Report a cura di Fabio Galli, Giovanni Mascherpa, Lorenzo Ottolenghi, Stefano Protti
Foto a cura di Federico Rucco, sito ufficiale Hellfest (http://www.hellfest.fr), Miquel Raga (https://www.flickr.com/people/miquelraga/), Fred Moocher (http://www.hardforce.fr/, https://www.flickr.com/photos/moocherphoto/), Giovanni Mascherpa
Siamo giunti alla fine del nostro viaggio all’interno di quanto accaduto nel corso dell’Hellfest 2015, con il report del terzo giorno della manifestazone. Potete leggere i report al primo e al secondo giorno a questi link:
HELLFEST 2015 – primo giorno
HELLFEST 2015 – secondo giorno
TRIBULATION
Dopo le ottime prove su disco la formazione svedese dei Tribulation viene chiamata a calcare le assi dell’Altar poco prima dello scoccare del mezzogiorno. Dopo una certosina preparazione dell’altare – con l’accensione di incensi e qualche macabro feticcio attaccato all’asta del microfono – l’introduzione di “Strange Gateways Beckon” segna l’entrata in scena della formazione agghindata di tutto punto. Come era lecito prevedere, tutte le attenzioni della band sono riposte nel nuovo “The Children of the Night”, che monopolizza in toto la prima parte della setlist: “In the Dreams of the Dead”, “The Motherhood of God” riescono senza troppi problemi a ricreare l’aurea uscura e catacombale dell’immaginario della formazione, anche se fuori dal tendone il sole splende alto e forte. Johannes Andersson al basso e microfono fa il suo dovere senza strafare, mentre tutte le attenzioni sono sul duo alle chitarre Hultén/Zaars, che con i loro movimenti sinuosi e pose plastiche controbilanciano alla perfezione la forzata immobilità del frontman. Ad aumentare ulteriormente la teatralità dell’esibizione contribuisce la quasi totale assenza di pause e contatto con il pubblicom atta quasi a garantire una corretta esecuzione del rituale: i suoni assolutamente perfetti sin dall’inizio della performance – aiutati dalla bassa distorsione delle chitarre – si sono dimostrati un perfetto complemento ad uno show esente da difetti, ma purtroppo eccessivamente breve. “When the Sky Is Black With Devils” dichiara l’effettiva conclusione dello show con la band che saluta con un inchino tutti i presenti: vista la qualità e varietà dei rilasci della formazione ci si aspettava forse un posizionamento più alto in scaletta, ma vista il livello dello spettacolo offerto non ci sentiamo di questionare ulteriormente. Oltre che su disco i Tribulation si dimostrano una band di notevole interesse anche sotto il profilo live: attendiamo con ansia un tour da headliner per goderci un’esibizione più corposa di questa talentuosa nuova promessa svedese.
(Fabio Galli)
THE GREAT OLD ONES
I The Great Old Ones giocano in casa e non vogliono assolutamente sfigurare di fronte ai molti connazionali che affollano il Temple: una grossa scultura metallica posta centralmente al palco ed un telone raffigurante H.P. Lovecraft sono gli unici elementi di decoro atti a rendere più lugubre ed inquietante l’atmosfera dell’esibizione. I The Great Old Ones entrano uno ad uno sul palco, rigorosamente incappucciati, accompagnati da “Je Ne Suis Pas Fou”, introduzione alla loro ultima fatica “Tekeli-Li”: i suoni, purtroppo, nelle fasi iniziali dello show sono tutt’altro che eccezionali, tanto da compromettere i momenti più concitati dell’epica “Antarctica”. Sono le lunghe parti strumentali a traghettare l’intera esibizione, spezzata solamente dall’alternarsi al microfono dei due chitarristi Benjamin Guerry e Jeff Grimal; con l’approssimarsi dell’esecuzione di “The Elder Things” i suoni vanno man mano migliorando e iniziamo ad apprezzare i dettagli dei brani, fedelmente riproposti grazie alla presenza della terza chitarra di Xavier Godart. Ridotta ai minimi termini l’attività su palco e l’interazione con il pubblico: ancorati saldamente alle posizioni scelte ad inizio prestazione, i Nostri non si dimostrano dei grandi intrattenitori, lasciandosi andare di rado in qualche timido headbanging e prediligendo la fedeltà nell’esecuzione ad un approccio più fisico. Com’era logico prevedere tutte le attenzioni della band sono mirate all’esecuzione dei brani dell’ultimo nato “Tekeli-Li”, includendo unicamente “Visions Of R’lyeh” a rappresentare il debutto “Al Azif”. Sulle note della lunga e ricercata “Behind The Mountains” – degno compendio delle sonorità dei TGOO – la band francese saluta gli astanti conscia di aver lasciato il segno: sicuramente dal punto di vista della presenza scenico si poteva fare qualcosa in più, ma deve essere dato merito alla band di essere riuscita a trasportare gli spettatori nelle folli atmosfere ispirate da Lovercraft. Una gradita conferma.
(Fabio Galli)
I Red Fang ritornano all’Hellfest dopo essersi conquistati una (meritata) popolarità in patria, e trovano un main stage strapieno ad attenderli, nonostante l’orario infame ed il caldo. Gli americani ringraziano, e si dimostrano la macchina da guerra che tutti speravano: efficiente, preparata e seria. L’ironia sparsa a piene mani nei video che li ha resi famosi qui non viene minimamente utilizzata, basta la loro musica ad accendere gli animi. Brani come “Hank Is dead”, “Prehistoric Dog” o “Wires” sono gioielli in magico equilibrio tra il gusto della melodia e lo stoner più gustoso, mentre la resa di un pezzo come “Malverde” mostra come i ragazzi siano a loro agio anche alle prese con atmosfere più tipicamente doom. Un concerto più che soddisfacente, niente da dire. Peccato solo che il loro stile mal si adatti alla resa sonora di un mainstage, e quella che dovrebbe essere la loro soddisfazione più grande finisce per limitarli. Fossero finiti in un palco minore, il loro sarebbe stato probabilmente uno dei concerti dell’anno.
(Stefano Protti)
CARACH ANGREN
La sorpresona del festival, a titolo strettamente personale, è rappresentata dagli olandesi Carach Angren. Nel giro di quattro dischi (in sette anni) hanno scalato le graduatorie del symphonic black metal e si sono installati nelle prime posizioni di questa nicchia di mercato, a dire il vero un po’ in calando – e non da oggi – nelle preferenze degli extreme metaller. Diciamo che un concerto come quello dell’Hellfest, con la sua avvampante teatralità, gli imprevedibili cambi di scenario, l’ostentazione di una malignità grandguignolesca, può diventare un ottimo volano per lanciare una band verso una popolarità di rilievo. Privi di un bassista di ruolo – fortunatamente le basi usate per il basso non creano scompiglio – i quattro affrontano l’audience con spavalderia, forti di un frontman che sa muoversi e interagire con consumata professionalità attoriale. Il dedalo di atmosfere orrorifiche presente negli album, sviluppantisi di norma tramite torbidi capitoli di un romanzo gotico pieno di colpi di scena, viene riproposto con tracimante cattiveria e precisione; non vi sono semplificazioni, riarrangiamenti, pasticci che possano limitare il notevole potenziale atmosferico messo in mostra nelle prove in studio, l’ultima delle quali, “This Is No A Fairytale”, è uscita proprio questa primavera. Ogni canzone si snoda tortuosa fra strappi thrasheggianti, orchestrazioni aggressive, blast-beat inesorabili, con la sei corde, la batteria e le tastiere a prendere a turno il comando delle operazioni con idee sempre nuove e mai ripetitive. Seregor si divide tra un cantato gracchiante alla Dani Filth, recitativi, semi-growl, sobillando il ‘popolo’ davanti al palco con una presenza scenica degna dei frontman di razza appartenenti a contesti meno estremi. Notiamo, dalla reazione all’annuncio dei singoli pezzi che si andranno a sentire, quanto i Carach Angren abbiano conquistato in poco tempo uno zoccolo duro di fedelissimi, che non si fanno pregare quanto a incitamenti, in particolare quando si va a pescare nel catalogo passato della formazione. Proposta complessa e avvincente, quella di questi black metaller, accasatisi dal 2012 presso la Season Of Mist, label che anche in questo caso sembra essersi accaparrata un bel manipolo di talenti.
(Giovanni Mascherpa)
NE OBLIVISCARIS
L’esibizione in contemporanea dei Dark Tranquillity avrà sicuramente calamitato molti amanti del death melodico verso il Main Stage, ma la folla che si raduna nel Temple assicura comunque agli australiani Ne Obliviscaris un pubblico più che dignitoso. Immediatezza ed impatto non giocano sicuramente a favore della formazione di Melbourne: fortunatamente i ragazzi la buttano sul piano del divertimento e sin dalle prime note di “Devour Me, Colossus (Part I)” appare chiaro che i cinque hanno una voglia matta di divertirsi e di coinvolgere i presenti. Si sprecano i sorrisi ed i gesti di incitamento elargiti da Benjamin Baret alla chitarra e Tim Charles alla voce/violino nei confronti del pubblico, che non tarda a lasciarsi coinvolgere dal turbinio sonoro messo in scena dalla band. Tra headbanging e lunghe e sognanti parti strumentali rimaniamo piacevolmente rapiti dall’ottima presenza scenica del sestetto, per nulla intimorito dalla prolissità dei propri brani. Grazie all’ottimo lavoro dei fonici – incredibile la resa sonora dell’intero festival – pur posizionandoci tra le prime file il suono degli strumenti rimane sempre nitido e ben comprensibile per tutte le fasi dell’esibizione, garantendoci un totale appagamento uditivo. Tim Charles si destreggia abilmente tra microfono e violino stando sempre e comunque in prima linea quando non ci sono parti che lo coinvolgono direttamente: anziché nascondersi nelle retrovie incita il pubblico e si lancia in headbanging supportando a dovere le parti più intense delle lunghe cavalcate strumentali. Come era lecito attendersi è stato l’ultimogenito “Citadel” a catalizzare la maggior parte delle attenzioni in scaletta, anche se in chiusura l’inclusione della splendida “And Plague Flowers The Kaleidoscope” – introdotta dalla sognante melodia dipinta da Tim Charles – ha scatenato un vero tripudio di applausi da parte dei presenti. Pur riuscendo ad includere nella setlist soltanto quattro brani – vista anche la durata biblica dei singoli episodi – i Ne Obliviscaris tornano a casa assolutamente vincitori, riuscendo a fugare ogni dubbio sulla possibile resa dal vivo dei loro brani: simpatia, abilità tecniche e capacità di intrattenimento hanno giocato a favore della formazione australiana, che nei quaranta minuti a disposizione ha saputo giocare le proprie carte migliori divertendosi e facendo divertire tutti i presenti.
(Fabio Galli)
KHOLD
L’ingresso sul Temple di Gard vorrebbe essere scenografico, ma è quasi buffo: vestito col suo bel palandrone nero lungo fino ai piedi, incurante del caldo, il leader cammina circospetto per lo stage guardandosi attorno con un’espressione stranita, rompendo il silenzio con la sua chitarra. Una volta assisosi dietro il microfono, compaiono anche gli altri componenti dei Khold e il concerto può prendere vita nelle modalità consuete. Lo storico combo norvegese, portatore insano di un black metal ragionato e non esente da piccole aperture alla modernità, si presenta col ben noto face painting ‘smezzato’: parte superiore del volto, più o meno fino agli zigomi, bianca, parte inferiore del viso nera. Una scelta originale nel look che contribuisce ad attirare le orecchie più distratte, magari non proprio così disponibili, nel primo pomeriggio, a seguire con trasporto le trame non sempre scorrevoli della formazione. La quale sembra divertirsi a suscitare equivoci, a dare di sé un’immagine indecifrabile: accanto a passaggi di black metal nichilista si sviluppano infatti parentesi rallentate e meditabonde, fredde e claustrofobiche come quelle di un act industrial, se non fosse che i Khold non si permettono di contaminare con alcuna effettistica il proprio ricettacolo di sinistre desinenze nerastre. Pur non soffiando sul fuoco dell’avanguardismo, i cinque offrono uno spaccato black metal lievemente evoluzionista, contornato da taglienti digressioni thrash e uno sconcertante gelo nell’azione. In questa musica si riflette la vecchia scena norvegese, i capricci atmosferici della fase ‘adulta’ del genere, l’asciuttezza di chi sa come e dove colpire economizzando nella spesa energetica. Non saranno travolgenti alla pari di altri nomi storici del black metal andati in scena sul Temple, ma i Khold testimoniano con atti evidenti il peso specifico di una discografia importante e non così facilmente trascurabile. E quando Gard rimane solo e riattacca con la litania graffiante udita in apertura, il silenzio quasi si trattiene dal riprendere pieno possesso dell’ambiente, un po’ intimorito dalla scafata attitudine alla nefandezza di questo sinistro personaggio.
(Giovanni Mascherpa)
Ed eccola qui, la nostra Madeleine Proustiana, il nostro ricordo di gioventù riaffiorante da un passato neanche così distante, eppure in fase di inarrestabile allontanamento. Ci guardiamo attorno e non vediamo nessuno con l’aria da ‘sbarbato’: ci sono soltanto ultratrentenni, i The Crown si sono sciolti troppo presto per attecchire tra gli ascolti dei ventenni di oggi, i quali in questo terzo e ultimo pomeriggio a Clisson trascurano gli svedesi a favore dei ben più rinomati Exodus, in scena in contemporanea sul Mainstage 2. Questo provoca vuoti allarmanti davanti all’Altar, rendendo di fatto il concerto una ricorrenza quasi ‘famigliare’ – Johan Lindstrand potrebbe essere benissimo quel compagno d’università emigrato in Sudamerica dieci anni prima, è irriconoscibile! – con i cinque svedesi che, lo percepiamo in pochi istanti, suonano come se dovessero recuperare in poche decine di minuti tutti gli anni fuori dalle scene. Da vecchi furboni quali sono, i The Crown mettono in apertura la titletrack del loro disco più acclamato, “Deathexplosion”. La poca affluenza trasforma il mosh in una semplice gara di spintoni tra pochi individui, ma l’effetto, per chi attendeva da anni di risentire questo brano al massimo del suo fulgore, è quello dell’avvampare improvviso di un incendio laddove un attimo prima vi era solo tranquillità bucolica. L’ansia da prestazione offusca leggermente la precisione, la coppia d’asce tende a sovrastare con moti convulsi il leggendario piglio rock’n’roll; dettaglio di poco conto, a conti fatti, perché se l’intento era quello di guadagnarsi subito un clima da stadio, il risultato viene centrato in pieno. Lindstrand è in buone condizioni vocali, è rimasto la belva ignorante e viziosa che conoscevamo; i suoi compari non gli sono da meno, sbattono la testa a tempo come chi gli sta davanti, con la genuina gioia di essere tornati in sella per restarci. Funzionano bene anche i (pochi) pezzi nuovi proposti, un po’ più canonici nel seguire il canovaccio del death/thrash ‘alla svedese’, anche se gli entusiasmi incontenibili arrivano per forza di cose dal materiale datato. “Rebel Angel” assume i contorni di un inno generazionale e fa schiattare quel poco di voce rimasta dopo tanti giorni a urlare sotto i palchi, “Total Satan” viene invece un po’ sporcata per la troppa frenesia in corpo ai musicisti, che l’affrontano a velocità smodata e finiscono per combinare un po’ di confusione nei passaggi-chiave. Poco importa, rivedere i The Crown è stato come ritrovare dei vecchi amici di cui si avevano perso le tracce, e se non è scesa una lacrimuccia di commozione a noi e a loro è giusto per mantenere quel minimo di bon-ton da metallari ruvidi, restii ad esprimere i propri sentimenti. Titola profeticamente l’ultimo disco: “Death Is Not Dead”. Niente di più vero, niente di più vero…
(Giovanni Mascherpa)
GRAVE PLEASURES
Il cambio di line-up avvenuto a marzo e il conseguente mutamento di ragione sociale da Beastmilk a Grave Pleasures non ha fatto deviare di una virgola gli autori di “Climax” dai propri programmi. L’inserimento alla seconda chitarra di JuhoVanhanen al posto del defezionario Johan ‘Goatspeed’ Snell si è rivelato rapido e indolore, e nell’attesa del nuovo disco in programma per settembre la band ha finalmente affrontato le platee dei più conosciuti open air. D’altronde il primo album ha trovato estimatori un po’ dappertutto e abbiamo già avuto modo di verificare l’ottima tenuta scenica dei cinque nel recente tour assieme agli In Solitude. Basta quindi pochissimo per ottenere acclamazioni bulgare ed entusiasti cori di risposta alle mega-hit propinateci in questi pochi anni di vita: “Death Reflects Us” e “Surf The Apocalypse”, come qualsiasi altro estratto dei due ep e dell’unico full-length hanno unito le generazioni e le tipologie di ascoltatori più disparate. Il magnetismo di questi pezzi non lascia scampo e induce a una partecipazione corale, a una comunione devota con i musicisti. Kvohst è il cantore unico, si agita e vibra di tutta la passionalità infusa nella musica, prende per mano i suoi compagni e li trascina nel surreale clima di pacificata rassegnazione post-atomica emanato in ogni nota. Live il combo non perde nulla del suo formidabile effetto-trascinamento, la vocalità del leader risuona ancora più sicura e potente che nella data milanese dell’ottobre scorso e tutto il gruppo interpreta con pathos e determinazione fuori dal comune il suo repertorio. L’offuscante parabola seduttiva di Cure e Sisters Of Mercy trova la sua traduzione in ambito heavy tramite movimenti chitarristici torrenziali, con la sei corde dell’algida Olsson a strimpellare flebili melodie portatrici di una tristezza antica, in un equilibrio labile, in procinto di fratturarsu e portare a conseguenze irreparabili da un momento all’altro. Tra gli elementi già noti, affiorano due ghiotte anticipazioni del nuovo lavoro: leggermente più ragionate e di atmosfera rispetto al materiale di “Climax”, le nuove tracce (di una carpiamo il titolo, “Lipstick On Your Tombstone”) rifulgono immediatamente della capacità dei Nostri di indovinare l’aggancio melodico più efficace e di girarci attorno con naturalezza per esaltarlo, evolverlo e tramutarlo in qualcosa di più grande e magnifico: se il resto sarà sulla stesso livello, prepariamoci ad un altro capolavoro. Notiamo infine che le linee della Olsson sono state alzate di livello rispetto alle ritmiche, dando un risalto diverso ai differenti strati di suono che compongono i pezzi. Nulla di sbagliato o di insufficiente da segnalare, i Beastmilk con “Love In A Cold World” chiudono un’esibizione di ammaliante poesia, ulteriore consolidamento a una carriera che sta prendendo letteralmente il volo. Per arrivare dove, ora come ora non ne abbiamo idea!
(Giovanni Mascherpa)
EYEHATEGOD
Rimessa (forse) in bolla la testa di Mike Williams, dato per afflitto da problemi di salute mentale a inizio anno, gli Eyehategod hanno potuto impegnarsi in quello che gli riesce meglio: mandare in overdose di malessere i palchi del pianeta. Gli sludge-hero della Louisiana non si permettono sconti nemmeno all’Hellfest, bissando la tossicissima performance del 2011, anno in cui risultarono tra i migliori dell’intera manifestazione. In un’epoca dove il viver sano, le abitudini salutiste, la demonizzazione dei vizi sono i nuovi cardini della società occidentale, fa piacere osservare tanta genuina strafottenza da parte di uno come Jimmy Bower, perennemente con la sigaretta in bocca, l’aria di essere ancora in post-sbornia, un estro chitarristico con pochi eguali tra i profeti del sound sudista. Williams ha sempre l’aria di chi debba stramazzare al suolo da un momento all’altro, barcolla, si aggrappa al microfono quale unico appiglio all’esistenza: quando canta, però, tutte le debolezze spariscono, l’odio totale per il pianeta e la sua umanità contaminano ogni parola, la inacidiscono, la fanno appassire come se fosse colpita da una sostanza nociva. Con meno carisma da buttare nella mischia, ma imbevuti della medesima riluttanza a vivere in pace coi propri simili, gli altri membri della band insozzano di grumi limacciosi l’accogliente tendone del Valley. Per un’ora respiriamo soltanto degrado, povertà, frustrazione e sporcizia, un’abiura completa del progresso a favore della condizione più miserevole possibile dell’individuo. Aaron Hill si distingue per un drumming corposo e fedele all’operato del compianto Joe LaCaze, Patton rinfocola le derive di Bower e Mader partecipa alla sagra del disagio con un lavoro poco appariscente ma fondamentale. Una “Medicine Noose” live fa tutto un altro effetto, non scontando inferiorità col materiale più datato, “New Orleans Is The New Vietnam” può essere considerato un nuovo immondo inno da trascinare avanti e indietro per il globo, mentre “Sister Fucker” è l’ultimo chiodo sulla bara dove sono custodite le nostre speranze. Meglio seppellirle in attesa di tempi migliori, sembrano dirci gli Eyehategod. I più agitati si danno battaglia per tutta l’ora di concerto, la parte restante del pubblico assiste piacevolmente inorridita. E rassicurata, perché senza gli Eyehategod il mondo sarebbe un posto ancora peggiore e non ci sembra il caso di correre un rischio del genere.
(Giovanni Mascherpa)
Nel panorama heavy metal internazionale ci sono band avare, che distillano i loro concerti come un’amara medicina, una goccia alla volta. E ci sono gruppi generosissimi, prodighi nei confronti dei fan, in perenne movimento e pronti ad appagare la sete di musica dei propri adepti. Alcuni appassionati sono insaziabili, si sa, ma quando seguono certi gruppi, sanno di poter essere soddisfatti quando vogliono. Così accade per i Cannibal Corpse, una vita in tour, un’esistenza dedicata al death metal e un’ispirazione ancora altissima, come testimoniato dal recente “A Skeletal Domain”. Volete che non ci sia un posticino per i deathster di George ‘Corpsegrinder’ Fisher all’Hellfest? Certo che no! Un poco arretrati nello slot rispetto al 2013, quando in serata furono protagonisti di una macelleria di proporzioni pantagrueliche, questa volta salgono sul palco con la luce del sole. Si prendono il tempo per carburare, con un paio di mid-tempo sparati uno di seguito all’altro, “Scourge Of Iron”-“Demented Aggression”, e quindi ingranano la consueta marcia di trituramento. Tutti e cinque schierati in fila dinanzi ai monitor, non lesinano in headbanging e muscolarità, frapponendo idealmente davanti al palco una muraglia di cadaveri in avanzato stato di decomposizione. Passano gli anni, e i CannibalCorpse restano una delle live band più affidabili in circolazione: precisi, ferocissimi, in grado di scatenare le stesse compulsive manie patologiche, le stesse turpi passioni dei primi anni in cui si affacciavano sulla scena. I miglioramenti tecnici di tutti i musicisti fanno sì che le storiche “Stripped Raped And Strangled”, “A Skull Of Maggots”, Devoured By Vermin”, “I Cum Blood” (introdotta come “una canzone d’amore”) non possano mai sembrare numeri di routine. Dopo tutti questi anni, un leggero atteggiamento da ‘timbro del cartellino’ potrebbe anche esserci. Invece niente. Ed è sempre un piacere commuovente vedere Corpsegrinder, vocalmente favoloso, scatenarsi in un ‘ventilatore’ dal numero di giri triplo del più sofisticato apparecchio in commercio avente la funzione di movimentare l’aria. Perché anche le leggende, per rimanere tali, non si possono fermare, e debbono rinsaldare ogni giorno il profondo legame con la propria storia e la propria identità. Inutile dirvi che, tra sostenitori storici, avventori occasionali, gente che ascolta tutt’altro ma vede nella band uno dei migliori simboli possibili dell’estremismo in musica, l’Altar trabocca di gente, e assistere alla marea di corpi battaglianti nelle prime file sia una magnificenza. Una lectio magistralis in death metal.
(Giovanni Mascherpa)
Setlist:
Scourge of Iron
Demented Aggression
Evisceration Plague
Stripped, Raped and Strangled
Kill or Become
Sadistic Embodiment
Icepick Lobotomy
I Cum Blood
Make Them Suffer
A Skull Full of Maggots
Hammer Smashed Face
Devoured by Vermin
SAMAEL
Gli anni passano e si arriva al punto di guardarsi alle spalle con nostalgia e rispetto per il proprio passato, per quelle gesta immortali che hanno permesso a delle persone qualunque di diventare icone viventi del metal estremo. Non ultimi in questo percorso di autoanalisi, celebrazione, se vogliamo anche regalia nei confronti dei fan, ecco i Samael. Il 2015 è stato eletto ad anno dedicato a “Ceremony Of Opposites”, il primo punto di rottura col black metal, la svolta epocale nella direzione di un sound cosmico, visionario, proteso alle stelle piuttosto che agli Inferi. Oscurato negli anni dalla sagoma dell’ingombrante capolavoro “Passage”, gli svizzeri ridanno il dovuto peso nella loro storia al predecessore del loro disco-simbolo. All’Hellfest, come in qualsiasi altra data dell’anno, l’album del ’94 viene suonato per intero dalla prima all’ultima nota, in rigoroso ordine di tracklist. L’assenza di qualsiasi calcolo o furbizia da ufficio marketing la percepiamo subito, già con “Black Trip”. Il viaggio sarà lungo e tempestoso, se vogliamo neanche poi così nero. I contorni ruvidi delle tracce in studio sono in buona misura divelti e modificati secondo l’ottica avanguardistica delle pubblicazioni successive, gli arrangiamenti prendono una piega più folle e indiavolata; questo sarebbe ancora niente, in rapporto all’impeto di tutti e quattro gli strumentisti. I Samael sono sempre stati una live band formidabile, ma questa volta vanno oltre. Nessun ritegno, nessun freno, nessuna posa studiata nella gestualità iraconda di Vorph e compagni: il leader è un fascio di nervi, un killer sadico e preciso davanti al quale nessuno potrebbe sopravvivere. Il volto, solcato dalle rughe dello sforzo fisico, comunica un’ardore inarrestabile, contrapposto al vistoso trucco sotto gli occhi e all’orribile capello biondo platino. Molto in tema il face painting di Makro, faccia metà bianca e metà nera, con un effetto simile al Due Facce di Batman. In rapporto alle versioni originarie, tutte le composizioni acquistano una vigoria sovrannaturale, implacabile: Xy magnifico a tastiere e drum machine, mano aperta a schiaffeggiare i tasti in tocchi sullo strumento dolci come clavate, non è inferiore al fratello quanto a foga. Il concerto prende una deriva isterica, si scatenano uragani di beat, solennità, sciabolate chitarristiche al cianuro, sublimate da volumi bestiali che nulla sacrificano alla precisione. Le arringhe di Vorph colgono sempre nel segno, arrivando a punti di fervore inconsulto durante “Baphomet’s Throne” e “Flagellation”. Quel che rimane da vivere non è da meno, perché da “Passage” giungono “Rain”, “The One Who Came Before” e “My Saviour”, inframmezzate dalla recente “The Truth Is Marching On”. La superomistica chiosa di “My Saviour” (‘I Am Immortal, I Am Glorious, I Am Supreme, I Am My Saviour’) afferma la supremazia dei Samael, l’unicità del loro pensiero, la strabordante intensità promanata ancora oggi. Concerto perfetto.
(Giovanni Mascherpa)
Setlist:
Black Trip
Celebration of the Fourth
Son of Earth
Till We Meet Again
Mask of the Red Death
Baphomet’s Throne
Flagellation
Crown
To Our Martyrs
Ceremony of Opposites
Rain
The Ones Who Came Before
The Truth Is Marching On
My Saviour
SAINT VITUS
I Saint Vitus nell’ultimo quinquennio hanno visitato i palchi più importanti del Vecchio Continente tenendo un ritmo di concerti altissimo: hanno sfruttato al massimo il rinnovato interesse per il doom fumoso di scuola settantiana e loro che ne sono i maestri, il gruppo doom per antonomasia assieme ai Black Sabbath, non potevano che giovarsi di tutto questo fervore serpeggiante nella scena. Quando chiamati in causa, questi attempati doomster hanno prodotto prestazioni incandescenti, con il duo maledetto Chandler-Weinerich a intossicare e storpiare le anime tramite un carico di depressione e pessimismo difficile da replicare con altrettanto realismo da chiunque altro. Carisma e classe hanno dilaniato fan giovani e di lunga data, prima che il fulmine a ciel sereno dell’uscita temporanea dalla line-up di Wino a fine 2014, per curare le sue annose dipendenze, facesse rientrare in gioco Scott Reagers, cantante nei primi due dischi e poi saltuariamente dietro il microfono anche in anni successivi. Così, quest’anno i Saint Vitus hanno colto la palla al balzo e si sono ripresentati in una veste che per la maggior parte dei loro fan era totalmente inedita dal vivo. Reagers è un cantante e un personaggio diverso da Wino: non ne può avere il tremebondo carisma, Wino in questo è impareggiabile, ma la voce gli regge benissimo, non è visto come un intruso dal pubblico e sa quale deve essere il comportamento del frontman dei Saint Vitus. Nel tour precedente i californiani avevano reso omaggio a “Born Too Late”, suonato per intero, in quest’occasione il grosso della setlist arriva dai primi due album in studio. Oltre alla voce, ci sono anche altre diversità da segnalare: la band porta il suono verso una narcolessia strisciante, un immobilismo arcaico ancora più evidente. La distorsione inconfondibile di Chandler rasenta spesso il puro rumore, eco di un’epoca lontana, pionieristica: un rauco rombo che riverbera in un tempo smisurato, illimitato, non misurabile secondo canoni temporali umani. La chitarra si dibatte tra effetti antichi negli assoli hendrixiani, ondate di watt urlanti che, sebbene arcinote per gli ascoltatori di lungo corso, lasciano sempre a bocca aperta. Reagers, sempre più sicuro col passare dei minuti, interpreta sicuro quei piccoli santuari consacrati alla musica del destino a nome “Zombie Hunger”, “White Magic/Black Magic”, “Burial At Sea”, “Saint Vitus”. L’insieme è scarno, uniforme, crea un clima di perenne attesa che non suona affatto ansiogeno o snervante, piuttosto una lentissima marcia nel nulla esistenziale. Anche con Weinereich la risposta sarebbe stata all’altezza, ma la relativa novità dell’evento spinge il pubblico a una reazione calorosissima. Con “Born Too Late” si chiude splendidamente l’ennesima sagra di martellate doom. Massimo rispetto.
(Giovanni Mascherpa)
Setlist:
Dark World
One Mind
Zombie Hunger
War Is Our Destiny
White Magic/Black Magic
White Stallions
Burial at Sea
Saint Vitus
Born Too Late
E’ quasi un percorso a ritroso quello che si conclude sul palco del Temple il terzo giorno dell’Hellfest. Dopo l’ottima prova, durante la prima sera, dei Satyricon, forse una delle black metal band più impattanti dal vivo (chi scrive non ama i dischi del gruppo da “Nemesis Divina” in poi, ma ha imparato ad amare i Satyricon per la potenza che Satyr e Frost trasmettono live), dopo l’empio e blasfemo rituale perpetrato dai Mayhem la sera successiva, la terza ed ultima notte dell’Hellfest ci porta là, dove tutto ha avuto inizio, dove è nato l’underground più cupo ed estremo, dai Triptykon, terza incarnazione del sound di Tom Warrior, dopo Hellhammer e Celtic Frost. Con una buona ora di anticipo sull’inizio del concerto prendiamo posto in transenna ed attendiamo, quindi, l’esibizione di un personaggio su cui non è certo necessario spendere parole. La band inizia con un pezzo dei Celtic Frost (“Procreation Of The Wicked”) ed è subito un trionfo tributato dal pubblico alla band; le note immortali dell’EP “Morbid Tales” con cui i Celtic Frost si presentarono al mondo restano attuali e lo stacco con “Tree Of Suffocating Soul” (dall’ultima fatica dei Triptykon) è minimo. La band è in gran forma: Viktor e Vanja (rispettivamente alla chitarra ed al basso) non sembrano in difficoltà nel passare dai “loro” pezzi a quelli dell’ingombrante passato di Tom Warrior e così, come terzo pezzo, arriva “Circe Of The Tyrants”. La mente va ai concerti degli ultimi giorni ed è evidente come, in qualche misura, praticamente ogni band che si sia esibita ai palchi di Temple e Altar debba qualcosa all’uomo che si sta esibendo ora ed ai suoi inconfondibili “uh!”. Si prosegue con “Goetia” ed il suo feeling così vicino al doom più estremo, seguita da “Altar Of Deceit”: quasi venti minuti per due pezzi (il secondo leggermente rallentato rispetto al disco, secondo uno schema che la band propone sempre dal vivo). La parte centrale dello show è ipnotica e travolgente e ci dimostra che il metal estremo non è fatto, per forza, di velocità e vocalizzi “sporchi” (anche se Warrior e V. Santura cedono spesso a dei brevi scream). Tutto il gruppo dimostra, ancora, di essere molto affiatato, non trovando particolari difficoltà nei complessi intrecci di questi pezzi (anche se un paio di piccole imprecisioni ci sono, ne è prova un piccolo “fraseggio” tra Warrior e Vanja che si è notato forse solo dalle prime file, in cui il primo ha coperto un paio di sviste della seconda). E’ ora di tornare al passato, così arriva “The Usurper” con un arrangiamento nuovo, sopratutto nel chorus, che forse inizialmente spiazza un po’ i fan più accaniti, ma che rende il pezzo più omogeneo all’interno della setlist propoposta; si tratta comunque di uno dei cavalli di battaglia dei Celtic Frost ed il pubblico gradisce e partecipa. La chiusura è lasciata ai venti minuti di “The Prolonging”, una suite che abbraccia doom, thrash e black metal, un inno di odio misantropico ed anti-religioso che prende forza dal soccombere altrui. Così, con questa maratona che racchiude tutte le anime della musica di Warrior e che è resa perfettamente dal vivo grazie (ancora una volta) agli ottimi suoni, termina il concerto dei Triptykon. Mentre ancora aleggia l’ultimo proclama del gruppo (“As you perish, I shall live”), si conclude la parte più estrema dell’Hellfest e, ci sentiamo di dire, nessuno meglio di Warrior avrebbe potuto essere il giusto maestro di cerimonia per questa conclusione che, seppur non indicata o segnalata in alcun modo (i concerti continueranno ancora per più di due ore, con Arch Enemy, Superjoint Ritual, Nightwish ed In Extremo), coincide per molti (compreso chi scrive) con la fine dell’edizione 2015 dell’Hellfest.
(Lorenzo Ottolenghi)
SUPERJOINT RITUAL
Trasformatosi negli anni della maturità quasi in uno zione un po’ strambo, moderno Papa del metal e prezzemolino di qualsiasi edizioni del festival francese – in un modo o nell’altro trova sempre il modo di farsi inserire in scaletta con qualche suo progetto – Phil Anselmo riempie il Valley di suoi ammiratori per quello che rappresenta un’elettrizzante prima volta nella storia non sempre felice dei suoi Superjoint Ritual. Band nata quasi per sfogare la parte più cazzeggiante dell’ego artistico di Phil, un coacervo punk/hardcore/southern/sludge basato non tanto su alte velleità musicali, quanto su rivoltamenti di visceri e nichilismi vari da sempre nutriti dall’ex singer dei Pantera. Con la sua fisicità bonacciona, una pinguedine evidente nella pancia in progressiva crescita dopo un periodo di forma fisica pressoché perfetta, quella susseguente al rientro dei Down con “Down III – Over The Under”, Anselmo annuncia orgoglioso appena entrato on-stage: “Questo è il primo concerto europeo in assoluto dei Superjoint Ritual!”. Primo boato incondizionato, e avvio nel segno di un panico positivo per la sua sporca truppa, che anche dal punto di vista visuale incarna l’appartenenza all’ala sordida e primitiva del metal americano. Fra elogi al consumo di marijuana e i soliti conciliaboli un po’ tirati per le lunghe, Anselmo si rivela essere in ottima forma, in una condizione vocale che da qualche anno sembrava preoccupantemente in calando e che lo vede invece in quest’occasione assecondare benissimo le sue voglie rissose, senza esporlo a brutte figure. Tra i suoi scudieri, brilla il chitarrismo convulso, relativamente pulito e potentissimo di Jimmy Bower e Kevin Bond. Del primo, visto all’opera anche con gli Eyehategod, possiamo quasi annusare da parecchi metri di distanza l’olezzo di sudore misto a quello di droghe leggere, che immaginiamo circolino liberamente nel suo sangue in quantità ben superiori a quelle normalmente sopportabili. Prendiamo a simbolo di questo connubio di indolenza e rabbia scomposta “Everyone Hates Everyone”, song tra le più efficaci nell’evocare l’immaginario sporco e casinista di uno dei migliori, e più scapestrati, figli di quella sgualdrina di città a nome New Orleans. Se Phil non parlasse sempre un po’ troppo, collocheremmo l’esibizione dei Superjoint Ritual fra i top di quest’edizione, però in ultima analisi possiamo dirci soddisfatti: non ci aspettavamo chissà cosa, invece il gruppo ha suonato con grande carica ed energia, interpretando al meglio il suo scarno repertorio.
(Giovanni Mascherpa)
Vediamo il traguardo. Sensazione di norma liberatoria, all’Hellfest fonte di una selvaggia malinconia: sapere che passerà gioco forza almeno un anno prima di un’altra edizione fa un attimo vacillare. Per mitigare quel senso di perdita che si fa strada nel nostro cuore, è buona cosa scegliere di accomiatarsi degnamente da un festival che come ogni anno non ha deluso le aspettative, semmai le ha rilanciate. Gli In Extremo incarnano degnamente lo spinoso ruolo di chi detta i tempi di un addio: folk metal quadrato e a veloce assimilazione, arrangiamenti variegati a base di strumenti tradizionali belli da vedere e da sentire (ghironda, arpa, ciaramella tra gli altri), arredamenti del palco a tema medievale (sempre molto fantasiosi), tutti gli strumentisti vestiti per assomigliare a bardi di un mitizzato tempo lontano. I tedeschi non sono nuovi su questi palcoscenici, già nel 2012 conquistarono ampi consensi sotto il Temple e in Germania hanno spesso il compito di chiamare sotto l’unica bandiera del folk i superstiti dell’ultima notte festivaliera. I Nostri, assimilabili a giocolieri e saltimbanchi, limitano in quest’occasione attività non direttamente legate al suonare i propri strumenti, e vanno sul velluto fra cornamuse, chitarroni marcatamente teutonici, notevole forza ritmica, il cantato germanico di un sempre ottimo Das Letzte Einhorn, showman/capobranco di un manipolo di personaggi che interpretano a trecentosessanta gradi l’essere artisti. Si balla, si canta, ci si diverte spensierati con gli In Extremo, intrattenitori di primo livello che non mancano comunque di affiancare musica originale e diretta a un lato visionario assolutamente unico. Poco altro da dire sull’operato dei berlinesi, chi scrive non è propriamente fan delle sonorità che maneggiano, ma non si può fare a meno di lasciarsi andare, dopo ore di sonante metallo livoroso, a un’ora di festa paesana dai toni allegri e compiaciuti. Sfolliamo quasi con una lacrimuccia a rigare il volto, anche l’Hellfest 2015 è scivolato via, incollandosi nella memoria come una gioia pregiata da conservare a lungo tra i nostri ricordi più belli.
(Giovanni Mascherpa)