18/06/2016 - HELLFEST 2016 – 2° GIORNO @ Clisson - Clisson (Francia)

Pubblicato il 13/08/2016 da

Report a cura di Giovanni Mascherpa, Lorenzo Ottolenghi, Stefano Protti, Simone Vavalà
Foto a cura di Francesca Fornasari, Philippe Bareille (Flickr), Arnoud Bouvard (Flickr), Francois aka Mister Pink (Flickr)

Eccovi il report della seconda giornata dell’Hellfest 2016. Potete leggere il report della prima giornata di festival a questo link.

 

Hellfest 2016 - teschio alla sera - 2016
Hellfest 2016 - area merch notturna - 2016
Hellfest 2016 - ingresso area concerti - 2016
MANTAR

Cresciuti in fretta e passati nel giro di un disco dalla Svart alla potente Nuclear Blast, il duo tedesco dei Mantar va ora a caccia di consensi e nuovi fan nei principali festival open air. La folla che li segue in questa apparizione francese è apprezzabile, il miscuglio di sludge, hardcore e black metal di “Death By Burning” e “Ode To The Flame” ha già attecchito nella fetta di pubblico meglio disposta a piccole contaminazioni tra generi. La batteria messa di lato di Erinc consente di occupare meglio gli spazi di quanto sarebbe successo se fosse stata, come di consueto, sullo sfondo, mentre il chitarrista/cantante Hanno se ne sta sulla sinistra, impegnato a districarsi fra microfono e il mare di effetti necessario a coprire la mancanza del basso. Ecco, il problema dei Mantar dal vivo è che il suono diventa più disadorno, scheletrico, la chitarra si perde nel riverbero. Di base, i pezzi quelli sono e vengono suonati con precisione, mettendoci foga e passione in quantità industriali. Soltanto, su disco una buona produzione e un’impeccabile calibrazione degli effetti danno un peso specifico debordante alle chitarre e la batteria emerge ma non invade lo spazio della sei corde. Sotto il Valley accade il contrario, invece: i tamburi sovrastano l’operato di Hanno e ottimi brani quali “Era Borealis”, “Astral Kannibal”, “Praise The Plague” soffrono di staticità e poca definizione. Niente di tragico, i Mantar non sfigurano e in corso d’opera è evidente una crescita di partecipazione, testimoniata anche dall’accensione di qualche piccolo focolaio di mosh. Il pezzo più fascinoso sfornato finora, “White Lights”, chiude una discreta prestazione per i ragazzi di Amburgo: il futuro è dalla loro parte.
(Giovanni Mascherpa)

SIXX:A.M.

Anche in Francia osserviamo come i Sixx:A.M. non abbiano ancora ‘sfondato’ del tutto il mercato europeo e rappresentino per ora soltanto la ‘nuova’ band di Nikki Sixx. Viene da pensarlo guardando le reazioni non troppo esagitate durante un’esibizione che, al netto di volumi flebili e una chitarra ritmica sotto i minimi termini nell’equalizzazione, non tradisce la qualità assoluta dei dischi. È fresca l’esibizione in quel di Monza in occasione del Gods Of Metal, della quale quella francese è la fotocopia sputata, in senso positivo si intende. James Michael se possibile canta ancora meglio che su suolo italiano, sarà che gli strumenti stanno più in basso del dovuto nel mix generale, ma le note squillanti in possesso del singer e il suo romanticismo cromato hanno gioco facile ad imporsi. DJ Ashba, dalle fattezze sempre più simili a quelle di un bambolotto dark, riscatta le sue parvenze quasi grottesche con una prova sfacciata nell’impostazione scenica e precisissima nel riprodurre le sferzate eleganti e ruffiane patrimonio del suo stile chitarristico. Giovanile e tonico, Nikki Sixx ha la discrezione per prevaricare i compagni col suo carisma e mettersi saggiamente al servizio di brani che dal vivo acquistano in potenza e drammaticità, spostando l’ago della bilancia dall’hard rock al puro heavy metal. Highlight la tortuosa “Prayers For The Damned”, l’incalzare terremotante di “Everything Went To Hell” e l’inno alla vita di “Life Is Beautiful”. Peccato per i suoni e la setlist contenuta, c’è voglia di una nuova calata in veste di headliner per i Sixx:A.M., senza limiti di tempo e in una cornice che renda giustizia al loro valore.
(Giovanni Mascherpa)

Setlist:
This Is Gonna Hurt
Rise
When We Were Gods
Everything Went to Hell
Prayers for the Damned
Lies of the Beautiful People
Stars
Life Is Beautiful

Sixx Am - hellfest 2016 - 2016

HEIDEVOLK

Gli Heidevolk si presentano sul palco del Temple in sei, con Jacco De Wijs che sembra ormai tornato in pianta stabile nella formazione della band olandese come seconda voce e, dopo una breve intro, partono con “Winter Woede” estratta dall’ultimo lavoro “Velua”. Il pubblico è subito molto partecipe (come in tutti i concerti folk metal, genere che, a dispetto di un periodo di stanca creativa, attira sempre molte persone dal vivo, segno che l’apprezzamento per questo tipo di musica è ancora molto vivo). L’atmosfera è decisamente festosa e l’interazione tra band e pubblico ottima, complice anche una setlist che riesce a pescare da tutti gli album della band (escluso il debut “De Strijdlust Is Geboren”, forse ormai un po’ lontano dal sound degli Heidevolk). Tutto sommato il concerto riesce bene, con gli olandesi in forma e molto attivi nel coinvolgere il pubblico ed un’atmosfera allegra perfettamente a tema con il genere proposto.
(Lorenzo Ottolenghi)

AGORAPHOBIC NOSEBLEED

Basso, chitarra, batteria elettronica preregistrata, due voci. Gli Agoraphobic Nosebleed sono talmente bravi che non hanno bisogno di scenografia e nemmeno di costumi di scena, solo dei loro strumenti e di un palco. Prima parte del concerto prettamente grind, dove schegge digitali impazzite come “Bitches Handbag Full of Money”, “Timelord One”, “Hung From The Rising Sun” e “Built to Grind” si conficcano nei timpani con violenza inaudita (“Agoraphocalypse” il loro lavoro più rappresentato), e solo a brevissimi tratti emergono strutture più articolate dalle influenze death (“Killtheme”, “Question of Integrity”) e sludge (“Pantheon Crack Torch”). Le sfumature tuttavia crescono con il tempo, per culminare nel recupero di “Unusual Cruelty”, tour de force tecnico in grado di mescolare sludge, doom e grind in un unico (disgustoso) impasto sonoro. Difficile rimanere indifferenti al suono proposto, impossibile non rimanere stupiti di fronte a Katherine Katz e Jay Randall e alla loro espressione da bambini appena saliti sulla loro giostra preferita. E’ giusto così, in fondo: musicisti che credono in un progetto, per quanto estremo e disturbante sia. Performance eccellente, con l’unica (perdonabile) mancanza di non aver proposto nessun estratto dal nuovo EP “Arc”, di marcata influenza doom/sludge.
(Stefano Protti)

TORCHE

Ci guardiamo a destra, a sinistra, di fronte e dietro e sì, lo possiamo dire senza ombra di dubbio: i Torche hanno svoltato. Il Valley è tutto un fermento quando salgono sul palco gli americani, guidati dal baffetto furbo di Steve Brooks, uno dei due cantanti assieme a Andrew Elstner. Trascinati da un disco straordinariamente catchy come “Restarter”, i quattro hanno vita facile nel soddisfare le attese e mandare in ebollizione un po’ tutti quanti, forti di un materiale che incrocia sludge, stoner, prog e alternative senza galleggiare troppo in alcuno di questi settori. Per una volta, sotto il tendone dedicato a sludge e doom non trionfa la pesantezza quanto i ritornelli facili e le melodie solari, ariose, incastonate in un tessuto sonoro che non difetta comunque di un’agile potenza e una solida quadratura. Un po’ Baroness, un po’ ultimi Mastodon, con un occhio di riguardo a una dimensione più rock che metal, i Torche azzeccano tutto, dall’outfit poco appariscente, ai modi simpatici nient’affatto forzati, ai giochi di chitarre che li portano anche a toccare l’emisfero dei Thin Lizzy, tanto sanno valorizzare l’armoniosità dell’incontro fra le sei corde. Piace molto anche l’interazione delle voci, curate nell’interpretazione e mai sguaiate, vero valore aggiunto a canzoni snelle e vitali, che difettano a nostro parere solo di un pizzico di uniformità ritmica. Per il tipo di risposta provocata, il linguaggio affabile, le strizzate d’occhio all’orecchiabilità, i Torche potrebbero stare con giusta ragione sui Mainstage, non solo dell’Hellfest ma un po’ dappertutto. Se cercate una macchina spara-hit nell’underground, direi che l’avete trovata…
(Giovanni Mascherpa)

Setlist:
Sandstorm
Kicking
Grenades
Minions
Loose Men
Healer
Across the Shields
In Pieces
Reverse Inverted
Sky Trials
Believe It
Barrier Hammer
Undone
Annihilation Affair
Harmonslaught

Torche - hellfest 2016 - 2016

FOREIGNER

Il tempo passa, ma Mick Jones resiste inossidabile con i suoi Foreigner, anche se i compagni di viaggio, in questi quarant’anni di attività, sono cambiati più volte. Il mix di AOR e hard rock della band è ben noto a tutti, sebbene, forse, sia un po’ fuori dal suo contesto naturale (non certo per le dimensioni dell’evento, quanto per le altre compagini che partecipano al festival, tutte non particolarmente vicine come stile ai Foreigner); probabilmente anche per questo l’accoglienza del pubblico non è delle più calorose. Intendiamoci: nessuna contestazione, anzi, ma semplicemente una grossa fetta dei presenti assiste il concerto più con spirito di curiosità che con passione per la band (anche se, ovviamente, non mancano i fan del gruppo). Così vale per chi vi scrive, che seppur apprezzi molto “Double Vision” o “4” non è certo un grandissimo conoscitore dei Foreigner. Probabilmente qualcosa di simile vale per molti degli astanti che partecipano, non sempre con enorme trasporto. I Nostri hanno dalla loro il mestiere e sanno come coinvolgere, ci provano ed in più di un’occasione ci riescono, aiutati anche dai loro grandi classici (“Feels Like The First Time”, “Hot Blooded” o “Juke Box Hero”) che risvegliano in un attimo il pubblico da un leggero torpore. Forse è una di quelle giornate in cui un gruppo non è proprio nella sua forma migliore, forse è l’audience ad essere meno calorosa di quanto sarebbe lecito aspettarsi con una band come i Foreigner, ma tant’è che il concerto fatica a decollare, complice anche la voce di Kelly Hansen non esattamente al suo meglio. Molti attendono il finale con i due pezzi più celebri e quando arriva “I Want To Know What Love Is”, il sing-along è quello delle grandissime occasioni (e per fortuna, visto che la prova vocale è piuttosto discutibile). Si chiude con la già citata “Hot Blooded” e l’amaro in bocca per aver visto un buon concerto che avrebbe potuto essere, invece, un evento da ricordare a lungo.
(Lorenzo Ottolenghi)

Setlist:
Double Vision
Head Games
Cold as Ice
Feels Like the First Time
Urgent
Juke Box Hero
I Want to Know What Love Is
Hot Blooded

ENTOMBED A.D.

E’ tempo di death metal old-school all’Altar, ed ecco gli Entombed A.D. pronti a mettere a ferro e fuoco l’Hellfest. Si inizia con la recente “Midas In Reverse” ed è subito chiaro che la band è in gran spolvero ed il pubblico pronto a rispondere agli alfieri del death metal svedese (o, almeno, a questa loro incarnazione che sembra, finalmente, aver trovato i giusti equilibri). Il gruppo picchia forte, vuol fare male e ci riesce senza problemi appena parte il primo pezzo dei vecchi Entombed: “Stranger Aeons”, direttamente dal capolavoro “Clandestine”. Gli svedesi sono mastodontici pur nella loro grezza immediatezza e L.G. non si risparmia un secondo, urlando e sputando odio nel microfono; certo, un po’ di potenza il ‘vecchio’ Petrov l’ha persa per strada, ma la sua capacità di tenere il palco e la sua timbrica malsana sopperiscono egregiamente a quanto ceduto agli anni che passano. Si procede con una setlist che alterna pezzi (pochi) della nuova creatura e song estratte dai tre seminali primi album degli Entombed originali (“Left Hand Path”, “Clandestine” e “Wolverine Blues”). La violenza sonora rovesciata sul pubblico è diretta, le melodie intrecciate dalle chitarre richiamano fasti immortali e quando parte “Revel In Flesh”, primo estratto da “Left Hand Path”, si scatena il delirio collettivo. Seguono “Wolverine Blues” e poi le immense “Left Hand Path” e “Supposed To Rot”. Gli Entombed A.D., grazie a L.G. Petrov, ormai incarnano il vero spirito degli Entombed ed ogni volta che assistiamo ad un loro show non possiamo che gioire per il ritorno (ormai consolidato) di una band che temevamo relegata al dimenticatioio. Forse no, tutti siamo destinati a marcire, ma non è ancora giunto quel momento per i mostri sacri svedesi.
(Lorenzo Ottolenghi)

Setlist:
Midas In Reverse
Stranger Aeons
Second to None
Eyemaster
Dead Dawn
Living Dead
The Winner Has Lost
Revel in Flesh
Wolverine Blues
Left Hand Path
Supposed to Rot

WITH THE DEAD

Tutti e quattro vestiti di nero, impassibili, immobili, i With The Dead incarnano la quintessenza del doom. Rimescolata la formazione nei primi mesi di quest’anno con la fuoriuscita di Mark Greening e l’ingresso di Leo Smee (basso) e Alex Thomas (batterista), la nuova incarnazione di Lee Dorrian sta cercando di bissare gli ottimi riscontri del folgorante esordio omonimo. L’impressione generata, durante e al termine della spossante esibizione di Clisson, è contraddittoria. Per quello che ci è dato di vedere e ascoltare, i With The Dead non riescono a riproporre fuori da uno studio di registrazione il medesimo clima mortifero, assestandosi su una estremizzazione del sound dei Cathedral e un ispessimento del classico doom settantiano. Niente di disdicevole, intendiamoci, l’aderenza formale non viene meno, le canzoni sono suonate perfettamente, nota per nota, linea vocale per linea vocale. Dorrian ci appare più brillante che nelle occasioni in cui l’avevamo osservato all’opera con la sua band precedente, non ha bisogno di grandi mosse per magnetizzare gli sguardi, il suo carisma innato e la vocalità strascicata per questo bastano e avanzano. Se “With The Dead” colpiva per una profondità di colpi quasi death-doom, al Valley “Living With The Dead” e “The Cross”, per citare due degli episodi di un’opera riproposta ordinatamente per intero, soffrono di staticità e un pizzico di monotonia. L’accumulo di negatività dell’album viene quindi in parte smorzato a favore di un’esecuzione meno pirotecnica, che sacrifica pastosità limacciosa a riverberi inquietanti ma non così roboanti come ci si aspetterebbe. Bene, non benissimo allora, la calata oltreconfine dei doomster albionici.
(Giovanni Mascherpa)

Setlist:
Crown of Burning Stars
The Cross
Nephthys
Living With the Dead
I Am Your Virus
Screams From My Own Grave

JOE SATRIANI

La testa calva di Joe Satriani fa capolino sul Main Stage 1 dell’Hellfest per dare il via a quasi un’ora di onanismo chitarristico. Non mettiamo in dubbio le capacità tecniche dell’ipotricotico chitarrista, che non manca di sciorinare virtuosismi, ma – se anche ammettiamo che la proposta musicale sia anni luce lontana dagli ascolti di chi scrive – ci sentiamo di dire che presentarsi su di un palco dovrebbe richiedere un minimo di interazione col pubblico (qualcosa che, per esempio, un Malmsteen riesce a fare egregiamente); Satriani, invece, sembra interessato a dialogare solo con la sua chitarra (e pare convinto che questa risponda), ignorando bellamente il pubblico che, forse, non vede nella sua esibizione il clou della tre giorni francese. Per fortuna (del buon Joe e degli organizzatori) non tutti la pensano come il sottoscritto ed un discreto numero di persone segue la performance di Satriani, con la compostezza che si deve all’evento. L’orario del concerto (le 18:30) e la latitudine che garantisce un Sole ancora discretamente caldo, senza essere eccessivamente ‘aggressivo’, fanno contenti anche tutti quelli che sono meno interessati all’esibizione del guitar-hero, che possono trovare un’oretta per riposarsi. Ogni tanto, in una kermesse come quella dell’Hellfest, servono anche concerti di questo tipo.
(Lorenzo Ottolenghi)

Joe Satriani - Hellfest 2016 - 2016

ARCHGOAT

Tre quarti d’ora in compagnia degli Archgoat. Significa far bisboccia col diavolo e tutti i suoi amichetti più cattivi. Gli atroci reami del death-black corrotto e blasfemo sono il perimetro entro il quale opera il trio finnico, che interpreta la materia estrema annullando quasi completamente sentori di melodia, ariosità, senso della misura. Lord Angelslayer, Ritual Butcherer e VnoM randellano e brutalizzano, oltraggiano, compiono scempi. Metallurgia d’alto bordo, in ogni caso, la mancanza di respiro e la persistenza nel ferale non possono attirare ascoltatori distratti, mentre tra i – molti – frequentatori dell’extreme metal più sadico questi tre loschi figuri sono delle star. Inoltre, l’apparente staticità dovuta all’assenza di ritmi coinvolgenti e spunti avulsi da partiture omicida viene parzialmente smentita da rallentamenti mefitici, momenti di totale pazzia, un turpe gusto per l’esagerazione. Intendiamoci, la varietà è un’altra cosa, però all’interno del ristretto filone d’appartenenza gli Archgoat offrono quel minimo di mutamenti di pelli che li distingue fra i semplici ensemble in odore di rumorismo. Quasi non si muove foglia tra gli astanti, qualcuno accenna a muoversi a tempo con la musica, accorgendosi in breve che sia un’impresa di sicuro insuccesso, vista la foga disumana dei musicisti. I quali generano vero senso di minaccia, sia per il trucco di scena, che per la borchiatura sovrabbondante e il disgusto dipinto in volto. Fila tutto via liscio, pretendere qualcosa di diverso visti i presupposti di partenza sarebbe stato insensato e, pur non annoverando la band tra quelle imperdibili dell’Hellfest 2016, non la mettiamo di certo fra le delusioni.
(Giovanni Mascherpa)

Setlist:
Nuns, Cunts and Darkness
Lord of the Void
Apotheosis of Lucifer
Grand Luciferian Theophany
Blessed Vulva
The Apocalyptic Triumphator
Goat and the Moon
Goddess of the Abyss of Graves
Penis Perversor
Day of Clouds
Rise of Black Moon
Hammer of Satan

ASPHYX

Se non ne avessimo avuto abbastanza di storia del death metal, sull’Altar è il momento degli olandesi Asphyx. Martin Van Drunen e soci sono pronti a rovesciare tutto il peso della loro musica sul pubblico, musica che alterna violenza devastante e rallentamenti possenti, nello stile unico del gruppo. Si inizia con “Into The Timewastes” dall’ottimo “Deathhammer” (forse il disco che più di tutti simboleggia la rinascita della band). La setlist è quasi interamente incentrata sul periodo post-reunion (da “Death…The Brutal Way” in poi, per intenderci) ed, in effetti, sembra una scelta azzeccata visto che per molti degli astanti gli Asphyx sono la band degli ultimi dieci anni scarsi. Martin si rivela un frontman eccezionale e la sua interazione col pubblico è sicuramente parte del successo dell’esibizione dei deathster olandesi che spronano, incitano e – a tratti – sembrano quasi stupiti della risposta che ottengono. D’altronde gli Asphyx sono a buon diritto considerati una cult band e sia i fan del genere più portati alla conoscenza approfondita delle band che amano che chi è più in là con gli anni (come chi vi scrive) non possono che esplodere in un tripudio di gioia malsana quando arriva il momento della micidiale combo “Wasteland Of Terror” e “The Rack”, direttamente dal debut della band, datato 1991. Dopo il regalo ai fan di vecchia data, il concerto si chiude con “Scorbutics” e la devastante “Last One On Earth”. Gli Asphyx ci lasciano e noi ascriviamo un altro concerto alla lista degli show che ci resteranno impressi da questo Hellfest.
(Lorenzo Ottolenghi)

Setlist:
Into the Timewastes
Food for the Ignorant
Death the Brutal Way
Deathhammer
Asphyx (Forgotten War)
Der Landser
Wasteland of Terror
The Rack
Scorbutics
Last One on Earth

GOATSNAKE

Che i Goatsnake siano uno dei carichi da novanta della scena stoner/doom è indubbio, ma con l’esibizione di oggi meritano veramente di assurgere al podio destinato alle band rare. A parte il recente ingresso di Scott Renner al basso, il supergruppo vede fin dagli albori la coppia Pete Stahl e Greg Anderson a tenere il palco alla grande, ottimamente supportati dietro le pelli da Greg Rogers; se quest’ultimo si conferma un metronomo anche nei passaggi più lenti ed impegnativi, i due frontman continuano, dopo venti anni di carriera, a stupire per l’energia a disposizione e la capacità di trasmetterla al pubblico. Rispetto all’esibizione del giorno prima con i Sunn O))), Anderson è scevro da ogni posa ieratica e vomita riff lavici con maestria, mentre Pete si conferma un vocalist da brividi, decisamente sottovalutato quando si stilano classifiche: una voce calda e melodiosa, straziante quando serve, che fa capire quanta strada sia passata dagli anni degli Scream, ma anche come, in fondo, la lezione sia quella. Un vero cantante, che si presta all’esibizione dolorosa tipica dello sludge, ma senza gettare alle ortiche il suo talento. La scaletta viene equamente distribuita tra i tre full-length finora pubblicati, con sugli scudi “A Killing Blues” e “Black Age Blues” (ma guarda la fantasia), tratti dall’ultimo eccellente lavoro. Assolutamente da non perdere, nelle loro sporadiche calate in Europa.
(Simone Vavalà)

Goatsnake - hellfest 2016 - 2016

BAD RELIGION

L’accesso e la permanenza nella Warzone sono state sicuramente migliorate rispetto all’inaccessibile cul de sac del 2015, eppure risulta ancora difficile entrare, se non con un anticipo mostruoso o per concerti di band minori. Va da sé che l’apparizione dei Bad Religion non rientra in questa seconda casistica ed ecco che, oltre a giungere a fatica e a concerto già iniziato, siamo costretti ad assistere da posizione defilata e lontanissima. L’impressione complessiva, comunque, è che la band del professor Graffin meriti e ripaghi sempre gli straordinari bagni di folla tributati, grazie a un’energia invidiabile e che sembra non risentire del trascorrere del tempo o dei cambi di formazione. I classici ci sono tutti, con il giusto peso dato al periodo d’oro di inizio anni Novanta: su tutte “Generator”, “Recipe For Hate” e l’inevitabile finale affidato ad “American Jesus”. Chi vi scrive si è recato a questo palco solo una volta in tre giorni, senza sicuramente rimanere deluso da questi eterni padrini del punk rock.
(Simone Vavalà)

Setlist:
Fuck Armageddon… This Is Hell
Supersonic
Prove It
Can’t Stop It
New Dark Ages
Fuck You
I Want to Conquer the World
Recipe for Hate
21st Century (Digital Boy)
Social Suicide
You Are (The Government)
Suffer
Delirium of Disorder
Do What You Want
Overture
Sinister Rouge
You
Generator
Infected
Sorrow
American Jesus

Bad Religion - Hellfest 2016 - 2016

TERRORIZER

Leggenda sbiadita. Sbiaditissima, quella dei Terrorizer, portati avanti stancamente da Pete Sandoval, in una via crucis che all’Hellfest tutto sommato non tocca nemmeno vette di raccapriccio rilevanti, come accaduto altrove negli ultimi anni. Vedendo all’opera il trio, avente in posizione di bassista e chitarrista due onesti mestieranti e nulla più – Sam Molina, anche cantante, e Lee Harrison – viene però da chiedersi se abbia senso andare avanti a queste condizioni. E se sia il caso di chiamare la band in contesti di tale rilevanza, oltretutto in posizioni da headliner. Il death-grind degli attuali Terrorizer, a causa anche di un drumming appannato di Sandoval stesso, viaggia sui tristi binari della standardizzazione, non avvicinando neanche per sbaglio l’intensità oltraggiosa del seminale “World Downfall”. L’amore per quel disco pompa adrenalina nelle vene a un cospicuo numero di individui, a dire il vero, facendo partire bolge di tutto rispetto vicino alle transenne. Fin qui tutto bene. Sul lato strettamente musicale, l’interpretazione è scolastica, piatta, ingenerosa verso la qualità pregiata dei brani di partenza. Non si assiste a un festival dell’approssimazione come accaduto, ad esempio, al Neurotic Deathfest del 2014, però quel senso di degenerazione dissoluta che il grind dovrebbe avere qua non lo si sfiora nemmeno. L’inadeguatezza strumentale rende solo decenti capisaldi dell’estremismo sonoro come “Storm Of Stress” e “Fear Of Napalm”, non bastano pose da cattivi e qualche occhiata inviperita all’audience per far decollare un concerto che dice tutto dopo una decina di minuti. Quel che resta (tanto) va avanti stancamente fino alla sofferta conclusione. Uno degli slot peggio assegnati e occupati di questo Hellfest.
(Giovanni Mascherpa)

HERMANO

Il mondo non è stato molto generoso con John Garcia, una volta chiusa l’avventura dei Kyuss. L’uomo che è stato paradigma su cui costruire un intero stile si è trovato ad essere improvvisamente culto di secondo piano, mentre l’innegabile appeal melodico di Josh Homme si faceva strada in classifica. Un destino beffardo che ha frenato un progetto potenzialmente vincente come quello degli Hermano, che per due anni sono rimasti bloccati da problemi contrattuali ai nastri di partenza con un disco bomba (“Only A Suggestion”, poi ignorato dal grande pubblico) pronto ad essere pubblicato. Comprensibile quindi come, dopo questa e le delusioni commerciali successive, il gruppo non abbia dato più notizia di sè dal 2007, anno di “Into The Exact Room”, la cui “Left Side Bleeding” apre il set di stasera. Inutile questionare su cosa possano suonare gli Hermano, John Garcia è garanzia di hard rock roccioso, melodie venate di blues, voce dal timbro caldo e rassicurante. A proporlo come colonna sonora si potrebbe pensare ad una puntata di Overland ambientata nel deserto americano, in compagnia di camionisti pronti ad accelerazioni improvvise (“Cowboys Suck”, “Kentucky”) come a brevi soste per una birra (“My Boy”, che ricorda i migliori Screaming Trees), ma in generale legati ad un ritmo lineare, rassicurante e adatto a farsi seguire battendo le dita sul volante (“5 to 5”, “Senor Moreno’s Plan”, “Our Desert Home”). Pochissime le deviazioni permesse, tra cui una “Alone Jeffe” che va curiosamente ad invadere proprio il territorio dei Queens Of The Stone Age ed il gran finale di “Angry American” che in certi punti sembra volersi sovrapporre alla “Green Machine” di gloriosa memoria. Bravi, e pure se verso la fine affiora un po’ di stanchezza e di necessità di pilota automatico, rimane la certezza di aver visto un gruppo che ha davvero ricevuto molto meno del dovuto dalla fortuna.
(Stefano Protti)

Setlist:
Left Side Bleeding
The Bottle
Cowboys Suck
5 to 5
Senor Moreno’s Plan
My Boy
Inedito
Our Desert Home
Is This OK?
Alone Jeffe
Kentucky
Manager’s Special
Angry American

Hermano - Hellfest 2016 - 2016

BRING ME THE HORIZON

Cresce di anno in anno la presenza di band metalcore all’Hellfest, segno che, al di là delle preferenze personali, la scena è viva e richiama pubblico. Un pubblico sicuramente giovane, che non ha probabilmente mai abbandonato i palchi principali per tutta la durata del festival; ma se c’è una cosa che ci ha insegnato il metal è il fatto che siamo tutti fratelli. Almeno finché non si diventa parodistici, per esempio con un cantante che si agita come un clone triste di Iggy Pop, passando più tempo a mostrare i tatuaggi a favore di camera e gigioneggiando con uno screamo stantio, perché è di questo che parliamo nel recensire l’esibizione di Oliver Sykes e compagni. Musicalmente una lezioncina sicuramente accattivante e un po’ ripetitiva, che sicuramente non si segnala tra i top della giornata, dato che lascia parecchio freddi gli astanti; e non solo quelli forzatamente assiepati in attesa degli headliner. Da rivedere, ma anche no.
(Simone Vavalà)

PRIMORDIAL

I Primordial, ormai da più di vent’anni, rappresentano il cuore black metal dell’Irlanda, oltre ad essere una band che, da “Imrama” in avanti, non ha mai sbagliato un colpo. Negli ultimi anni, poi, l’interesse verso la band è cresciuto molto e gli anni di gavetta hanno dato il loro frutto. Così eccoci a raccontarvi uno dei migliori concerti della tre giorni in terra francese. La musica dei Primordial (perdonateci il gioco di parole) è davvero primordiale, ancestrale: da ogni nota strappata dalle chitarre di Ciaran e Micheal proviene l’orgoglio, la sofferenza e la lotta di uno dei popoli più fieri d’Europa. Si parte con “Where Greater Men Have Fallen” e l’atmosfera nel Temple si fa subito incandescente. I blackster irlandesi hanno una presenza scenica notevole, ma non necessitano di ‘mossette’ e ammiccamenti: la loro musica parla al cuore e ci racconta di battaglie, di sconfitte e di vittorie, di onore e di virtù. Segue l’odio blasfemo di “No Grave Deep Enough” e di “Babel’s Tower” fino all’apoteosi di “As Rome Burns”. I Primordial non sono solo musicisti, sono anche poeti e le loro parole echeggiano dal passato e rimbombano nel presente, quando ci ricordano che noi potremo anche distogliere lo sguardo, ma i nostri figli non lo faranno. Si prosegue su toni più rabbiosi con “Lain With The Wolf” e “Wield Lightning To Split The Sun”, per concludere con un ritorno ai Primordial più amari e riflessivi di “Empire Falls”. La musica degli irlandesi non può lasciare indifferenti e, al termine del loro show, si resta quasi attoniti se si ha avuto la capacità di percepire il messaggio della band. Una prestazione magistrale, fatta di rabbia e violenza, un concerto che potremmo tranquillamente segnalare come uno dei quattro o cinque migliori di tutto il festival (e, sicuramente, uno dei più sentiti e coinvolgenti visti quest’anno). Ogni impero è destinato a cadere, già, ma il regno dei Primordial sembra essere lontanissimo dal compimento del suo destino.
(Lorenzo Ottolenghi)

Setlist:
Where Greater Men Have Fallen
No Grave Deep Enough
Babel’s Tower
As Rome Burns
Lain With the Wolf
Wield Lightning to Split the Sun
Empire Falls

Primordial - Hellfest 2016 - 2016

TWISTED SISTER

Headliner della seconda serata, si materializzano con la più classica e ormai storica presentazione: le note di “It’s A Long Way To The Top” introducono la salita sul palco, poi lo speaker che li annuncia: ed ecco, Signore e Signori, IL concerto della giornata. Sì, perché chi vi scrive si è recato per circa sei ore in tre giorni al cospetto dei palchi principali, ma è inutile atteggiarsi a paladino dell’estremo schifato da tutto il resto: Dee Snider & co. danno una lezione esemplare a circa 110 band presenti alla kermesse, con classe, humour e tanto, tanto sudore. Dire che i loro brani sono degli inni è persino riduttivo: la scaletta, che pesca prevedibilmente dai soli primi quattro album, fa cantare il pubblico ininterrottamente. Ma è l’esibizione della band a fare la differenza; Snider è in una forma – anche fisica – a dir poco invidiabile, corre e incita per due ore, non sbaglia una nota o al massimo rende appena più rochi e accattivanti certi passaggi, con straordinario mestiere. Jay Jay French, Fingers e The Animal sono tutt’altro che comprimari, accompagnano l’istrionismo del cantante con assoli perfetti, un basso potente, e portano con dignità i segni del tempo. O, nel caso di “Animal” Mendoza, è più corretto dire con menefreghismo: sembra in effetti un grasso pappone ma è evidente quanto si diverta, si occupa come sempre del controcanto più cupo e tiene ritta la spina dorsale della band. Menzione d’onore anche per Mike Portnoy, batterista le cui leziosità chi vi scrive non ha mai sopportato (segnatevi il nome più sotto, per inviarmi animali morti a casa), ma che sa stare al suo posto, suonando con potenza, mostrando la giusta soggezione verso i compagni di viaggio e contribuendo alla grande all’esito complessivo. I brani potrebbero essere citati tutti quasi alla pari, ma estrapoliamo dal lotto almeno “Burn In Hell”, dove Snider si trasforma in un vero demone e trascina il pubblico in un sabba (però gioioso), l’immancabile “We’re Not Gonna Take It”, che si trascina mirabilmente per una buona decina di minuti di cori a scena aperta, concendendo all’istrionico cantante di dire la sua sull’era di terrore e attentati che stiamo vivendo, francamente con intelligenza, semplicità e sincerità. Va menzionato sicuramente anche il siparietto in cui ricorda come questa sia davvero l’ultima tournée per la Sorella Schizzata, Not like the Almost Last Tour of Judas Priest or the Supposed End of Black Sabbath, divertite citazioni a band amiche, fatte senza polemica ma con abbondanti sogghigni. E ancora il momento di “The Price”, power ballad da brividi con emozionata dedica al compianto A. J. Pero. Tanta commozione nel momento del ricordo del batterista, che porta Dee Snider a menzionare le tante personalità del mondo della musica non più tra noi; non ultimo, chiaramente, Lemmy, ed ecco che una sorpresa si aggiunge a uno spettacolo già portentoso: sale sul palco il furetto Phil Campbell per una grandiosa doppietta, “Shoot’em Down” e “Born To Raise Hell”, che regala gioie e brividi a tutti i presenti. Resta ancora il tempo per il finale affidato alla sempre trascinante “S. M. F.”, che probabilmente non ha visto nessuno dei 55’000 presenti esimersi dai cori. Un salto indietro nel tempo, ma sempre in avanti per resa: semplicemente grandiosi.
(Simone Vavalà)

Setlist:
What You Don’t Know (Sure Can Hurt You)
The Kids Are Back
Burn in Hell
Destroyer
You Can’t Stop Rock ‘n’ Roll
The Fire Still Burns
We’re Not Gonna Take It
The Price
I Believe in Rock ‘n’ Roll
I Wanna Rock
Shoot ‘Em Down
Born to Raise Hell
S.M.F.

Twisted Sister - hellfest 2016-1 - 2016

Twisted Sister - Hellfest 2016-2 - 2016

NAPALM DEATH

Il tempo non consuma i Napalm Death. Ne è un loro fedele alleato. Uno dei processi di invecchiamento meglio gestiti dell’intera scena estrema è quello manipolato magistralmente dai seminali death-grinder di Birmingham, gente che finché camperà non darà mai l’impressione di essersi seduta o suonare per portare a casa un buon ingaggio. Carisma, fedeltà agli ideali e classe trasudano dai quattro, che asfaltano l’Altar e qualsiasi concorrente con una prestazione sbalorditiva, impressionante in ogni aspetto. Il primo dato rilevante è quello della brillantezza: ci si scorda che quell’energumeno di Embury strappa urla dal basso da trentacinque anni, o che Greenway sbraita nel microfono da quasi altrettanto tempo, perché la riproposizione di se stessi su questo palcoscenico non conosce stanchezze né incertezze. Il secondo è la profondità della discografia: che siano schegge di breve durata o brani strutturati, ogni minuscolo passaggio e filler emana sensibilità e intelligenza in quantità e qualità smisurate, coprendo un ventaglio di soluzioni pressoché infinito. Dimensione alta e dimensione bassa dell’esistenza coesistono in riflessioni pungenti, acute e rabbiosissime, sfocianti in uno spettro umorale comprendente da tempo non solo death e grind, ma anche sludge, noise, doom e quasi ogni altro suono riconducibile all’estremo. Il terzo elemento cardine è l’idea di unicità che i Napalm Death continuano a portarsi addosso. Schiere di imitatori e seguaci non possono raggiungere una tale definizione, cura e credibilità nel maneggiare certa pericolosa materia, anche le accurate presentazioni del cantante, i suoi pensieri nell’introdurre un nuovo capitolo della setlist, danno il senso di un’esperienza irripetibile, non replicabile da chiunque altro. Una qualità dei suoni impeccabile, la migliore per chi scrive udita sull’Altar nei tre giorni, consente ai quattro inglesi di apparecchiare uno show mostruoso, salutato con le dovute reazioni inconsulte dai fan storici e novizi. Quando nobiltà e brutalità convolano armoniosamente a nozze.
(Giovanni Mascherpa)

Setlist:
Apex Predator – Easy Meat
Silence Is Deafening
When All Is Said and Done
Smash a Single Digit
Timeless Flogging
Continuing War on Stupidity
Dear Slum Landlord…
Scum
Social Sterility
Deceiver
Suffer the Children
Breed to Breathe
Mentally Murdered
Hierarchies
The World Keeps Turning
Conform
Lucid Fairytale
How the Years Condemn
You Suffer
Nazi Punks Fuck Off
Adversarial/Copulating Snakes

DARK FUNERAL

Nella strage di membri dei Dark Funeral che il dispotico Lord Ahriman ha preteso come tributo nel corso degli anni, uno degli ultimi caduti è stato Emperor Magus Caligula, nella band da “Vobiscum Satanas” in poi. La curiosità, quindi, è molta: il ritorno dei blackster svedesi con il recente (e ottimo) “Where Shadows Forever Reign” con l’esordio di Heljarmadr alla voce ha ampiamente ripagato i sette anni di attesa e la band si è dimostrata in grandissima forma; la prova dal vivo, quindi, era l’ultimo suggello per salutare un altro grandissimo ritorno. Quando i blackster di Stoccolma si presentano sul palco, sono glaciali ed imponenti: su tutti svetta la figura di Ahriman che, a parte spostarsi da un lato all’altro del palco, manterrà per quasi tutto il concerto una postura pressochè immobile, nel miglior stile del classico black metal. Si parte con materiale nuovo (“Unchain My Soul”), ma – pur privilegiando l’ultimo album – i Dark Funeral ci propongono una setlist che riesce a coprire tutti i loro dischi; l’impatto sonoro è devastante: le chitarre riescono ad essere taglienti e corrosive ma, allo stesso tempo, ‘piene’ e potenti ed il drumming di Dominator è impressionante, creando – col basso – un muro sonoro gigantesco ed invalicabile, che travolge gli astanti in totale assenza di pietà. L’interazione col pubblico (in senso classico) è poca, per non dire nulla, ma la presenza scenica dei Dark Funeral non rende necessarie frasi o discorsi. Ci si tuffa nel passato con “The Arrival Of Satan’s Empire” e si sprofonda negli abissi infernali di “The Secrets Of The Black Arts”, per poi cedere alla violenza di “Atrum Regina” e “Hail Murder”. Eppure qualcosa, fin dall’inizio, impedisce alla performance di funzionare al 100%. E’ proprio Heljarmadr, che tanto bene ci aveva impressionato su disco, a non convincerci. La voce è carica di effetti, davvero troppi, ed a volte si ha addirittura l’impressione che saturi il suo canale. Errore dei tecnici? Forse per il volume, non certo per gli effetti che diventano sempre più evidenti con il procedere del concerto, dato che la voce inizia a perdere potenza e sia lo scream che le sporadiche parti in growl si aggrappano sempre di più agli artifici…e già a metà concerto, proprio sulla splendida “Vobiscum Satanas” i problemi (o i limiti?) di Heljarmadr diventano più che evidenti. Il tutto stride ancora di più, dato che il resto della band si comporta in maniera impeccabile ed i suoni sono tutti all’altezza sia dell’evento che della fama del gruppo. Parte “As I Ascend” ma, anche coi pezzi dell’ultimo disco, la prova vocale non migliora e resterà fino alla conclusione del concerto un vero e proprio punto debole per i Dark Funeral. Sicuramente qualcosa non ha funzionato esattamente come doveva, dato che ci pare strano che un perfezionista come Lord Ahriman abbia scelto, come rimpiazzo di un grandissimo cantante come Emperor Magus Caligula, qualcuno che non sia più che all’altezza di eguagliare le performance del suo predecessore. Più probabilmente abbiamo trovato il nuovo vocalist in una serata sfortunata, evento che può assolutamente capitare a qualunque musicista e, purtroppo, quando capita al cantante diventa molto più evidente. Per il resto, come dicevamo, il concerto dei Dark Funeral è perfetto e, al netto di quanto scritto, ci dimostra come i blackster svedesi siano ancora un gruppo dalle potenzialità micidiali.
(Lorenzo Ottolenghi)

Setlist:
Unchain My Soul
The Arrival of Satan’s Empire
The Secrets of the Black Arts
Atrum Regina
Hail Murder
Vobiscum Satanas
As I Ascend
Nail Them to the Cross
My Funeral
Where Shadows Forever Reign

 

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