ma più omogeneo e scorrevole. Le sensazioni possono arrivare solo e soltanto da quanto viene suonato, i The Wounded Kings sono ben lontani dall’esprimere sensazioni forti con la gestualità, gli sguardi o il look; si attraversano un po’ tutte le fasi del classicdoom, dalle pozze di calma rarefatta, alle uggiosità autunnali, dai notturni impenetrabili alle orgogliose cavalcate mutuate dall’heavy metal ottantiano. I quattro hanno un passato e un presente di tutto rispetto, e sul Valley, davanti a un pubblico piuttosto sparuto, lo dimostrano con una prova collettiva passionale, fatta di canzoni lunghe e che si svelano poco per volta, lungo un cammino da percorrere in solitaria, fra decine di mutamenti di pendenza, in piena luce o circondati dalla foschia, guardando prima di tutto dentro se stessi e solo in un secondo tempo a quanto ci circonda. Menzione d’onore per gli assoli di sapore nostalgico, sequenze di note tese ad emozionare e a far emergere dai nostri cuori sentimenti di contenuta mestizia, che spesso teniamo celati e durante un concerto come questo possono uscire allo scoperto liberamente.
(Giovanni Mascherpa)
ONSLAUGHT
Gli Onslaught, come abbiamo avuto modo di constatare durante il Metalitalia.com Festival, sono in uno dei momenti migliori della carriera, finalmente riveriti per tutto quello che hanno dato al thrash metal dall’esordio “Power From Hell” in poi. Senza essere ripagati da una celebrità commisurata al valore degli album, peraltro. Adesso sembra essersi aperto un nuovo, avvincente, capitolo per gli inglesi e quella dell’Hellfest assume presto la forma di una celebrazione sentita, autentica ed entusiasta di questo act spesso relegato, a torto, tra le band di seconda fascia. Lo storico cantante Sy Keeler ha mantenuto una vocalità di primissimo livello e la sua ugola in perenne agitazione fra acide urla demoniache e note alte e taglienti, manna dal cielo per chi rimpiange i vocalizzi iper-acuti degli Anni ’80, basterebbe da sola a causare le peggiori nefandezze nel pit. Figurarsi poi se a tenere viva e brutale la platea ci pensa una delle coppie d’asce più inebrianti oggi sulla piazza, quella formata da Nige Rockett e Andy Rosser-Davies: le modulazioni di thrash tradizionale virato a più riprese sullo speed metal e la NWOBHM al doppio della sua consueta velocità vanno a coagulare in un unico, immenso, caravanserraglio di fraseggi spolpanti, ritmiche scattanti verso pattern in alcuni casi relativamente canonici, in altri ascrivibili solo e soltanto agli Onslaught medesimi. Si percepisce, negli sguardi e nel linguaggio del corpo, un’unitarietà come band che, tra un cambio di line-up e l’altro, difficilmente gli inglesi hanno avuto e goduto nel passato. Fantastico e da studiare per i cantanti in erba il modo in cui Keeler stesso interagisce con gli astanti: è evidente che si senta il primo fan della propria stessa musica. Il chorus a lama rotante di “Metal Forces” gira in loop nelle nostre teste mentre le stordiamo di headbanging, non c’è pausa e non c’è refrigerio quando l’attacco arriva da tutte le parti, e l’unico modo per tenere testa alle rasoiate di “Killing Peace” e “Children Of The Sand” rimane quello di reagire a nostra volta con vigoria, rispondendo colpo su colpo alle provocazioni scaturite dal palco. Si finisce cotti ma felici: qualche attimo per respirare, poi ci si butta sotto il sole cocente per raggiungere il Warzone.
(Giovanni Mascherpa)
CRAFT
Alfieri dell’ala più dispotica e tradizionalista del movimento black metal svedese, i Craft non sono proprio dei prezzemolini degli happening metal estivi. La loro partecipazione all’Hellfest va quindi vista come un piccolo evento nell’evento, e infatti c’è un crogiolo di personaggi attenti e bramosi ad attenderne la comparsa sul Temple. La luce del sole, quest’anno più invadente che negli anni scorsi su questo palco, a causa della maggior apertura di quella specie di hangar dove ci troviamo rispetto al tendone da circo delle edizioni 2012-’13-’14, non è mai il compagno ideale per un act black metal. Ma i Craft non se ne curano. E non paiono nemmeno degnare di troppe attenzioni i presenti: i Nostri incarnano lo stilema del black metaller misantropo e poco disposto alla comunicazione col resto del mondo. La tenuta delle posizioni, con movimenti ridotti al minimo indispensabile, a parte qualche mossa rabbiosa del cantante, è rigorosa, mentre la musica, incanalata nei primi minuti su di un old-school black metal nerissimo e tradizionalista, acquista poco per volta sembianze piuttosto contorte e non immediatamente decifrabili. I Craft prediligono l’avanzamento su tempi medi, modulati secondo pattern ritmici talvolta irregolari e saettanti, inframmezzati da atroci scariche di blast-beat all’altezza di quanto proposto in Scandinavia nei primi Anni ’90. Le sei corde inzuppano di nera pece l’assolato pomeriggio, dissertando con pari efficacia su riff elementari e forieri di assalti vampireschi, come su contraddittori rimescolamenti di note in cui non è sacrilegio intravedere piccole intromissioni di noise e post-metal. Tutto ciò, senza che si travalichino i confini del vero black metal, orgoglioso della sua purezza ma attento a incamerare quanto di buono l’estremismo sonico abbia elargito in tempi recenti. Lo screaming tra Darkthrone e Burzum di Nox fa spavento e ci accompagna con un effetto disturbante lungo quaranta, oppressivi, minuti. Performance positiva, quindi, per i Craft, anche se un po’ di trasporto non avrebbe guastato.
(Giovanni Mascherpa)
MÜTIILATION
Quarantacinque minuti a metà pomeriggio per Meyhna’ch e la sua one man band Mütiilation. Certo, quando un intero palco è dedicato quasi esclusivamente a black metal e affini, qualcuno deve suonare durante le ore “di luce”, ma che capiti ad una band che “gioca in casa” e che fu tra gli iniziatori delle Légions Noires (salvo esserne cacciata nel 1996 con uno scioglimento come conseguenza) un po’ fa pensare. I Mütiilation offrono una setlist che copre tutte e due le incarnazioni della band, anche se la seconda parte è purtroppo, almeno per chi scrive, preponderante. I Mütiilation sono dediti ad un black metal primordiale, perfetta incarnazione della scuola francese (come Vlad Tepes e Belketre, per intenderci). Nonostante l’orario, comunque, il pubblico è piuttosto numeroso e Meyhna’ch (accompagnato dai Sektemtum, con cui ha peraltro un side-project) si dimostra capace di tenere bene il palco, sebbene le sue apparizioni live possano contarsi sulle dita di una mano. Ovviamente il pubblico esplode per “Transylvania” e “Tears Of A Melancholic Vampire”, tratte dal seminale “Vampires Of Black Imperial Blood” ed anche “Black Millenium” riceve la sua parte di ovazioni. Per il resto, il materiale più “mainstream” (le virgolette sono d’obbligo) della band è accolto in modo un po’ tiepido e forse il pubblico resta fino alla fine più per l’unicità dell’evento che per il valore del materiale più recente. Difficile capire se la tanto chiacchierata dipendenza da droghe pesanti di Meyhna’ch esista ancora, certo è che a volte ci è apparso un po’ “stralunato”, ma questo non ha minimamente scalfito un’ottima prestazione. Speriamo che questo concerto resti più di un evento isolato e che i Mütiilation continuino a suonare live, magari con un repertorio più incentrato sul periodo 1992-1996.
(Lorenzo Ottolenghi)
RISE OF THE NORTHSTAR
E’ ufficiale: siamo in piena Rise Of The Northstar mania! L’immagine da teppisti made in Japan e la bullesca forza espressiva della loro musica, rappresentata da un esordio a dir poco destabilizzante quale “Welcame”, hanno mandato alle stelle le quotazioni di questi ragazzi dai natali francesi e proiettati con la mente nell’universo manga. Probabilmente, visto il livello di popolarità raggiunto e l’energia incontenibile sprigionata nei live, potrebbero far saltare per aria qualsiasi club europeo; figuriamoci se si ritrovano ad agire a casa loro, nel più importante festival del Vecchio Continente per le sonorità hard’n’heavy, sul palco dedicato all’hardcore, il Warzone. L’armageddon in terra è servita, a colpi di rappate che fanno sembrare gattini appena nati molti professionisti del gangsta-rap, riffoni modern-thrash di invidiabile propulsione e graniticità, stacchi hardcore rombanti e vistosi come auto trasformate da allestimenti tuning. Tutti e cinque vestiti con la divisa da scolari nipponici, i francesini si dimostrano quella forza della natura di cui ci era capitato di leggere negli ultimi mesi. Colpisce la sicurezza di questi ragazzi, l’assoluta sfacciataggine nell’arringare la folla, nel chiederle di fare quello che vuole. Le gang vocals ci arrivano addosso in un fiume in piena di cafonaggine, tutti saltano incuranti del caldo che ti fonde pelle e anima: bisogna per forza indietreggiare se non si vuol essere calpestati, rinculare quasi fino al mixer per non essere fagocitati dalla calca. Vithia cammina caracollando, con l’aria di chi ti prenderebbe volentieri a botte se solo trovasse il minimo pretesto per farlo: si potrebbe ritenerla una mossa calcolata, a noi fa un’impressione diametralmente opposta. I Rise Of The Northstar avranno un look studiato in ogni piccolo dettaglio, ma non sono affatto una baracconata. Anzi, sono la quintessenza del rap metal al massimo grado possibile di tamarraggine, uno stile sorretto da doti tecnico/compositive nettamente superiori alla media. Nuovi idoli delle folle, insomma, e quando si ha dentro il fuoco di Vithia, Evangelion-B, Air-One, Fabulous One, Hokuto No Kev, nulla è impossibile. Fatevi contagiare dal Furyo style!
(Giovanni Mascherpa)
Quattro pezzi in quarantacinque minuti. Gli Ahab, seconda band funeral doom dell’Hellfest, mantengono la media degli Shape Of Despair. Il pubblico arriva alla spicciolata, fino a creare una discreta “massa” davanti al palco del Valley: a dire il vero, ci saremmo aspettati un po’ più di persone per una band che vanta un gran seguito e che ha suscitato negli anni l’interesse di molti appassionati (doomster e non), grazie al mix tra funeral doom estremo ed opprimente ed una componente psichedelica e sperimentale cresciuta esponenzialmente dagli esordi ad oggi. L’esperienza “nautic doom” copre i tre dischi della band, con due pezzi estratti dallo strepitoso debut. I tedeschi iniziano con “The Divinity Of Oceans”, giusto per “scaldare” il pubblico e prendere le misure col sound, ma è con “Old Thunder” che gli Ahab mostrano davvero ciò che sanno fare: il fumo avvolge il palco e – come spettri – i quattro doomster teutonici invadono lo spazio antistante con il loro sound liquido e potente; la tempesta si abbatte su di noi, Chris e Daniel sollevano onde maestose, il tuono di Cornelius e Stephan fa tremare il ponte dell’immaginaria nave su cui ci troviamo ed il capitano Ahab grida la sua orgogliosa rabbia. La tempesta si placa solo per un attimo ed ecco “Deliverance”, forse il pezzo in setlist che più concede alla componente psichedelica della band; così la gelida ed allucinata calma ci racconta di una nave fantasma, dei morti e della loro gelida presenza che mai più abbandonerà i nostri ricordi. La calma è la stessa delle acque quiete e silenziose, quando la balena viene avvistata: ecco allora “The Hunt”, a chiudere il concerto. La folle rabbia del capitano Ahab, la sua caccia fatta di attesa e cieco odio si sprigionano in un sound potente, dai ritmi lenti, pesanti ed allucinati che ben comunicano il desiderio malato che attanaglia la mente di tutto l’equipaggio e di tutti gli astanti. Quando il viaggio termina, ecco quattro ragazzi in jeans e maglietta che sembrano appena usciti dalla sala prove, vagamente stupiti di trovare tutte quelle persone fuori dalla porta. Un sound impeccabile (qualcosa di imprescindibile per il genere e sopratutto per una band come gli Ahab, che basa molte delle sensazioni trasmesse proprio sui suoni), ennesimo miracolo dell’organizzazione dell’Hellfest, per un concerto difficile da dimenticare, di quelli che ti si imprimono in mente e che da soli possono valere un intero festival.
(Lorenzo Ottolenghi)
KILLING JOKE
Se Dave Eugene Edwards è uno sciamano, allora Jaz Coleman è l’animatore da villaggio turistico che hai sempre sognato, quello che chiama tutti alla lezione di zumba proprio mentre all’orizzonte si profilano i gommoni carichi di terroristi dell’Isis. Sorride isterico, completamente vestito di nero mentre i suoi compagni di squadra (di fatto un’unica, enorme, sezione ritmica, con Youth gran maestro di cerimonia) avviano quella che è, in tutto e per tutto, una danza disperata. I brani storici (“The Wait, “Wardance”, “Requiem”), che già brillavano di luce propria, ora sono taglienti assalti dance metal, “Autonomous Zone” fa ben sperare sul nuovo disco in uscita e la b-side “Pssyche” (risalente al 1980, qui in una versione dall’incedere quasi techno) è un regalo delizioso ai presenti. Coleman vuole far ballare il pubblico, ed il pubblico reagisce nell’unico modo possibile, ballando, ma in modo spastico, fuori tempo, disorientato dai bpm fuori controllo. Davanti a chi scrive, due ragazzi euforici si affidano addirittura ai passi della Macarena. Sul finale, “Pandemonium” rimette tutte le carte al loro posto. Il mondo non finirà, e dopo il caos di questi anni c’è solo altro caos ad attenderci. Ma ci sarà da divertirci. In definitiva, un concerto in gran spolvero, con l’unico rimpianto della programmazione diurna, che ha smorzato parte delle suggestioni che musica di questo genere impone durante l’ascolto.
(Stefano Protti)
Da un certo punto di vista, viviamo una storica prima volta. Da quando è stato installato, a partire dal 2012, non ci era capitato una sola volta di trovare insoddisfacente la qualità dei suoni all’interno del Valley. Questo non invidiabile primato tocca a quegli stoner/metaller con l’animo da biker degli Orange Goblin, ormai assurti a fenomeno di costume all’interno della scena hard rock/heavy metal europea tramite gli ultimi album, “A Eulogy For The Damned” e “Back From The Abyss”. Capiamo che qualcosa non va per il verso giusto già alla fuoriuscita delle prime note dagli ampli, soffocate nella consueta, maleducata, potenza da volumi stranamente bassi. La chitarra di Joe Hoare paga la gabella più salata, se gli assoli sono bene o male pienamente distinguibili, le ritmiche non graffiano come ci aspetteremmo. I quattro inglesi, per compiere la propria opera di devastazione rolleggiante, abbisognano di suoni turgidi e un po’ ‘crostosi’, con un ampio dosaggio di fuzz e distorsione fuori controllo, come usano normalmente i Motorhead, ricordati molto da vicino normalmente nell’impatto dei live. Sotto il Valley la maggioranza di chi abbiamo attorno poco si cura di queste mancanze e si danna l’anima nel supportare questi rudi uomini arrivati al successo con un po’ di ritardo: è evidente dall’entusiasta partecipazione con battimani, cori e urla di vario tipo a ogni segnale di quel grand’uomo di Ben Ward – con pancia alcolica sempre più prominente – che gli Orange Goblin abbiano svoltato e solo rispetto a tre anni fa, quando li vedemmo all’opera proprio nella stessa location, oggi i loro seguaci siano significativamente aumentati. Il divertimento comunque non manca, gli albionici sono performer rodati e Ward è un frontman tra i più carismatici e simpatici in circolazione. Seppur penalizzata da suoni zoppicanti, non si può dire che quella dell’Hellfest sia stata una trasferta poco proficua per la band.
(Giovanni Mascherpa)
Il tendone che ospita il Temple si riempie lentamente ma inesorabilmente e più si avvicinano le 22, più il pubblico si fa silenzioso; quando fumi e luci soffuse annunciano l’inizio dello show si respira un’atmosfera tetra ed al contempo mistica, quasi che tutti siano pronti a partecipare al rito blasfemo che sta per iniziare. Già, perché sul palco ci sono i padri della celebre “seconda ondata” del black metal: i Mayhem. I tamburi e le dissonanze di “Silvester Anfang” sfociano, come consuetudine, in “Deathcrush” e la storia del metal estremo ci viene servita su un sanguinante piatto d’argento. Le chitarre stridono ai lati del palco, mentre Necrobutcher strappa note al basso, preparando l’arrivo dell’officiante del rituale. Con la sua voce inconfondibile, Attila fa il suo ingresso sul palco. Anche chi ha già assistito ad altri concerti dei Mayhem non può rimanere indifferente alla presenza scenica del frontman della band. Lo sguardo vagamente allucinato e carico d’odio, le movenze lente ed il modo di cantare incarnano il male puro, l’apparente calma trasmette follia e crudeltà, la sua sola presenza vale – in questo senso – più di mille dichiarazioni a effetto (come quelle del suo compagno di band Hellhammer). Si prosegue con “Symbols Of Bloodswords”, la prima parte di “To Daimonion” e “My Death” e, dunque, una serie di pezzi del periodo “post-Euronymous”. La band non pare curarsi dell’eco dei numerosi ex-membri che aleggia sul palco e prosegue imperterrita, saltando indietro nel tempo e continuando il suo oscuro monumento sonoro in onore del male; è il momento di “Carnage” e “Chainsaw Gutsfuck”, le luci proiettate da dietro la band verso il pubblico ed il fumo presente sul palco rendono i Mayhem delle sagome nere, degli spiriti dannati che tra l’iper-distorsione di Teloch e Hedger ed il pulsare mefitico del basso di Necrobutcher, riescono a creare un’atmosfera esoterica e trascendente, mentre il “solito” Attila esce dalle nebbie agitando un cappio. Gli esordi della band ora rievocati sono brutali, grezzi, quasi a-melodici eppure violenti e coinvolgenti. Si può discuterne quanto si vuole, ma questo gruppo trasmette, ancora oggi, qualcosa che ben poche band black metal hanno ed è ben percepibile quando inizia “Freezing Moon”, nero capolavoro dei blackster norvegesi. Quando la voce di Attila scandisce “I please my hunger on living humans” facciamo fatica a non credergli. Con l’evocazione di “De Mysterriis Dom Sathanas” ed il suo culto celebrato in onore di Satana, i Mayhem concludono il loro rituale e lasciano il palco. E’ ancora una volta Attila l’unico a fermarsi qualche istante, per tributare al pubblico il suo apprezzamento, levando la mano a formare le corna e fissando un punto indefinito oltre gli astanti. Quando tutto termina l’impressione è di aver assistito e, volenti o nolenti, partecipato ad un rituale blasfemo, officiato dalla magnetica presenza di Attila, coadiuvato da una delle più grandi black metal band di tutti i tempi e dall’alone di morte e suicidio che è inscindibilmente legata al nome del gruppo. Se nelle intenzioni di chi ha iniziato questo filone musicale il Male doveva sovvertire l’ordine, i Mayhem dimostrano, ancora una volta, di essere i profeti di questo messaggio, con una musica che, in quasi trent’anni, si è evoluta, si è trasformata più volte ma è rimasta ancorata a ciò che Euronymous, Necrobutcher e Manheim hanno saputo rendere fondante ed immortale con cento cassette dalla copertina fotocopiata. Loro, i padri, sono ancora devoti a quello spirito e, forse, davvero poco importa che di quei tre visionari solo Necrobutcher sia rimasto: basta un live a ricordarci chi sono i “creatori dell’oscurità nordica”.
(Lorenzo Ottolenghi)
OBITUARY
Finiti i fuochi d’artificio, per i quali quest’anno non si è badato a spese e si è dato vita a uno spettacolo a dir poco fragoroso, è ora di rientrare nei tendoni per gli ultimi colpi di reni di quest’estenuante giornata. L’Altar viene inghiottito dalle melmosità delle paludi floridiane, va infatti in scena uno degli ultimi esemplari rimasti dello US death metal più verace, gli Obituary. Lo scenario che i fratelli Tardy si trovano davanti agli occhi è quanto di meglio potessero sperare: privi di una concorrenza che possa ‘rubare’ spettatori (in contemporanea sono impegnati Scorpions e Triggerfinger) i deathster statunitensi raccolgono qualsiasi estremista non ancora andato a nanna. L’immutabilità stilistica è, nel caso degli Obituary, un vessillo da issare con orgoglio: anche nel modo di vestirsi, sembra che i Nostri siano uguali a dei personaggi dei fumetti e abbiamo nel guardaroba gli stessi abiti in un numero di capi incalcolabile. Donald Tardy col cappellino d’ordinanza calcato sul capo folleggia pensando più a colpire forte e preciso che a variare i colpi, ergendosi a martello pneumatico di una orripilante cascata di atrocità che, almeno dal vivo, non segnala impoverimenti qualitativi all’altezza dei pezzi più recenti. La calca davanti alle transenne assume contorni biblici sia per la vetrina concessa a “Inked In Blood” e agli altri dischi post-reunion (“Redneck Stomp”-“Centuries Of Lies”-“Visions In My Head” in apertura scorticano vivi), sia per le pietre miliari (“Infected” vomita disgusto come poche altre canzoni a questo mondo), valorizzate tutte quante da una forma a dir poco eccezionale. La coppia di chitarre attuale è degna di quella di “Slowly We Rot”, Kenny Andrews ha un suono gemellare a quello di Trevor Peres e si permette il giusto protagonismo negli assoli, senza invadere il raggio d’azione di nessuno. John Tardy ha adattato la voce alla minore potenza attuale, così da sostituire alle profondità animalesche degni Anni ’90 urla sporche che, se da un lato possono non essere considerate dei growl in tutti i loro crismi, hanno una carica sanguinaria che pochi altri singer extreme metal possono vantare. Un light show avvincente e la poca propensione alle pause accrescono col passare del tempo il clima euforico; neanche nella fase discendente dello show si colgono cali o istanti di stanchezza, così che quando arriva “Slowly We Rot”, la meglio accolta fra tutte le tracce proposte, ci accorgiamo con stupore di essere prossimi alla fine. Ora è scientificamente provato: suonare death metal arresta il processo di invecchiamento cellulare!
(Giovanni Mascherpa)
Setlist:
Redneck Stomp
Centuries of Lies
Visions in My Head
Infected
Intoxicated
Bloodsoaked
‘Til Death
Don’t Care
Violence
Back to One
Dead Silence
Back on Top
Inked in Blood
Slowly We Rot
TRIGGERFINGER
La vita da festival è davvero strana, ma lo realizzi solo alla fine del secondo giorno, quando ti accorgi che la scaletta che ti eri faticosamente costruito nei mesi di attesa dell’Hellfest è andata quietamente a farsi (ehm…) benedire, e tu siedi per terra, stremato, sotto il tendone del Valley eternamente aromatizzato alla cannabis. “Se avessi la forza”, pensi, “mi alzerei e andrei a vedermi l’ennesimo show d’addio degli Scorpions, “Still Loving You”, i fuochi artificiali e tutto il resto. Una volta nella vita andrebbe fatto”. Ma la forza non viene, ed allora ti guardi intorno, e cerchi di capire chi siano i Triggerfinger, e cosa ci faccia tutta quella gente, in piedi, intorno a te. Aspettano, è semplice. Attendono la più grande (e sconosciuta) band da party attualmente in circolazione. Questo trio di musicisti giocolieri si palesa sul palco (e ancora una volta il Valley si dimostra il luogo migliore per le esibizioni borderline, dopo quella di Woven Hand la sera prima) e scatena la festa. Li si potrebbe definire dei Queens Of The Stone Age con canzoni più riuscite (“Black Panic” su tutte), ma sarebbe una semplificazione che non meritano. I Triggerfinger sono una band onnivora in grado di assimilare ogni influenza senza forzature, passando dall’appeal pop di un singolo perfetto come “By Absence From The Sun” all’impressionante ‘capture and release’ di “My Baby’s Got A Gun (definita non a caso dal gruppo una ‘ZZ Top vs Killing Joke’). Tecnicamente perfetti e mai meno che roventi nell’esecuzione,i Triggerfinger si permettono qualche esibizione gigionesca, su tutte l’assolo del funambolico batterista mentre gli altri componenti giocano con l’impianto luci, evitando tuttavia ogni scorciatoia verso l’applauso: non a caso il loro unico singolo di successo, la cover semiacustica di “I Follow Rivers” di Lykke Li rimane coraggiosamente esclusa dalla scaletta. A fine concerto rimane la sensazione di aver visto un gruppo all’apice della forma e pronto a fare il grande salto sul main stage. Per il sottoscritto, uno dei concerti più soddisfacenti del festival (e dell’anno).
(Stefano Protti)
Lasciamo con rammarico l’Altar superata la metà dell’esibizione degli Obituary per recarci al Warzone per garantirci un posto “sicuro” per l’esibizione dei Biohazard: scottati dall’impossibilità di assistere all’esibizione dei Body Count – per via delle difficoltà d’accesso alla zona dovuta all’eccessiva massa di persone accorse in contemporanea – abbiamo preferito muoverci d’anticipo, e a conti fatti non ci lamentiamo della scelta fatta. Precisi come orologi svizzeri i newyorkesi salgono sul palco attaccando con “Wrong Side Of The Tracks” ed il Warzone si tramuta in un vero e proprio campo di battaglia: pogo indemoniato, crowd surfing, mosse hardcore in ogni zona del palco, il tutto orchestrato da un Billy Graziadei assolutamente indemoniato. Letteralmente incredibile l’energia che i quattro riescono a portare on-stage: il roteare vorticoso di Scott Roberts ed il suo basso, gli ormai mitici passi di Bobby Hambel e la furia dietro al drumkit di Danny Schuler non sono veramente secondi a nessuno. La scaletta prende a piene mani da tutta la discografia della formazione prediligendo, come prevedibile, i primi tre album: “Shades Of Grey”, “Urban Discipline” e le storiche “Tales From The Hard Side” e “Down for Life” vengono eseguite con una veemenza e convinzione che farebbe impallidire qualunque giovane formazione nel pieno delle proprie forze. Durante l’esecuzione di “Resist” Billy mette in palio due magliette commemorative dell’evento per i primi due ragazzi del pubblico che arriveranno sul palco: come era logico prevedere, nel giro di qualche minuto il palco diventa una bolgia infernale tra decine – ma si arriverà velocemente al centinaio – di persone che pogano, fanno crowd surfing e partecipano alle backing vocals, mentre la band, noncurante, suona a bordo palco posizionandosi a lato delle spie. Alla fine di “Love Denied”, per ovvi motivi di sicurezza, iniziano le operazioni di sgombero palco che perdureranno per qualche minuto, ma che non riusciranno in alcun modo a stemperare l’elettricità che si è creata ad inizio show. Il finale di concerto – se si esclude la gettonatissima “Punishment” – è completamente dedicata alla riproduzione dei brani dell’omonimo debut dove si susseguono senza sosta “Howard Beach”, “Victory” e viene decretata la conclusione dello show con la granitica “Hold My Own”. Il quartetto si ferma qualche istante per ringraziare di cuore tutti i presenti e per aver mantenuto sempre vivo l’interesse nei confronti della band con il passare degli anni e delle mode. Ce ne andiamo con il sorriso sul volto per aver partecipato ad uno degli show più devastanti – e sinceri – di quest’edizione dell’Hellfest: Biohazard, una garanzia assoluta!
(Fabio Galli)