Introduzione a cura di Simone Vavalà
Report a cura di Giovanni Mascherpa, Lorenzo Ottolenghi, Stefano Protti, Simone Vavalà
Foto a cura di Francesca Fornasari, Philippe Bareille (Flickr), Arnaud Bouvard (Flickr), Francois aka Mister Pink (Flickr)
Il Metal è Grande e all’Hellfest ci sono i Suoi Profeti. Sperando che questa parafrasi non attiri anatemi, è indubbio come l’Hellfest, almeno per il pubblico europeo, sia diventata la nuova Mecca del Metal. Undici edizioni in continua crescita per organizzazione, qualità e varietà musicale, al punto che qualunque fan con gusti vagamente eterogenei si trova a dover fare dolorose scelte quando si tratta di cosa ascoltare. Nelle righe a seguire abbiamo cercato di coprire quante più esibizioni possibile, ma è giusto anteporre una serie di considerazioni di massima a giustificare il nostro estatico giudizio su questa kermesse. Complici le ottime condizioni climatiche e il continuo aumento dei volontari locali, tutto è filato ottimamente dal primo all’ultimo minuto, con una precisione assolutamente svizzera per quanto riguarda il time scheduling e una resa sonora mediamente elevata, pur con qualche imperfezione. Impeccabile il lavoro al mixer del Valley, dove nonostante i suoni spesso ricercati e stratificati, il suono risulta sempre perfetto; qualche problema di troppo al Temple, dove molte band black finiscono per suonare troppo omogenee (leggasi: indistinto muro di suono infernale); e, paradossalmente, volumi un po’ bassi e suoni non sempre pulitissimi sui Mainstage. Un esempio su tutti il concerto degli Slayer: la scelta di separare come da abitudine i canali delle due chitarre ha reso impossibile un ascolto all’altezza, se non a poche decine di metri dal palco. Infine due piccole note sull’organizzazione: detto che il voto complessivo è decisamente elevato, risulta un po’ inspiegabile la necessità di avere una carta precaricata per bere, mentre il 95% dei banchetti cibo, probabilmente perché affidati ad esterni, costringe comunque a code in cassa e il pagamento in contanti. E infine la logistica: sebbene siano ovvie le difficoltà nel gestire punte di 55’000 presenze, per chi arrivava in macchina era inevitabile fare camminate anche di un’ora per raggiungere l’area concerti. Ma siamo certi, con un po’ di invidia, che i nostri cugini francesi continueranno a crescere e ridurre le piccole pecche rimaste. Let’s rock!
COWARDS
Cupo il cielo sopra Clisson, inquietante il nuovo panorama del Warzone, ora recintato con mura di lamiera e torrette di guardia che lo trasformano nel cortile di un carcere. Sul palco, una nuova piccola testata nucleare di blackened hardcore, quella catalogata col nome di Cowards. Mentre qualche goccia d’acqua di proporzioni-Godzilla scende dal cielo, lasciando presagire una tempesta che fortunatamente mai vedremo scatenarsi, i cinque si dannano l’anima in densi saliscendi odoranti di Celeste e disgrazie. La proposta del combo richiede attenzione: in orario mattutino seguire per bene muraglie sludge, ascoltarle sbrecciarsi in sfaceli hardcore di marca Converge, assistere a crolli nel doom più disperato, non è così scontato. L’impeto è sostenuto da una discreta varietà di soluzioni, ovviamente all’interno di un recinto stilistico non amplissimo e persistentemente soffocante, e da una tenuta del palco tutt’altro che da novellini. I contorcimenti del singer J.H., scriteriato emulo di Jacob Bannon nelle pose e nella voce isterica, catalizzano gli sguardi, intanto che le orecchie soffrono e chiedono perdono. Una tranquilla mezz’ora di badilate di benvenuto.
(Giovanni Mascherpa)
STONED JESUS
Succede meno di qualche edizione fa, però le mattine dell’Hellfest restano rifugio privilegiato per piccole e grandi scoperte. Il Valley, per la sua natura istrionica e variegata, a sua volta si presta benissimo a dare spazio a ensemble emergenti, meglio ancora se dalla provenienza un po’ esotica, periferica rispetto ai normali flussi di hard rock ed heavy metal. In questo solco rientrano gli ottimi Stoned Jesus, calati nella parte del combo stoner rock classico, tipico pane quotidiano per gli avventori dello stage effettivamente più ‘stonato’ di Clisson. Aromi inconfondibili iniziano a propagarsi nell’aria, diventeranno l’accompagnamento olfattivo di questa giornata e delle successive. I tre ragazzi ucraini si presentano modestamente e rilucono di semplicità, mestiere e poesia, avviandosi in breve su strade note con piglio quasi spensierato. Niente lungaggini né volumi esagerati nel loro repertorio, piuttosto i musicisti dell’Est Europa si focalizzano sulla forma canzone, frequentando suoni cristallini, lavorando alla perfezione melodie aperte e cantabili; i refrain entrano in testa, l’accoglienza calorosa è in parte dovuta a una buona preparazione degli astanti, ma risente anche della forte immediatezza di quanto udito. Le atmosfere bucoliche sovrastano il rombare dei watt, il clima è disteso, rilassato, anche se non manca il brio e l’energia da parte degli strumentisti. Le prolungate divagazioni della suite elettroacustica “I’m The Mountain” ci lasciano un dolce sapore in bocca, quello lasciato da chi è arrivato dal nulla e ci ha rubato un pezzettino di cuore.
(Giovanni Mascherpa)
Setlist:
Electric Mistress
YFS
Here Come the Robots
I’m the Mountain
SOLEFALD
Non può essere un concerto banale quello dei Solefald. È presto, il tempo disponibile è di soli quaranta minuti, i fan veri degli istrionici norvegesi presenti al Temple sono una minoranza. Ma basta che Coco Chanel venga accolta gentilmente all’Inferno (“CK II Chanel N°6”) che la coppia formata da Cornelius (vestito di tunica bianca e bandana da samurai) e Lazare entri in sintonia con chi ha davanti. Volumi e densità degli strumenti sono ben conciliati allo spumeggiare in mille rivoli della musica e il concerto può così decollare senza fastidio alcuno, accendendosi in un’ideale selva di fuochi d’artificio, meravigliando anche più che al Blastfest di qualche mese fa. La scioltezza sul palco è visibilmente aumentata, i Solefald suonano poco dal vivo e anche per professionisti di questo livello c’è modo di progredire da uno show all’altro, guadagnando in sicurezza. La setlist è praticamente identica a quella di febbraio, con l’unico taglio per motivi di tempo di “The U.S.A. Don’t Exist” e la sapiente scelta di pescare un po’ da tutta la discografia, colpendo per la variabilità delle situazioni gli ascoltatori meno esperti nel materiale dei norvegesi. Non si perde nulla rispetto ai dischi, dal fragile intersecarsi delle linee vocali, sia fra screaming e voce pulita che tra queste e le seconde voci dei bravi membri degli In Vain che fungono da backing band, agli effetti funambolici accesi dalle tastiere e dai chitarristi. Ce n’è per tutte le orecchie, una straordinaria babele di profumi esotici, sapori etnici, frammenti di culture lontane sono convogliati in esplosioni di colori che solo grazie a una sensibilità straordinaria possono diventare così magnificamente diretti e colpire al primo impatto. “Red View”, il tamarrismo dub-step di “World Music With Black Edges” e la nenia jazzata della chiusura pirotecnica di “When The Moon Is On The Wave” sono gli splendidi attimi fuggenti di un concerto iniziato fra gli sguardi perplessi degli astanti e chiuso nell’entusiasmo generale.
(Giovanni Mascherpa)
Setlist:
CK II Chanel N°6
Red View
Song Til Stormen
World Music with Black Edges
Vitets Vidd I Verdi
Sun I Call
Jernlov
When the Moon Is on the Wave
SADIST
La rappresentativa azzurra di quest’anno all’Hellfest è formata dai gettonatissimi Fleshgod Apocalypse e dai Sadist, che il sottoscritto non vedeva in concerto dall’antivigilia di un Natale di parecchi anni fa. “Sometimes They Come Back”, come recita una loro canzone (qui a chiudere la scaletta), ed il loro è un ritorno in grande stile, vista la qualità elevatissima dell’ultimo “Hyaena”. Chi come chi scrive li ha già visti salire sul palco sa comunque cosa aspettarsi dal loro set: death metal che vive sovente di tecnicismi, infiorettature di tastiere, chitarre che non disdegnano la melodia, basso in grande evidenza. Tutte caratteristiche che fanno ancora dei Sadist uno dei gruppi death più validi in circolazione in Europa. Su disco. Sì, perché dal vivo purtroppo qualcosa si inceppa, forse è colpa della band, forse del pubblico disattento. La meraviglia di suoni assemblati con tecnica e precisione da artigiano orafo mal si adatta al palco del Temple, non stupisce né coinvolge, lasciando la sensazione di un gruppo tecnicamente eccelso ma mai comunicativo. Le tastiere, che funzionano perfettamente su disco, qui risultano superflue rispetto all’asse chitarra/basso, e le parti vocali sono meno incisive e più monotone. Succede quindi che i pezzi più duri del repertorio (“One Thousand Memories”, ad esempio), spicchino sulle parti più complesse e melodiche (“Tearing Away”), e che i Sadist ascoltati dal vivo siano solo un gruppo di qualità media, come ce ne sono tanti in giro. Con il potenziale tecnico e compositivo a loro disposizione, un vero peccato.
(Stefano Protti)
RAMESSES
Pur non avendo mai raggiunto la pregevolezza dei dischi a firma Electric Wizard, la band del transfuga Mark Greening si è conquistata una sua comoda nicchia nella scena doom. Un angolino sporco e maleodorante, nel quale sfogare pulsioni malsane e crogiolarsi nella devianza. L’impatto è crudo e deleterio, la chitarra ansima urlante, la batteria viaggia umorale, impulsiva, toccando nervi scoperti e incidendo nella carne tagli infetti. L’effetto lisergico del Mago Elettrico viene sostituito da una brutalità spesso vicina al death-doom, cui contribuisce il cantato al limite del growl di Adam Richardson. Grattugiano materia nera come la pece e ce la gettano addosso brulicante di vermi i Ramesses, bravi nel soffocare ogni anelito di speranza e cacciare via qualsiasi barlume di divertimento da un Valley fattosi improvvisamente brulla valle di lacrime. Nella monoliticità dell’insieme affiorano bruschi cambi di marcia che sanno addirittura di Motorhead, oppure di black-death primordiale. La rumorosità della chitarra sfocia nello sludge più disperato degli Eyehategod, un attacco spietato che non sembra prendere più di tanto chi sta sotto il tendone. A dire il vero, sarebbe difficile abbozzare la benché minima reazione, visto che l’intento del trio parrebbe proprio quello di sferzare incessantemente fino a lasciare chi ha di fronte completamente stremato. Qualche attimo di respiro avrebbe probabilmente reso ancora più gradevole la performance, sulla quale oggettivamente nulla abbiamo da obiettare. Una faraonica bolgia di crudele passionalità doom.
(Giovanni Mascherpa)
Setlist:
Ramesses II
Master Your Demons
Take the Curse
The Tomb
Iron Crow
Lords Misrule
Baptism of the Walking Dead
BEHEXEN
Si comincia (almeno per chi vi scrive) con i Behexen. Sono le 15:00, tardi per arrivare al festival (complice un parcheggio complicato), presto per far suonare una band come i Behexen. Il black metal della band finlandese è gelido e furioso, esattamente quello che ci si aspetta da un gruppo di questo calibro. Nel breve tempo concesso loro, i tre di Tampere (coadiuvati da Infection e Evisc, rispettivamente a chitarra e basso) scaraventano sugli astanti odio blasfemo e violenza glaciale, senza sosta e senza intermezzi. Non c’è respiro nell’inferno claustrofobico dei Behexen ed il gruppo non si risparmia, tra vecchio e nuovo materiale, cercando di farci dimenticare il Sole che cerca di imporsi fuori dal Temple. Dentro il tendone è una notte senza stelle, con lo scream di Hoath Torog a guidare e dirigere l’empio spettacolo. Unico appunto, che si ripeterà per tutta la giornata: i volumi a livelli veramente troppo alti che tendono a distorcere il sound. Primo round: ottimo.
(Lorenzo Ottolenghi)
HAVOK
Ammirati e lodati da Schmier dei Destruction, che li ritiene il miglior gruppo thrash fra le giovani leve, gli Havok hanno di che lustrarsi gli occhi nell’ammirare in quanti si diano battaglia per loro sotto l’Altar. Il primo giorno di Hellfest prevede un’ampia scelta di compagini thrash vecchie e nuove e gli ardimentosi statunitensi – ci pare con evidenti origini latine, per quanto riguarda alcuni componenti – debbono dimostrare di non essere da meno della vecchia guardia. Se valutiamo l’operato dei quattro dalla risposta del giovane pubblico intervenuto, non possiamo che dare un giudizio positivo sulla performance di Clisson. I circle-pit si sprecano, oltre metà dell’area antistante il palco è no-limits per chi voglia godersi il concerto in pace, il grosso dei presenti dimostra di conoscere benissimo il materiale del gruppo, vista l’accoglienza calorosissima all’annuncio dei pezzi. A parte i volumi un po’ bassi per la chitarra ritmica, che alleggeriscono l’impatto complessivo, tutto funziona alla perfezione e gli Havok martellano con un’ispida miscela di Exodus, Destruction e qualche melodia più leggera alla Testament. La solista di Reece Scruggs irrora fantasia e dà respiro a canzoni dagli schemi abbastanza rigidi, che non hanno necessariamente nel dinamismo il loro tratto migliore. L’intercambiabilità di ritmiche, riff e chorus per chi scrive è il grosso limite della band, compensato live da una tenuta di palco degna di act più acclamati ed esperti. Non si può avere sempre concerti memorabili dall’Hellfest, in ogni caso gli Havok sono rimasti ben sopra la sufficienza e hanno scatenato le voglie di mosh di qualche centinaio di kid. Non disprezzabile la cosa.
(Giovanni Mascherpa)
JAMBINAI
Appena terminato il concerto dei Behexen, le gambe ti dicono che è tempo di una pausa. Con in mano un gelato allo specolos ti avvii pigramente verso il Main Stage, dove sono saliti gli idoli locali Mass Hysteria, quando un suono acuto e terribilmente sgraziato attira la tua attenzione. Alzi lo sguardo e nel maxischermo davanti al Valley c’è il pifferaio di Hammelin più stonato che il mondo delle fiabe abbia mai conosciuto. Corri là, e dopo pochi istanti sei in adorazione, insieme ad una folla considerevole, di una band sudcoreana di cui hai sempre ignorato l’esistenza. Loro puniscono la tua ignoranza con un sound spigoloso, sfuggente, in cui basso e chitarra lasciano spazio a haegeum (uno strumento monocorda dalle note mirabilmente stridenti suonato con una veemenza da band hc) e geomungo (una sorta di chitarra dobro capace di infondere sia ritmo che melodia alle composizioni). Difficili da definire, impossibili da descrivere con pienezza, i Jambinai: ci sono reminescenze degli Swans più ossessivi (“They Keep Silence)”, i Third Ear Band di “Fire” con la luna storta, derive post-rock e noise soffocante che procedono a strappi per poi impantanarsi in una versione etnica dello sludge. I minuti passano e in quel delirio tu non trovi un motivo che sia uno per tornare a curiosare sotto il tendone del merchandising. I Jambinai si prendono tutto il tempo che serve loro per presentarsi allo spettatore, che a sua volta risponde con entusiasmo. La sorpresa più gradita del Valley, proprio nel giorno di Magma ed Earth.
(Stefano Protti)
KAMPFAR
E’ il turno dei pagan black metaller norvegesi, preannunciati dall’accensione di alcune torce sul palco. I Kampfar, nonostante i già citatati problemi di volumi e livelli, ci regalano uno dei migliori show di questa prima giornata. Dolk, ormai stabilmente alla voce, è un frontman magnetico e coinvolgente; tiene il palco, incita e coinvolge il pubblico e le atmosfere pagane e violente dipinte da Ole fanno da ottimo contraltare. Si parte con “Lyktemenn”, un balzo indietro di dieci anni per poi proseguire con “Gloria Ablaze”, epica e devastante opener dell’ultimo lavoro in studio dei norvegesi. Forse la setlist si concentra un po’ troppo sull’ultimo “Profan” (quasi metà concerto è composto da estratti di questo album), ma non mancano i grandi classici, come ad esempio “Troll, Død Og Trolldom” e la conclusiva “Our Hounds, Our Legion”, brano che manda il pubblico in visibilio, a dimostrazione di una prova magistrale.
(Lorenzo Ottolenghi)
Setlist:
Lyktemenn
Gloria Ablaze
Troll, Død Og Trolldom
Daimon
Tornekratt
Mylder
Our Hounds, Our Legion
VISION OF DISORDER
C’è un certo nostalgismo novantiano aleggiante nell’aria dell’Hellfest. Uno dei motivi è fornito dai Vision Of Disorder, catapultati in trincea dalla dura New York delle periferie e degli scantinati. La partecipazione emotiva è forte, osserviamo facce radiose fra il pubblico, in molti sogghignano l’un l’altro assaporando quello che andranno a vedere, sapendo che per chi vive l’hardcore visceralmente questo è uno dei momenti clou del festival. Effettivamente, gli autori dello storico “Imprint” non deludono le aspettative, affacciandosi sul Warzone perfettamente calati nella parte di messaggeri di un suono essenziale, asciutto, spigoloso e rotto in mille tronconi slabbrati. Il pit si anima in fretta, Tim Williams urla e gesticola indomito, coadiuvato da implacabili mazzate metalliche elargite dalle sei corde e un impianto ritmico ricco di sincopi e singulti. Le canzoni si aprono e si chiudono attorno a tempi medi estremamente nervosi, i suoni limpidi e cromati infuocano gli spazi vicino al palco e le melodie alternative dei chorus non restano inascoltate. I cori si alzano entusiasti all’indirizzo del Warzone e la band esce ringiovanita da questo trattamento, tirando al massimo per tutto il concerto, concedendosi poche pause e dialoghi concisi. Difficile trovare difetti al concerto francese dei Vision Of Disorder, il successo solo sfiorato non ne ha mortificato la passione e quella dell’Hellfest rappresenta una piccola rivincita su qualche delusione passata. Per i molti fan presenti, c’è di che essere pienamente soddisfatti.
(Giovanni Mascherpa)
TURBONEGRO
Pagliacci, poser, parodia del metal o versione metal dei Village People. Parlando del combo norvegese, tutte queste definizioni possono avere un parziale fondamento e sono state usate da tante malelingue, ma almeno in parte a sproposito. Sì, perché si potrà certo sorridere quando i Turbonegro salgono sul palco, o quando si pensa ai raduni della loro fedelissima Turbo Jugend dalla dubbia sessualità, ma la loro esibizione, anche all’interno di un festival di genere, non lascia dubbi: sono una band supercazzuta, trascinante e capace di conquistare anche chi non è loro fan. La scaletta alterna pezzi recenti a classici estratti dal periodo d’oro, ossia quello compreso tra “Ass Cobra” e “Party Animals”, e tutti i musicisti si confermano proprio animali da festa: sotto la guida di Happy Tom, androgino mastermind e bassista del gruppo, sciorinano pezzi al fulmicotone, regalano siparietti ambigui e divertenti – come resistere senza un sorriso a maschi pelosi in short degni di Farrah Fawcett? – e fanno ballare e cantare il pubblico con qualche cenno di dovuto moshpit. Sarà una definizione auto-attribuita, ma death punk riassume decisamente la carica esplosiva dei Nostri.
(Simone Vavalà)
Setlist:
The Age of Pamparius
You Give Me Worms
All My Friends Are Dead
Hot for Nietzsche
City of Satan
Special Education
Drenched in Blood (D.I.B.)
Get It On
Wasted Again
I Got Erection
VADER
Una macchina da guerra, un rullo compressore che travolge e distrugge tutto quello che impatta, un muro sonoro di cemento e Peter, dal 1983 saldamente al timone di una delle più grandi death metal band europee. Si parte con “Wings” ed è subito un delirio massacrante. Si sa che i polacchi non fanno sconti, non concedono respiro e pretendono sudore e sangue. La setlist salta in continuazione tra vecchio e nuovo, ma è con “Reborn In Flames” e “Decapitated Saints” che il pubblico esplode. C’è spazio per “Triumph Of Death” dall’ultimo “Tibi Et Igni” e poi di nuovo un tuffo negli anni Novanta con “Dark Age” e “Vicious Circle”. I Vader calcano i palchi praticamente da sempre e si nota: sanno come coinvolgere il pubblico e Peter sa come scaldare un’audience che, comunque, è già in visibilio. C’è spazio per qualche pezzo nuovo e poi l’immancabile chiusura affidata a “Sothis” e a “Helleluyah!!! (God Is Dead)”, che celebra la violenza infernale dei polacchi come poche altre canzoni del loro repertorio. Qualche piccolo problema all’impianto sonoro che, ogni tanto, fa sparire la chitarra di Spider ma – per il resto – un gran concerto, all’altezza di un evento come l’Hellfest.
(Lorenzo Ottolenghi)
Setlist:
Wings
Go to Hell
Come and See My Sacrifice
Reborn in Flames
Decapitated Saints
Triumph of Death
Dark Age
Vicious Circle
Return to the Morbid Reich
Silent Empire
Sothis
Helleluyah!!! (God Is Dead)
EARTH
A vederli salire sul palco, i quattro Earth sembrano usciti da uno di quei paesini americani che non si incrociano mai, a meno che non ti venga la sciagurata idea di abbandonare l’interstatale. L”attenzione è tutta per Dylan Carlson, per la voce accartocciata con cui annuncia i pezzi, per la chitarra che brandisce come uno scettro, e per la coda di puzzola che tiene agganciata alla cintura. Si parte con due abbondanti porzioni del più recente “Primitive and Deadly”: “Torn by the Fox of the Crescent Moon”, un pachiderma il cui incedere minaccioso sfuma in un barcollare lisergico, e “There is a Serpent Coming”, qui orfana della voce del cowboy Mark Lanegan e divenuta quindi vento del deserto che sgretola polvere e fa impazzire di sete. Carlson esegue alla chitarra melodie di lentezza esasperante, ipnotiche variazioni delle tre note attorno a cui continua a girare la sua sei corde, ma è Adrienne Davies a gestire davvero il concerto. Seduta dietro la batteria, maniacale nel sistemare i piatti, detta il ritmo come se avesse davanti una ciurma di schiavi intenti a vogare, compensando in percussioni l’oggettiva monotonia dei riff. Nessuno nel pubblico desiste, tutti lì ad aspettare uno spiraglio di luce, che finalmente arriva con l’atmosfera pastorale a cui si abbandona “The Bees Made Honey in the Lion’s Skull”, quasi che gli Earth usassero la pesantezza doom per raggiungere la beatitudine. C’è ancora spazio per un (discreto) brano inedito, una sorta di “Rise to Glory” meno contemplativa, prima del commiato di “Old Black”, con le chitarre che si occupano di saturare tutti gli spazi lasciati liberi dal violoncello che dominava nella versione in studio. Il concerto si chiude qui, con il gruppo che saluta felice, mentre uscendo dal Valley si ha la sensazione di aver addentato per la prima volta un gruppo di cui fino ad ora, nei dischi, si è solo percepito l’aroma. In bocca rimane un sapore imperfetto, acido e dolciastro allo stesso tempo, qualcosa che solo con il tempo si riuscirà a definire con certezza come medicina o veleno.
(Stefano Protti)
Setlist:
Torn by the Fox of the Crescent Moon
There is a Serpent Coming
The Bees Made Honey in the Lion’s Skull
(Inedito ancora senza titolo)
Old Black
INQUISITION
Immensi: non esiste altro aggettivo per descrivere l’esibizione di Dagon e Incubus. Ci hanno abituato da tempo a live quadrati e senza sbavature, ma quella che mettono in campo questo pomeriggio è una vera lezione di black metal. Nonostante, come noto, siano solo in due non ci si stanca mai di rilevare quale muro di suono riescano a dipingere, gettando sul pubblico assiepato secchiate di gelo e malignità senza speranza, complice la voce fangosa e proveniente da un altrove lovecraftiano del leader; la scaletta pesca dall’intera discografia, escluso l’esordio “Into The Infernal Regions Of The Ancient Cult”, dimostrando chiaramente la costante crescita, pur con un sound coerente e personale, del duo americano/colombiano. La chitarra di Dagon sembra spesso sdoppiarsi o triplicarsi (esemplare l’ipnotico riffing di “Master of the Cosmological Black Cauldron”) e ci trascina per un’ora di oscuro sabba fino alle note della conclusiva “Infinite Interstellar Genocide”. Non servono chiacchiere tra i vari brani o saluti calorosi: gli Inquisition atterrano dal loro pianeta, ci estraggono la ghiandola pineale e ci lasciano lì interdetti in attesa del loro ritorno.
(Simone Vavalà)
Setlist:
Hymn for a Dead Star
Ancient Monumental War Hymn
The Realm of Shadows Shall Forever Reign
Dark Mutilation Rites
Force of the Floating Tomb
Master of the Cosmological Black Cauldron
Command of the Dark Crown
Desolate Funeral Chant
Astral Path to Supreme Majesties
Infinite Interstellar Genocide
SACRED REICH
I vecchi maestri del thrash americano calano in terra francese, pronti a dare spettacolo davanti ad una notevole folla, radunata per sentire la leggenda. Quattro full-length ed un EP che ha fatto scuola, quel “Surf Nicaragua” che resta una delle immagini indelebili degli anni d’oro del thrash americano. Phil Rind, con un fisico ormai lontano da quello dei vecchi tempi, imbolsito dall’età, sembra un americano della middle-class che ha appena finito di sistemare il prato davanti a casa, ma basta l’inizio di “The American Way” per ricordare a tutti che l’aspetto ed il look lasciano il tempo che trovano. Non è passato un giorno dal 1987: i Sacred Reich sono sempre gli stessi, grezzi, veloci, sarcastici e potenti, una band che chiama subito all’headbanging più sfrenato e che non dà un attimo di tregua, sciorinando i suoi classici (“Death Squad”, “Ignorance”, “Love… Hate”), la consueta cover di “War Pigs” dei Black Sabbath, fino all’apoteosi di “Who’s To Blame” e (ovviamente) “Surf Nicaragua”. I volumi ed i suoni dell’Altar sono settati molto meglio rispetto al Temple e questo ci permette di goderci un altro concerto strepitoso, di vedere live delle vere e proprie leggende e di capire come l’alternanza di generi sia la vera grandezza dell’Hellfest.
(Lorenzo Ottolenghi)
Setlist:
The American Way
Death Squad
Love…Hate
Ignorance
Heal
Blue Suit, Brown Shirt
War Pigs
Who’s to Blame
Independent
Surf Nicaragua
MELVINS
Ormai presenza abbastanza affezionata dell’Hellfest, come sempre i Melvins non hanno mezze misure: o li si ama o li si odia. E, ovviamente, nel secondo caso è meglio che vi rivolgiate a uno psicologo, ma bravo. Sì, perché la band di King Buzzo e Dale Crover riesce a presentarsi, di volta in volta, in una versione ‘lite’, che di leggero non ha nulla, oppure suonare con i membri dei Big Business e, a dispetto della formazione corposa, scegliere i pezzi meno arcigni della loro smisurata discografia. Allo stesso modo, oggi, nonostante sia freschissimo di stampa quel “Basses Loaded” che poteva farci prefigurare un palco stracolmo di musici addetti alle quattro corde e una scaletta che pescasse tra i pezzi più corposi e sludge, vengono sovvertite tutte le aspettative, e va benissimo così: palco scarno, formazione a tre con il solo neo arrivato Steven McDonald a prendersi carico delle parti di basso, e la scelta di brani che spaziano da classici da lacrime, come “Night Goat” o l’immensa “Queen”, al più recente “Nude With Boots” con la trascinante “The Kicking Machine”, ma che per metà dedica attenzione a ben sei cover, tra quelle ormai consolidate nella carriera – vedi “Deuce” dei Kiss – e a misconosciuti e improbabili brani come “Take Me Out To The Ballgame”: sì, è esattamente un inno da stadio americano a base di tastierine e coretti folli come potete immaginare dal titolo, e oltre a chiudere l’ultimo album decreta anche la fine di un’esibizione, come sempre, da ricordare.
(Simone Vavalà)
Setlist:
Eye Flys
Play Video
Deuce
Queen
The Kicking Machine
National Hamster
With Yo’ Heart, Not Yo’ Hands
Leech
Frosted Flake
Euthanasia
Mr. Rip Off
Halo of Flies
Sesame Street Meat
Night Goat
Take Me Out to the Ball Game
VOLBEAT
Poche band contemporanee sono amate e odiate al tempo stesso dal pubblico metal come i Volbeat, e questo è evidente se si osserva il pubblico assiepato sotto il Mainstage: la maggior parte è qui per loro, e probabilmente solo per loro. Ma bisogna ammettere che sanno ripagare alla grande le aspettative. Un concerto forse non impeccabile, sia per suoni che per resa complessiva (l’accattivante voce di Michael Poulsen si incrina in diversi momenti), ma che rende bene l’idea della loro commistione di heavy rock e rockabilly. Ci sono i riffoni, ci sono i ritornelli che imparerebbe a memoria anche Euronymous se si trovasse qui e li sentisse per la prima volta, c’è quell’aria scanzonata che – artefatta o meno – li rende divertenti. E soprattutto c’è l’ormai consolidata presenza di Rob Caggiano, un chitarrista forse sottovalutato per il groove che riesce a creare, sia su disco che dal vivo. Aprono alla grande con il loro ultimo singolo “The Devil’s Bleeding Crown”, pescano con abilità i pezzi più catchy di tutta la loro discografia, tralasciando solo l’esordio “The Strength / The Sound / The Songs” fino al finale con l’iconica e ritmatissima “Still Counting”. Peccato non aver visto salire sul palco il buon Barney dei Napalm Death su “Evelyn”, saltata a pié pari, ma complessivamente un’esibizione riuscita e divertente.
(Simone Vavalà)
Setlitst:
The Devil’s Bleeding Crown
Heaven nor Hell / A Warrior’s Call / I Only Want to Be with You
Sad Man’s Tongue
Lola Montez
Hallelujah Goat
For Evigt
Dead but Rising
16 Dollars
Goodbye Forever
Fallen
Doc Holliday
Seal the Deal
The Mirror and the Ripper
Still Counting
KORPIKLAANI
Neanche il tempo di una birra ed è già il momento dei folk metaller finlandesi. I Korpiklaani attaccano aggressivi e tirati, davanti ad un pubblico numerosissimo. L’enorme folla che invade il Temple è la prova di come la band sia ancora amatissima ed attiri un numero impressionante di persone (soprattutto se si pensa che il loro show è praticamente in contemporanea a quello di “giganti” come i Volbeat). Il pubblico, dicevamo, è numeroso, partecipe e felice; forse, permettetecelo, non molto in vena di un ascolto attento, dato che sembra prendere per buona qualunque cosa arrivi dal palco, mentre la setlist dei finlandesi non è proprio delle più entusiasmanti (nonostante l’ora a disposizione). D’accordo, avere un nuovo album a disposizione che ha poco più di un anno di vita, ma – specialmente ad un festival – suonarlo quasi per intero (sette canzoni su undici di “Noita” contro quindici di setlist) sembra veramente eccessivo. Mancano i grandi classici: “Juodaan Viina”, “Pellonpekko”, “Vaarinpolkka” e la stessa band sembra più eseguire un compito ben studiato e preparato che un concerto sentito e ‘di cuore’. Per fortuna il pubblico non dà l’impressione di accorgersene o, se anche se fosse, lo dimentica con gli ultimi cinque-dieci minuti di show nei quali “Vodka” e “Beer Beer” fanno il loro lavoro, creando un moshpit festaiolo e di una certa dimensione, ricordandoci il motivo per cui i Korpiklaani si sono guadagnati la loro fama. Insomma: la setlist è quella che è e anche le migliori band, a volte, possono non essere in serata. In definitiva un concerto un po’ noioso o che, comunque, non riesce a coinvolgere i fan della prima ora.
(Lorenzo Ottolenghi)
Setlist:
Viinamäen mies
Journey Man
Pilli on pajusta tehty
Lempo
Ämmänhauta
Erämaan Ärjyt
Ruumiinmultaa
Kylästä keväinen kehto
Rauta
Kultanainen
Minä näin vedessä neidon
Sahti
Wooden Pints
Vodka
Beer Beer
OVERKILL
Qualcuno ricorda uno show degli Overkill che sia stato sottotono o dove la band non abbia suonato in modo egregio? I newyorkesi sono una garanzia e, anche questa volta, non tradiscono le aspettative, grazie ad un concerto impressionante sia per l’impatto sonoro che per la qualità delle performance dei singoli membri (su tutti, come sempre, Bobby Ellsworth che, prossimo ai sessant’anni, non mostra segni di cedimento vocale). Si parte con “Armorist” dall’ultimo”White Devil Armory” per poi tuffarsi nel passato con “Rotten To The Core”; al secondo pezzo l’atmosfera è già incandescente, con un moshpit sfrenato e l’intero Altar che risponde al sing-along. Ancora una doppietta presente/passato con “Electric Rattlesnake” e “Hello From The Gutter” ed il concerto entra nel vivo. Il thrash degli Overkill mostra i muscoli e palesa le sue venature punk/hardcore rendendo sempre più una bolgia l’atmosfera sotto il palco. Si ritorna ai fasti di “Feel The Fire” ed è il turno di “Hammerhead” e della title-track del debut del gruppo. Bobby, D.D. e soci sono musicisti ed intrattenitori navigati: sanno cosa il loro pubblico vuole e dispensano a piene da mani dal loro repertorio saltando, per la gioia di molti, i dischi dal 1993 al 2007, per tornare al nuovo con la splendia “Ironbound”, pezzo che – in qualche modo – ha segnato la rinascita della band dopo un periodo non proprio felice. Ormai tutti gli accorsi sono rapiti dalla performance degli Overkill ed il connubio tra band e pubblico è perfetto, mentre il moshpit si allarga sempre di più fino al crowdsurfing di un ragazzo in sedia a rotelle. Non c’è tregua e non c’è respiro: se il concerto finisse qua, sarebbe già perfetto, ma tutti sanno che mancano i due pezzi da novanta; così, a chiudere lo show, ecco le immancabili “Elimination” (addirittura accelerata sia rispetto alla versione su disco che a quella normalmente suonata live) e “Fuck You” con una foresta di middle-finger sollevati. Poi tutto finisce. Ancora una volta gli Overkill hanno fatto centro, ancora una volta sono sembrati migliori della volta precedente, ancora una volta creano il desiderio di tornarli a vedere alla prima occasione possibile. Potremmo dire che questo sia stato uno dei migliori concerti di tutto il festival, ma con gli Overkill è quasi scontato.
(Lorenzo Ottolenghi)
Setlist:
Armorist
Rotten to the Core
Electric Rattlesnake
Hello From the Gutter
Hammerhead
Feel the Fire
Coma
Infectious
Ironbound
Elimination
Fuck You
MAGMA
In giro c’è gente che suona heavy dalla prima volta che ha messo piede sul palco senza nemmeno conoscere il significato della parola metal. Prendiamo i francesi Magma, ad esempio. Carriera cinquantennale, tre cantanti dal tono classico/operistico, impianto strumentale dalla forte impronta percussiva (xilofono e batteria), musicisti di provata esperienza e una lingua inventata, il kobaiano, dal pianeta da dove ovviamente i Magma provengono. Pensate ai Sigur Ros, ma senza velleità da classifica. Pensate a Paul Chain, ma senza alcuna nozione di doom. Pensate ai Carmina Burana ed avrete un’idea dello spettacolo messo in atto da questo collettivo. Voci maschili e femminili (ancora magnifica Stella Vander) si intrecciano in suggestivi maelstrom, saliscendi percussivi che contagiano anche pianoforte e chitarra, mentre riff prog rock affiorano timidi dal tessuto del concerto. Due lunghe suite divise in infiniti frammenti dove si alternano di continuo ossessività e melodia. Ciò che inizialmente sembra un baccanale frenetico si rivela presto una partitura di precisione millimetrica che avvolge ed ipnotizza lo spettatore, e non è un caso che i Sunn O))) non li disdegnino come compagni di concerto. Bagno di folla incentivato dall’origine transalpina della band, ma del tutto meritato.
(Stefano Protti)
CONVERGE
C’è solo un modo per frenare la rabbia indiscriminata di un gruppo come i Converge: tenergli i volumi bassi. È quello che succede nella prima parte del concerto dell’Hellfest, quando l’attutimento delle usuali mitragliate nell’arsenale del quartetto fa ipotizzare un concerto sottotono dei Nostri. Niente di tutto questo. A forza di correre per il palco in tutta la sua lunghezza e larghezza, strattonare violentemente gli strumenti e mostrare accanimento fisico su tutto ciò che gli capita per le mani, i Converge mettono in piedi l’ennesimo show ammaliante. Una nuova, splendida, lezione sul vero significato di hardcore, su cosa significhi buttare l’anima nella propria musica e lasciare estasiati i propri fan. La scaletta è grosso modo quella degli ultimi anni, con una miscela disordinata ma sempre sapiente e indomabile di schegge impazzite e composizioni più riflessive e ordinate. L’invincibile escalation di energia e punte di eroismo strumentale, tutti gli strumenti collassanti in un big-bang allucinante infiocinato dalle urla disumane di Bannon, conquista nonostante una qualità dei suoni che va migliorando in corso d’opera senza arrivare all’apogeo desiderato. Impossibile enumerare ed estrarre nel dettaglio le fasi migliori di un concerto che, in perfetta tradizione Converge, ha il potere di straziare e far sognare, eviscerare e lasciare magnificamente pacificati, stremati e soddisfatti. Non si può non amare musicisti che si divincolano con cotanta istintiva energia, inginocchiati sul palco a spremere ogni stilla di sudore, esprimendo al meglio il crogiuolo di emozioni che hanno dentro. La reazione di un’audience non immensa – impressione forse inficiata dalla vastità della nuova area dedicata al Warzone, a dire il vero – è all’altezza e ancora una volta quello del quartetto di Salem risulta essere tutto fuorché uno show come gli altri. Leggende.
(Giovanni Mascherpa)
Setlist:
First Light
Last Light
Eagles Become Vultures
Concubine
Fault and Fracture
You Fail Me
Jane Doe
Distance and Meaning
Phoenix in Flames
Predatory Glow
In Her Blood
Bitter and Then Some
Worms Will Feed/Rats Will Feast
The Broken Vow
Black Cloud
Glacial Pace
Trespasses
All We Love We Leave Behind
Aimless Arrow
Dark Horse
TESTAMENT
L’idea di avere i Testament headliner della prima giornata sull’Altar si rivela azzeccata, soltanto pochi altri act thrash storici hanno lo stesso, fortissimo, potere di richiamo per grandi e piccini come gli uomini di Chuck Billy ed Eric Peterson. Forti di una line-up da qualche tempo priva di cambi traumatici e con Alex Skolnick alla chitarra e Gene Hoglan alla batteria ad alzare a dismisura il livello tecnico e il feeling, nulla apparentemente può fermare gli inossidabili thrasher della Bay-Area. I Testament si presentano con uno degli allestimenti scenici più opulenti visti sotto i tendoni: un fondale-monstre – poi sostituito per evidenziare il passaggio al materiale più recente a metà set – due medaglioni giganteschi raffiguranti facce demoniache incastonate in una stella rovesciata, una serie di altri dettagli volti a dare l’idea che si sia all’interno di un ambiente ‘infernale’. Nonostante chitarre ritmiche regolate un po’ a casaccio dai fonici, i grandi classici del gruppo scorrono via in scioltezza, fra animosi controcori in arrivo dal pubblico, sorrisoni a trentadue denti del frontman, più in palla vocalmente che al Metalitalia.com Festival della scorsa annata, un’interpretazione pressoché priva di grosse sbavature da parte di tutti gli attori in campo. Quello che però si avverte, a nostro modesto avviso, è un modo di vivere il concerto abbastanza routinario da parte dei cinque: la scaletta da qualche tempo è sempre la stessa, suonata bene quanto si vuole, ma mancante di novità di rilievo che possano ingenerare qualche nuovo motivo di interesse. Inoltre, la musicalità ottantiana di molti episodi sembra spesso andare in soffitta, a favore di un aggressività più moderna che sacrifica in parte l’ariosità di alcuni cavalli di battaglia, inclusi anche pezzi più recenti come “D.N.R. (Do Not Resuscitate)” e “More Than Meets The Eye”. Si sta forse parlando di dettagli micragnosi, ma visto che il confronto a questi livelli è fra pesi massimi e i particolari contano eccome, ci pare che qualche piccolo miglioramento a esibizioni già di per sé soddisfacenti i Testament potrebbero darlo.
(Giovanni Mascherpa)
Setlist:
Over the Wall
Rise Up
The Preacher
Dog Faced Gods
Into the Pit
Practice What You Preach
The New Order
D.N.R. (Do Not Resuscitate)
3 Days in Darkness
More Than Meets the Eye
Disciples of the Watch
The Formation of Damnation
SUNN O)))
Parlare di un concerto relativamente all’esibizione di Anderson, O’Malley e soci è riduttivo e travisante al tempo stesso. Qui ci troviamo di fronte a un’esperienza sensoriale e quasi mistica, su cui i Nostri gigioneggiano consapevoli; inutile provare a scrivere la scaletta: per circa un’ora veniamo solo schiacciati da un muro di suono quasi insostenibile, mitigato solo dalla fortuna di trovarci in una tensostruttura parzialmente aperta. I droni di chitarra, resi ancor più ipertrofici dal lavoro alle macchine di Tos Niuwenhuizen, durano interi quarti d’ora e finiscono per trasfigurare ogni percezione uditiva; e quale ciliegina sulla torta, gli apocalittici suoni emessi dall’ugola di Attila Csihar, che pare officiare una messa nera, nerissima, al cui confronto i suoi live coi Mayhem sono dotati di garbo e melodia. Dal punto di vista visivo, dato che parliamo di una performance, il canonico ghiaccio secco, rispetto alle esibizioni al chiuso dei Nostri, non riesce a saturare completamente l’ambiente, ma riduce a sufficienza la vista; i membri della band, in tunica e cappuccio di ordinanza, spuntano come monaci pazzi, compiono pochi movimenti lentissimi come la loro musica e aumentano i brividi lungo la nostra schiena. La sensazione di essere trasportati in un altro mondo viene completata dall’apparizione finale di Attila in un abito di specchi a metà tra Goldrake e la Statua della Libertà, che aggiunge fastidiosi riverberi visivi ai nostri sensi già affaticati. Si esce quasi ciechi, completamente sordi, spaesati. Il voto alla dimensione musicale resta inevitabilmente sospeso, ma che si sia trattato, come previsto, di un’esibizione unica e “altra” non c’è alcun dubbio.
(Simone Vavalà)
ABBATH
Dimenticato l’esordio non proprio felice in quel di Londra, Abbath si conferma in forma ed in sintonia con la sua band: l’ex Immortal e King ov Hell tengono ottimamente il palco, spaziando da pezzi del debut eponimo, un pezzo degli I e ben cinque pezzi degli Immortal (praticamente metà setlist). Che Abbath sia un gran frontman si sa da tempo e la cornice dell’Hellfest, complice l’orario consono ad una band black metal (inizio alle 00:50 per un’ora di concerto) e l’allestimento del Temple non fanno che esaltare la performance. Dall’inizio con “To War!” e “Nebula Ravens Winter” fino alla conclusione con “Count The Dead” e l’epica “All Shall Fall”, gli Abbath non hanno sbavature e macinano pezzi, gettando un’atmosfera gelida e notturna sui numerosissimi astanti. Alcuni problemi tecnici (a metà concerto) fanno saltare l’impianto per ben tre volte nel giro di pochissimi minuti, ma la band non si scompone, mentre Abbath cerca di intrattenere il pubblico e riesce a non spazientirsi e a non intaccare il mood creato dallo show. Dopo il disguido, tutto fila liscio fino alla fine. A termine concerto, Abbath prende la parola per ringraziare il pubblico che, nonostante i problemi appena citati, non ha lasciato lo show ed ha atteso che tutto si risolvesse; come se questo non fosse abbastanza, scende dal palco e stringe la mano a tutte le persone in transenna (tra le quali anche chi vi scrive), fermandosi a scambiare due parole con tutti e prestandosi alle foto di rito, a dimostrazione che, oltre ad essere una leggenda, nonostante tutto ciò che si dice e si legge, Abbath è anche un grande professionista.
(Lorenzo Ottolenghi)
Setlist:
To War!
Nebular Ravens Winter
Warriors
In My Kingdom Cold
Winterbane
Ashes of the Damned
Tyrants
One by One
Count the Dead
All Shall Fall