19/06/2016 - HELLFEST 2016 – 3° GIORNO @ Clisson - Clisson (Francia)

Pubblicato il 14/08/2016 da

Report a cura di Giovanni Mascherpa, Lorenzo Ottolenghi, Stefano Protti, Simone Vavalà
Foto di Francesca Fornasari, Philippe Bareille (Flickr), Arnaud Bouvard (Flickr), Francois aka Mister Pink (Flickr)

Report della terza e ultima giornata dell’Hellfest 2016. Qui il report della prima giornata, a questo link quello della seconda.

Hellfest 2016 - albero alla sera - 2016

Hellfest 2016 - Camden town - 2016

Hellfest 2016 - panoramica area concerti giorno - 2016

MUNICIPAL WASTE

Mosè apriva le acque, i Municipal Waste aprono i pit. Mezzogiorno di corsa e spintoni dalle parti dei Mainstage, quando i re del thrash-core danno il buongiorno a suon di rasoiate chitarristiche, urla acide e stop’n’go fuori controllo. Un sobrio backdrop raffigurante il buon Donald Trump che si spara in testa non distoglie l’attenzione dal cocktail di divertimento ubriaco, demenza e disimpegno offerto dai quattro della Virginia, che non mancano di catalizzare gli interessi anche di chi desidera, di norma, sonorità più sofisticate e un minimo di complessità. Con Tony Foresta e la sua squinternata combriccola si fa volentieri un’eccezione, vuoi perché nel campo sono tra gli assoluti prim’attori da quasi quindic’anni, vuoi perché è il corpo stesso che reclama questo insensato divertimento, con buona pace della parte intellettuale dell’Io. Il fragore urticante delle asce miete le sue vittime con sforzo risibile, la durata del concerto – mezz’ora secca – è quella giusta per dare la sveglia, riattivare collo e le altre membra e non stufarsi per nulla. Gli sproloqui di Foresta fra un brano e l’altro innalzano a nuovi livelli di demenza questo sconsiderato party, i Municipal Waste si confermano live band affidabile e ottimo intermezzo fra uno slot ‘impegnato’ e l’altro.
(Giovanni Mascherpa)

Setlist:
Intro
Unleash the Bastards
Mind Eraser
You’re Cut Off
The Thrashin’ of the Christ
Beer Pressure
The Inebriator
Toxic Revolution
I Want to Kill the President
I Want to Kill Donald Trump
Wrong Answer
Terror Shark
Bangover
Hazardous Mutation
Substitute Creature
Headbanger Face Rip
Sadistic Magician
Born to Party

Municipal Waste - hellfest 2016 - 2016
FALLUJAH

Sempre più lanciati a incasellare in un titanico melting-pot stilistico tutto il meglio offerto dall’extreme metal ‘giovane’ e moderno, i Fallujah si presentano per quello che, come ricordato dal cantante Alex Hofmann, è “il primo festival open-air europeo nella nostra storia”. Comprensibile e benedetto l’entusiasmo di band e pubblico, quindi, uniti in un solido abbraccio già dal brano di apertura. Il portamento dei giovani americani media fra una tamarraggine visibilmente ‘core’ e una concentrazione assoluta sugli strumenti, fondamentale per reggere le caleidoscopiche impalcature strumentali e gli stacchi avveniristici cardine della formazione. Zeppi di aperture melodiche sgargianti e fraseggi tecnici, i brani sgorgano potenti e camaleontici dalle casse; sta giusto leggermente in secondo piano il basso di Rob Morey, ma ciò non toglie granché all’impatto erculeo dei Fallujah. Allontanandosi un poco dal taglio atmosferico dell’ultimo “Dreamless”, dal vivo i Nostri suonano moderatamente arcigni, flettendo muscoli e strumenti per dare peso e protervia a canzoni elaborate ma mai leziose. Chiamati a gran voce dal singer, si susseguono circle-pit di dimensioni sempre maggiori, con la conseguenza che chi non ci vuole stare in mezzo deve arretrare fin quasi al mixer. Soggettivamente, non ci rimane molto a livello emotivo, è musica che per le orecchie dello scrivente è abbastanza fredda e, alla lunga, monocorde. Ma, appunto, siamo nel campo dei gusti del singolo. La prestazione in sé è esente da critiche.

P.S. Menzione d’encomio per la maglietta coi gattini ‘satanici’ presente al merchandise ufficiale della band. Commuoventemente incommentabile.
(Giovanni Mascherpa)

Fallujah - Hellfest 2016 - 2016

DEATH ALLEY

If you want rock, you got it. E’ questo che fanno gli olandesi Death Alley e lo fanno dannatamente bene. Grezzi e sporchi, musicalmente sono un perfetto incrocio tra Vanilla Funk, Motorhead e MC5, con una netta prevalenza, dal vivo, per l’attitudine grezza e protopunk di questi ultimi. Sciorinano con classe e sicurezza i brani del loro piacevolissimo esordio “Black Magick Boogieland”, garantendosi la permanenza del pubblico del Valley con capacità, regalando assoli ruvidi, freschi e classici insieme, e grazie a una prestazione trascinante del cantante Douwe Truijens. Gli anni ’70 non sono proprio morti, mancava solo il ritorno in forze delle bandane e dei gilet di jeans: ed eccoli di ordinanza addosso a tutti i membri della band. Rock on!
(Simone Vavalà)

SKALMOLD

Gli islandesi calano in terra francese con il loro repertorio viking/folk. Setlist particolare, quella scelta per l’Hellfest, che mette in risalto il lato un po’ più cupo dei sei vichinghi. La loro prestazione è comunque impeccabile, rivelandoci degli ottimi musicisti in grado di tenere il palco egregiamente e di coinvolgere il pubblico, anche grazie a ritmiche frenetiche folk e vagamente tribali. Certo, il repertorio degli Skalmold non è dei più vari ed il concerto, alla lunga, risulta un po’ troppo ripetitivo, forse anche per la conoscenza non così approfondita del repertorio della band da parte di chi scrive. I fan del genere, abbastanza numerosi, comunque sembrano gradire i cori ed i tempi veloci e – a tratti – frenetici dei sei islandesi. Björgvin Sigurðsson si dimostra un frontman capace, sempre in grado di mantenere alta l’attenzione e la partecipazione del pubblico, fino alla conclusione lasciata al cavallo di battaglia “Kvaðning”, che scatena la gioia del pubblico e pone fine ad un concerto non proprio tra i più coinvolgenti della tre giorni francese.
(Lorenzo Ottolenghi)

TURNSTILE

Sulla carta (e su disco) i Turnstile hanno tutte le qualità per sfondare. Crossover di buona fattura, canzoni solide ed arrangiamenti che non disdegnano accenni funky e derive più hardcore, il tutto condito dalla bella interpretazione al microfono di Brendan Yates. E’ davvero un peccato quindi che tutte queste belle premesse non si concretizzino nel corso di un set piuttosto breve, dove anche i pezzi migliori (“Gravity” e “Faze Out” su tutti) vengono fiaccati da un’esecuzione di routine, in cui Yates stesso si limita a saltellare qua e là sul palco, fermandosi ogni tanto solo per esibirsi in smorfie o pose. Sicuramente un passo falso dovuto all’orario sciagurato (primo pomeriggio) in cui sono stati sistemati, ma la delusione è comunque cocente.
(Stefano Protti)

Turnstile - Hellfest 2016 - 2016

DRAGONFORCE

Quaranta minuti di show per i Dragonforce (che, con Gee Anzalone alle pelli ormai stabilmente, sentiamo un po’ compatrioti) forse sono un po’ pochi, ma sono anche quaranta minuti su uno dei mainstage dell’Hellfest. La band cerca di concentrare il più possibile nel tempo a disposizione, purtroppo scegliendo di escludere pezzi di “Valley Of The Damned” (primo e forse miglior disco della band). Comunque sia, Herman Li e soci forniscono uno show di tutto rispetto, con un pubblico coinvolto che risponde al sing-along ogni volta che la band lo chiama e che apprezza decisamente la performance dei Dragonforce. Certo: l’Hellfest non è Wacken ed il power metal non gode della stessa popolarità di cui gode in Germania (dove, probabilmente, ai Dragonforce sarebbe stato concesso più tempo) ma – come scrivevamo – la risposta del pubblico è stata ottima. Lo show viene chiuso da “Through The Fire And Flames” che manda in visibilio la folla di fan della band e crea un notevole movimento davanti al palco. In conclusione, visto anche il poco tempo, ottima performance.
(Lorenzo Ottolenghi)

Setlist:
Holding On
My Spirit Will Go On
Heroes of Our Time
Cry Thunder
Through the Fire and Flames

Dragonforce - hellfest 2016 - 2016

THE SKULL

Inutile nascondere che, di fondo, qui ci troviamo di fronte alla vera continuazione della mirabile carriera dei Trouble, ma chiunque temesse un deludente effetto nostalgia fine a se stesso, be’, si sarà sicuramente ricreduto dopo l’esibizione dei The Skull. Avendo avuto la fortuna di vedere anche due delle tre loro esibizioni al Roadburn la scorsa primavera, va notato con ammirazione come la band di Eric Wagner non perda un colpo nonostante la non così frequente presenza sul palco, rodandosi peraltro sempre di più: i pezzi del loro per ora unico, e notevole, “For Those Which Are Asleep” rendono alla grande, senza sbavature, con il suddetto e carismatico singer in grado di trascinare il pubblico con fare scanzonato e, soprattutto, imbroccando una prestazione vocale notevole. Va sottolineato con un pizzico di malizia che ha passato l’intero concerto a fumare, quindi c’è evidentemente speranza, per i tabagisti, di non invecchiare per forza con la voce di Tom Waits. Tra i pezzi più trascinanti, la title-track dell’album, l’opener “Trapped Inside My Mind” e, ovviamente, le due cover conclusive dei Trouble, che ci ricordano come, davanti, abbiamo davanti un bel pezzo di storia del doom di Oltreoceano.
(Simone Vavalà)

KING DUDE

Appena TJ Cowgill inizia a cantare, un nome si insinua prepotente nel cervello: Nick Cave. Se in studio i King Dude mostrano di saper attingere a diverse fonti (i migliori Current 93, l’ultimo Cash), il gotico americano immaginato da Cave (peraltro australiano) occupa gli spazi, diventando allo stesso tempo segno distintivo e limite del gruppo. Gli estratti più elettrici dall’ultima prova in studio “Songs of Flesh & Blood” (“Black Butterfly”) coinvolgono anche gli ascoltatori meno avvezzi a questa proposta, mentre “Fear Is All You Know” sfrutta una ritmica ossessiva che sarebbe piaciuta agli Swans. I ritmi sovente rallentano ed allora i King Dude danno il meglio, come ad esempio in “Death Won’t Take Me”, lenta e scura, che pare davvero uscita dalle migliori pagine del Re Inchiostro (periodo “Let Love In”, diremmo), con la voce di Cowgill che si fa ora rabbiosa ora solenne, a rincorrere i rintocchi spettrali di un pianoforte. L’ennesima scommessa vinta dal Valley.
(Stefano Protti)

King Dude - Hellfest 2016 - 2016

THE VISION BLEAK

Il duo tedesco capitanato da Ulf Schwaforf ha ormai un vasto repertorio a cui attingere e spazia tra i pezzi dei suoi sei studio album (compreso il recente “The Unknown”) offrendoci una setlist piuttosto varia. Il sound dei The Vision Bleak si è leggermente ammorbidito dagli esordi di “The Deathship Has A New Captain” e le influenze doom sono pressochè sparite, lasciando spazio all’aspetto gothic metal che è sempre stato il cuore del sound del gruppo bavarese. La complessità, le atmosfere nebbiose e tetre, l’intimismo e la continuità sonora che troviamo su disco, però, perdono gran parte del loro fascino nella dimensione live, forse complice anche un pubblico non proprio partecipe ed una band che inizia piuttosto convinta ma poi sembra perdere mordente durante lo show. L’approccio live dei The Vision Bleak è abbastanza differente da come ce lo aspetteremmo, punta sui pezzi più semplici (ci è sembrato, ma potremmo sbagliarci, accelerandoli anche leggermente) e – a tratti – sembra quasi di ascoltare un gruppo EBM senza sostegni elettronici. Chi scrive è un fan della band e ne apprezza le atmosfere nebbiose e decadenti (forse un po’ meno presenti nell’ultimo lavoro), ma ci sentiamo di dire che i due tedeschi perdono molte delle loro peculiarità dal vivo, soprattutto in un festival. Probabilmente con una setlist più omogenea ed in un contesto differente (come in un piccolo club) il risultato potrebbe essere differente; in questa occasione, invece, si rivela un po’ caotico e, in fin dei conti, noioso.
(Lorenzo Ottolenghi)

BRODEQUIN

Essenziali, brutali, massacranti e glaciali. I Brodequin si presentano sul palco in tre, cioè nella loro formazione tipica, con Jamie Bailey al basso (e gran parte degli oneri vocali), Mike Bailey alla chitarra e Jon Engman alla drum machine. La vera particolarità, che inizialmente stupisce sia il pubblico occasionale che i fan della prima ora della band americana, è proprio la presenza della drum machine, elemento distintivo dalla reunion avvenuta un anno fa; ancora più particolare il fatto che Engman, in mezzo al palco, con un pad suoni attivamente invece di utilizzare basi programmate. La resa sonora, passato il momento di sorpresa iniziale, è ottima e non toglie nulla all’oltranzismo musicale dei Brodequin che, in poco meno di un’ora, concentrano sedici pezzi senza concedere un attimo di respiro. Attingendo a tutti i loro lavori in stuido, il gruppo riesce a calare il pubblico, seppure poco numeroso, nelle loro cupe atmosfere medievali, fatte di strumenti di tortura, ferite, dolore e agonia. La presenza della già citata drum machine non snatura il sound dei Brodequin che resta assolutamente fedele al brutal death di dischi come “Instruments Of Torture”. E proprio la brutalità contraddistingue lo show essenziale del trio che non sembra curarsi di fronzoli di alcun tipo: l’unico scopo, neanche troppo velato, è quello di ricreare il dolore fisico di cui trattano i loro pezzi e, dobbiamo dire, il risultato viene raggiunto in modo più che soddisfacente. Forse un pelo di presenza scenica in più non avrebbe guastato, ma il minimalismo sembra una scelta ben ponderata che lascia la musica al centro. Un gradito ritorno ed un concerto all’altezza della fama di questa formazione.
(Lorenzo Ottolenghi)

UNSANE

Quando gli Unsane salgono sul palco del Valley, tutti si rendono conto di cosa hanno davanti. Reduci di guerra, veterani, che come tali suonano, alle spalle l’orrore di cui sono stati testimoni. I loro brani mantengono quanto promesso dalle copertine degli album, istantanee su corpi straziati, sangue, armi da taglio riposte dopo l’uso che ancora portano le tracce di una carneficina. Incapaci di riprodurre la violenza che c’è stata, gli Unsane si limitano a documentarne il dopo, lasciando all’ascoltatore la responsabilità di attingere ai propri incubi per dare forma alla realtà. Se la tripletta iniziale “Sick”/”Committed”/”Over Me” (da “Occupational Hazard”) è noise feroce, chirurgico, macchiato da un blues da cui prendono la propensione alla tragedia, da “Against The Grain” affiora un perversa orecchiabilità che sarebbe piaciuta ai Melvins. “Visqueen” (per il sottoscritto, un capolavoro assoluto) e lo storico “Scattered Smothered & Covered” sono gli album più saccheggiati: il primo mette passo post-grunge e melodia (“Only Pain”, il riff di “Line On The Wall”), il secondo freddezza da anatomopatologo (“Empty Cartidge”). Un gruppo compatto senza essere monolitico, persino capace di raffinate sfumature (la lugubre armonica di “Alleged” che detta il tono del brano), un concerto tecnicamente perfetto, che alla lunga purtroppo impone la stessa assuefazione che dà l’esposizione continua ad immagini di violenza.
(Stefano Protti)

Setlist:
Sick
Committed
Over Me
Against the Grain
Killing Time
Only Pain
Line on the Wall
Empty Cartridge
Scrape
Alleged
Out

Unsane - hellfest 2016 - 2016
MGLA

Fedeli a una dinamica che per quasi tutti i tre giorni ha visto chi vi scrive alternarsi equamente tra Valley e Temple, prendiamo posto con sufficiente anticipo al cospetto di quella che è probabilmente una delle band più splendenti, attualmente, in ambito estremo. Forti di tre album di grande fattura, con l’ultimo “Exercises In Futility” da raccomandare in heavy rotation a chiunque ancora non li conosca (esiste qualcuno?), i Mgla solitamente non deludono nemmeno dal vivo… Ma c’è sempre una prima volta. Come già segnalato alcune esibizioni sono state effettivamente penalizzate dal missaggio, ma se nel caso di band più votate al puro impatto violento (leggasi: ignoranza) tale problema ci ha fatto solo scuotere le spalle, per i quattro polacchi rappresenta un handicap grave: nel corso dei tre quarti d’ora a disposizione, infatti, si è perso completamente il meraviglioso contrappunto tra le due chitarre, una votata al riffing più ossessivo e l’altra capace di donare emozionanti variazioni armoniche, lasciando che a occupare la scena fosse, praticamente, la sola batteria di Darkside, lasciando un’anonima sensazione di puro e semplice muro di suono. E’ evidente che tutti i membri della band non si risparmiano, ma quello che arriva alle orecchie degli astanti non rispecchia minimamente la ricerca e la musicalità dei Nostri. Peccato, perché la scaletta era azzeccatissima per sfruttare un tempo leggermente più breve del solito, con l’inclusione della prima traccia del succitato ultimo album e due brani dall’ormai classico “With Hearts Towards None”; ma difficilmente, questo pomeriggio, nuovi adepti al culto dei Mgla si saranno fatti conquistare.
(Simone Vavalà)

BLIND GUARDIAN

Anche i Blind Guardian, sul Mainstage, non hanno tantissimo tempo a disposizione e cercano di concentrare in poco più di tre quarti d’ora il meglio del loro repertorio. Si parte con “The Ninth Wave” dall’ultimo “Beyond The Red Mirror”, per poi fare un tuffo nel passato con “The Script For My Requiem” e “Time Stands Still (At The Iron Hill)”. I due classici mandano in tripudio i numerossissimi fan dei Guardian che partecipano e cantano a squarciagola. La band tedesca percepisce e reagisce, con un Hansi Kürsch che ci pare, per il momento, in gran forma e che sembra aver superato da tempo i problemi che, in passato, lo avevano portato a performance vocali dalla qualità un po’ altalenante. Si ritorna al repertorio più recente con “Tanelorn (Into The Void)”, ormai assimilata dai fan dei power metaller tedeschi come classico, seguita dalla nuova “Prophecies” (che crea un attimo di pausa e respiro in un concerto tiratissimo: non tanto per la canzone in sè, quanto per la partecipazione un po’ meno entusiasta da parte del pubblico). Il tempo scorre rapido quando i Blind Guardian sono in forma come in questo pomeriggio di Clisson e giunge il momento dei grandissimi classici dei Bardi, quei pezzi che tutti attendono e che ormai possono essere considerati, a giusto titolo, pietre miliari di un certo stile musicale. L’inizio di “Valhalla” è accolto da un boato, seguito da un grosso moshpit e da un crowd-surfing continuo per tutta la durata del pezzo; putroppo la voce di Hansi subisce un leggero calo ma niente di particolarmente grave, così che il masterpiece dell’era più votata allo speed metal sortisce il suo solito, fantastico, effetto travolgente (grazie o nonostante, a voi la scelta, il nuovo arrangiamento che la rende più melodica e più morbida). Segue “The Bard’s Song – In The Forest”, sempre struggente, con un sing along da brividi, di quelli che si possono sentire solo nei grandi open air. Decine di migliaia di persone intonano i versi evocativi di una delle canzoni più belle che la band abbia mai scritto, creando un’atmosfera magica e sognante. Il tempo è tiranno ma un concerto dei Blind Guardian non può dirsi tale senza “Mirror Mirror”, quindi ecco la hit di “Nightfall In Middle-Earth” che irrompe dopo la calma di “The Bard’s Song” e scatena le stesse reazioni di “Valhalla”. Prova pressochè impeccabile quella dei bgardi tedeschi, con solo una piccola sbavatura durante “Valhalla” (sbavatura che non intacca minimamente la qualità del concerto). Così i Blind Guardian ci salutano, lasciandoci un po’ di amaro in bocca per un concerto che ci è parso troppo breve (anche se la durata concessa al gruppo è stata più che sensata, visti i gruppi che dovevano esibirsi dopo di loro).
(Lorenzo Ottolenghi)

Setlist:
The Ninth Wave
The Script for My Requiem
Time Stands Still (at the Iron Hill)
Tanelorn (Into the Void)
Prophecies
Valhalla
The Bard’s Song – In the Forest
Mirror Mirror

KADAVAR

Sorprende, ma non troppo, trovare il Valley stracolmo per l’esibizione della band berlinese, tanto che, arrivando solo cinque minuti prima dell’inizio, siamo costretti ad accomodarci sul prato antistante il tendone; e tutto sommato non è andata così male: la band di Lupus Lindemann si presta perfettamente a un approccio da happening hippy, grazie a sonorità retrò che sanno ben esprimere dal palco, anche in pieno pomeriggio. La scaletta pesca da tutti e tre gli album finora pubblicati, che tutto sommato esprimono appieno le diverse anime che contraddistinguono questo power trio: l’impatto quasi garage dell’iniziale “Lord Of The Sky”, anche pezzo di apertura dell’ultimo album “Berlin”, il rock psichedelico dei pezzi più vecchi come “All Our Thoughts”, e infine la deriva più stoner e accattivante che ci trascina nella divertente e conclusiva “Come Back Life”. Ottimi animali da palcoscenico, decisamente.
(Simone Vavalà)

Kadavar - hellfest 2016 - 2016

TAAKE

Hoest, pioniere della scena black norvegese, si presenta con (ovviamente) una band di supporto e ci scaraventa nel più classico, oltranzista e violento true norwegian black metal. Poco altro può definire la musica della one-man-band di Bergen che congela il Temple con il suo sound classicamente nordico, nella miglior tradizione sul solco di band come Tsjuder o certi Carpathian Forest. La presenza scenica non è da meno: la band, in perfetto paint, si allinea gelida e quasi immobile sul palco e le melodie notturne e cupe dei Taake pervadono l’aria. Il riffing affilato, con suoni di chitarra perfettamente old-school, guidano il pubblico in un viaggio nero e blasfemo. Hoest ha un ottimo scream e sa arringare il pubblico, quando è necessario: le sue movenze rientrano nel più classico standard delle ‘vecchie’ band black metal e le persone accorse restano rapite dalla presenza inquietante del gruppo. La prima parte del concerto attinge a piene mani dallo splendido “Noregs Vaapen” (che verrà ripreso verso la fine con la glaciale “Myr”), mentre il resto della setlist cerca di coprire la mggior parte dei lavori del gruppo. La chiusura è affidata all’opener di “Nattestid Ser Porten Vid”, debut della formazione, che ci riporta al sound degli anni d’oro della seconda ondata black metal. Un concerto ottimo che riesce a non essere penalizzato ne’ dalla luce pomeridiana, ne’ dall’atmosfera da festival, riuscendo invece a trasportarci in un piccolo club di Bergen verso la fine degli anni Novanta.
(Lorenzo Ottolenghi)

AMON AMARTH

Ecco il momento atteso da moltissimi: sul secondo mainstage appaiono teste di drago, prue di drakkar e loro, gli Amon Amarth. I quattro vichinghi di Stoccolma hanno visto, come purtroppo accade spesso, salire il numero dei loro detrattori in misura proporzionale al loro successo. Ma tutto questo non sembra interessare ne’ a Johan Hegg e compagni, ne’ tantomento al pubblico, che numericamente è lo stesso di band come Megadeth e Slayer. Si parte subito a mille con “The Pursuit Of Vikings” ed una partecipazione fisica e canora incredibile da parte dei fan del gruppo. Gli Amon Amarth sono ormai veterani di concerti e grandi festival e sanno perfettamente quello che la gente si aspetta da loro, quindi, con una setlist di undici pezzi, limitano a “First Kill” e alla festaiola “Raise Your Horns” il materiale estratto dal recente “Jomsviking” e – per il resto – passano in rassegna praticamente tutti i loro classici (come è giusto che sia in un contesto come quello dell’Hellfest). A voler essere pignoli, ci è mancata “Victorious March”, ma il resto c’è tutto: con, in successione, “Cry Of The Black Birds”, “Death In Fire”, “Deceiver Of The Gods”, “Runes To My Memory” e “War Of The Gods”. Certo, con quasi duecento date in tre anni, gli svedesi – a tratti – sembrano più eseguire un compito ormai ben studiato ed imparato, proponendoci un meccanismo ben oliato ma che comincia ad essere un po’ ripetitivo (non parliamo della musica, ma proprio dello show in sè che sembra, ultimamente, sempre una sorta di fotocopia di quello precedente). Ma tutto ciò non va a discapito della qualità ed è un prezzo naturale da pagare alla sovraesposizione della band che, negli ultimi anni, ha sfornato dischi sempre di qualità e suonato dal vivo un numero impressionante di volte. Dopo la già citata “Raise Your Horns”, che spezza per un attimo la lunga sequela di classici, è il momento del gran finale affidato a “Guardians Of Asgaard” e (ovviamente) a “Twilight Of The Thunder God”. Nonostante una certa ‘stanchezza’ che sembra iniziare ad intaccare l’entusiasmo degli Amon Amarth, lo show è comunque perfetto e centra in pieno quello che ogni fan della band vorrebbe sentire ad un loro concerto. Ancora una volta gli svedesi si dimostrano dei professionisti impeccabili e dei grandissimi intrattenitori.
(Lorenzo Ottolenghi)

Setlist:
The Pursuit of Vikings
As Loke Falls
First Kill
Cry of the Black Birds
Death in Fire
Deceiver of the Gods
Runes to My Memory
War of the Gods
Raise Your Horns
Guardians of Asgaard
Twilight of the Thunder God

Amon Amarth - Hellfest 2016 - 2016

KATATONIA

Intanto che l’affluenza dalle parti dei mainstage si fa importante, canalizzando l’enorme mole di persone affluenti nell’area concerti fin dal primo pomeriggio laddove i Black Sabbath andranno a suonare, l’attività sotto i tendoni non cessa di regalare concerti di valore. L’affievolimento dell’estremismo nel sound dei Katatonia fa sì che vi sia un contegno strano davanti all’Altar, palco di norma vocato a sonorità ben più accese di quelle degli svedesi, ora divenuti oliati professatori di un dark metal molto atmosferico, progressivo e rarefatto. La parvenza sommessa degli strumentisti, entrati quasi in punta di piedi e vergognosi sullo stage, pare introdurci a un’esibizione di puro ascolto. Accade in parte il contrario. Jonas Renkse, a dispetto di un fisico pasciuto e movenze ansimanti, sfoggia una vocalità deliziosa, ingrigendo e immalinconendo ogni parola, caricandola di una estatica tristezza imbellettata e multiforme. I ricami chitarristici si connotano di una lunga serie di delicate sfumature, non derogando affatto alla potenza, mentre la sezione ritmica, pur in costante controllo e mai incline alla fisicità, dà agilità e mordente alle lunghe composizioni. I Katatonia in questa sede bilanciano con maestria orecchiabilità, ricercatezza e piglio prosaicamente ‘metal’, così che da set di puro assaporamento di calmi dipanarsi strumentali, quello degli autori del recente “The Fall Of Hearts” diventa un concerto da cui farsi trascinare e concupire, emozionare e illudere. La band si accorge che la quiete iniziale va rompendosi e si concede anch’essa al divertimento, con tutti i componenti a muoversi disinvolti sullo stage e a indulgere in mosse più da classica rock band che da tenebrosi disseratori di arie oscure. Una scaletta ponderata per alternare materiale appena sfornato e classici leggermente più datati chiude il cerchio di una performance decisamente buona, perfino sorprendente per l’elettricità che ha saputo creare nell’aria.
(Giovanni Mascherpa)

Setlist:
Hypnone
Consternation
Nephilim
Deliberation
Serein
My Twin
Lethean
Old Heart Falls
July
Forsaker

Katatonia - Hellfest 2016 - 2016
GRAND MAGUS

All’Altar arrivano i Grand Magus. JB e soci sono attesi da una folla numerosissima, pronta a scatenarsi con l’epic doom degli svedesi. La colonna sonora di “Conan Il Barbaro” fa da intro allo show che si apre con “I, The Jury” e ci mostra subito una band carica e affiatata. La direzione intrapresa dai Grand Magus si è da tempo discostata dalle sonorità più vicine allo stoner, presenti nei primissimi lavori (tanto che la setlist non prevederà pezzi di “Grand Magus”, “Monument” e “Wolf’s Return”, saltando -quindi- quasi tutto il periodo sotto l’egida della Rise Above di Lee Dorrian), così ecco a seguire “Sword Of The Ocean”, “On Hooves Of Gold” e “Varangian” (unico estratto dal recentissimo “Sword Songs”). Il pubblico sembra apprezzare, anche se non manca chi rimpiange gli esordi del gruppo e spera in qualche pezzo più vecchio. Invece seguono “Steel Versus Steel” e la splendida “Ravens Guide Our Way”. Dopo i problemi del primo giorno presenti all’Altar e (maggiormente) al Temple, i tecnici hanno fatto il loro lavoro ed il sound è pieno e corposo (aspetto fondamentale quando una band, come in questo caso, è composta solo da tre elementi). JB interagisce col pubblico, sfoderando anche un ottimo francese, e l’intensità della prova del power-trio svedese non cala mai, anzi. La seconda parte dello show è votata al lato più epico dei Grand Magus. Dopo una breve pausa si riparte con “Triumph And Power” e “Like The Oar Strikes The Water”, ottimi pezzi che fanno da preludio all’apoteosi finale costituita da “Iron Will” e “Hammer Of The North”. Un grande concerto, con una band in ottima forma ed un frontman che sa tenere il palco in modo impeccabile. Un altro gran momento da ascrivere alla lunga lista di questa edizione 2016 dell’Hellfest.
(Lorenzo Ottolenghi)

Setlist:
I, The Jury
Sword of the Ocean
On Hooves of Gold
Varangian
Steel Versus Steel
Ravens Guide Our Way
Triumph and Power
Like The Oar Strikes The Water
Iron Will
Hammer of the North

JANE’S ADDICTION

Tamarri ed eccessivi, probabilmente un po’ fuori contesto all’Hellfest, specie sull’improbabile palco del Valley, ma che esibizione, quella dei Jane’s Addiction. Stephen Perkins regge la sezione ritmica a meraviglia, e su di essa Dave Navarro ricama psichedelie e riff memorabili con grazia invidiabile, guadagnandosi forse il titolo di miglior virtuoso della sei corde visto in questi tre giorni; e su tutti inutile dire quanto svetti l’istrionico Perry Farrell: mossette a non finire, cambi di look degni di una valletta di Sanremo, mimiche a dir poco esplicite con le modelle seminude che accompagnano l’esibizione, ma il tutto senza perdere una nota, con classe e autocompiacimento al tempo stesso. La band salta a pié pari il pur buono “The Great Escape Artist” e sceglie di regalare al pubblico solo classici del loro periodo d’oro, tra cui svettano l’iniziale “Stop!”, perfetta per una prima scarica di adrenalina, la meravigliosa “Just Because” e, ovviamente, l’immancabile e conclusiva “Jane Says” presentata in set acustico. Avrebbero potuto riempire il Mainstage senza problemi, ma siamo stati felicissimi di poterceli godere da pochi metri e circondati da un pubblico caldo ed entusiasta.
(Simone Vavalà)

Setlist:
Stop!
No One’s Leaving
Ain’t No Right
Three Days
Just Because
Been Caught Stealing
Mountain Song
Ted, Just Admit It…
Jane Says

GHOST

Sperando di non attirare gli strali dei fan più sfegatati della band svedese, la recensione del concerto dei Ghost si concentra volutamente sul loro impatto e sul loro spettacolo; non che non ci interessi la dimensione musicale, ma fin da quando abbiamo avuto la fortuna di vederli, ancora piccola band di culto, nell’allora Terrorizer Stage alcuni anni or sono, sicuramente i cinque Ghouls (più annesso Papa) hanno sempre dimostrato capacità e ottima resa live. Questa sera il salto di qualità definitivo verso l’Olimpo del Metal è sancito non solo dall’essere co-headliner del Festival, ma anche dall’enorme impatto visivo. La scenografia è invero limitata a uno scalone e a un tendone che ricorda le vetrate di una cattedrale, ma i Nostri, ieratici e professionali, riescono a regalare uno spettacolo potente, coinvolgente e… molto pop. Non si vuole con questo sminuire il loro valore, o perdersi in nostalgici onanismi, ma è certo che il passaggio a sonorità decisamente più catchy segna il loro percorso, e non a caso nessun brano viene estratto dal primo, mirabile “Opus Eponymous”. Il concerto, appunto, è basato quasi per intero sull’ultimo “Meliora”, che trascina il pubblico grazie a brani come l’iconica “Cirice”, fino all’esilarante finale affidato a “Monstrance Clock”: mentre inizia, in contemporanea, lo spettacolo di fuochi d’artificio, un coro costituito da suore e bambini si unisce alla band per il blasfemo coro “Come Together As One For Lucifer’s Song”. Divertente, appunto, ma non privo di un pacchiano gusto della provocazione che sposta i Ghost, definitivamente, verso l’area di pertinenza dei Kiss o dei Rammstein: band di grande livello, e che chi vi scrive apprezza parecchio, ma per le quali la dimensione musicale conta ormai davvero poco.
(Simone Vavalà)

Setlist:
Spirit
From the Pinnacle to the Pit
Body and Blood
Devil Church
Cirice
Year Zero
He Is
Absolution
Mummy Dust
Monstrance Clock

Ghost - hellfest 2016 1 - 2016

Ghost - Hellfest 2016 2 - 2016

ENSLAVED

Con ancora negli occhi lo spettacolo mirabolante elargito dai Jane’s Addiction, ci spostiamo al Temple, dove gli Enslaved festeggiano i venticinque anni di carriera attraverso un set speciale, che porteranno in giro sia nei festival estivi che nel tour da headliner in autunno. Se qualcuno non fosse edotto sul cambiamento di scenario in contrapposizione alle normali setlist degli ultimi anni, ci pensa Grutle Kjellson stesso, al termine di una indiavolata versione di “Jotunblod”, a chiarire il concetto. “Ci spiace per chi voleva sentire del nuovo materiale, ma stasera suoneremo solo roba vecchia, fino al 2006”. Ecco allora andare in soffitta le articolate trame degli ultimi quattro full-length, a favore di tutto quanto li abbia preceduti. I norvegesi si armano per bene e indossano le corazze, avventurandosi in territori viking e black metal con la stessa confidenza denotata su contesti più morbidi. C’è da dire che anche negli ultimi tour estratti dalla discografia degli anni ’90 e primi 2000 ci sono sempre stati, gli Enslaved non hanno rinnegato nulla della propria storia e infatti, alle prese con materiale rispolverato apposta nel 2016, se la cavano alla grande. Il light-show è particolarmente movimentato, seguendo di pari passo le convulse sferragliate di “Fusion Of Sense And Earth” e “Return To Yggdrasil”, nelle quali non mancano finezze ed escursioni imprevedibili, tratto caratteristico dei Nostri anche quando non erano la maestosa macchina extreme prog di adesso. L’intesa fra i musicisti è una meraviglia, si vede che oltre a suonare nella stessa band questi omaccioni sono accomunati da vera fratellanza, evidente nei lazzi e frizzi che intervengono nelle pause, oltre che nell’agitarsi uno di fianco all’altro durante l’esecuzione dei brani. La folla, dopo l’iniziale spiazzamento, segue rapita e digrignante questa impeccabile lezione di violenza ed epos, gratificando di un’ultima ovazione all’annuncio dell’arcaica “Allfǫðr Oðinn”. Con gli Enslaved si va sempre sul sicuro.
(Giovanni Mascherpa)

Setlist:
Jotunblod
Fusion of Sense and Earth
Fenris
The Crossing
Return to Yggdrasil
Convoys to Nothingness
AllfǫðrOðinn

BLACK SABBATH

Arriva un momento in cui si può anche chiudere bottega in anticipo, specie se nella stessa strada la concorrenza è sleale. Ecco, quel momento, per alcune band dell’Hellfest, si è palesato alle ore 23:10 del 19 giugno 2016. A onor del vero, sappiamo che Paradise Lost e Puscifer, impegnati in contemporanea al Temple e al Valley, hanno avuto una buona affluenza di pubblico, e hanno anche ringraziato i presenti per aver “rinunciato” alla (presunta?) ultima esibizione dei Black Sabbath. Sì, perché per quante volte abbiamo sentito da persone abituate a far prendere aria alla bocca che sono dei vecchi, che vanno in tour per soldi, che la scaletta è sempre la stessa, l’emozione di rivederli è sempre notevole, come testimonia il fatto che praticamente tutti gli astanti sono assiepati sotto il Mainstage. E questa sera l’esibizione è anche pressoché impeccabile:h pochi dubbi, chiaramente su Mr. Chitarra e Mr. Basso in persona, ossia gli immarcescibili Iommi e Butler (quest’ultimo porta davvero a spasso la band meritando applausi a scena aperta), ma a stupire è un Ozzy concentrato come non mai, che non si perde in siparietti, corse e strilli sempre identici dal 1979: si tiene aggrappato al microfono, nessun fronzolo e nessuna stecca. Evidentemente questa tournée significa molto, anche emotivamente, per lui. Unico difetto, la scontata assenza di Billy Ward, che viene però sostituito egregiamente da Tommy Clufetos, fedele ormai a Ozzy da anni e fedele anche nel riempire il vuoto dietro le pelli senza inventare inutili orpelli. Praticamente bastano i primi tre album a coprire quasi per intero il concerto di questa sera, e di fondo il 90% della Storia del Metal. Aggiungete “After Forever” per ricordarvi che anche lo sludge è stato inventato da Tony Iommi e il gioco è fatto. Eterni.
(Simone Vavalà)

Setlist:
Black Sabbath
Fairies Wear Boots
After Forever
Into the Void
Snowblind
War Pigs
Behind the Wall of Sleep
N.I.B.
Rat Salad
Iron Man
Dirty Women
Children of the Grave
Encore:
Paranoid

Black Sabbath - Hellfest 2016 - 2016

Black Sabbath - Hellfest 2016 2 - 2016

PARADISE LOST

La rinnovata voglia di metal estremo dei Paradise Lost ha toccato negli ultimi due anni punte di vera estasi per i fan di lunga data, gratificati prima da “The Plague Within”, quindi nel 2016 dall’iniziativa di suonare “Gothic” nella sua interezza in alcune date. Tra cui non poteva mancare l’occasione dell’Hellfest. Nick Holmes aveva ridestato prepotentemente il growl la scorsa estate sullo stesso palco durante la barbara esibizione-esecuzione dei Bloodbath; nella tarda serata della domenica, col grosso dei partecipanti al festival impegnati a officiare una delle ultime liturgie dei Black Sabbath, frusta le coscienze in un’altra prova ruvida e col cuore in mano, in balia di un ardore magari non così impetuoso come poteva essere nei primi anni ’90, ma che ha comunque il potere di catapultare in un’altra epoca e in un altro mondo. Si parte senza tanti preamboli sulle note della title-track e si scivola felici in un gioco di luminosità crepuscolari, contrafforti di lacrime, sospiri di delusione e annichilimento dello spirito, consacrati da un’esecuzione ineccepibile, solo un poco controllata e smussata di vere asperità. Il concerto non diventa mai travolgente, un fiume in piena emotivo al quale è impossibile resistere, ed è l’unico limite – una percezione, più che un dato di fatto – a uno show condotto magistralmente quanto a reinterpretazione di passati classici e credibilità delle attuali versioni. Si capisce bene che i Paradise Lost sono di nuovo a loro agio con queste ruvide sonorità, Holmes ride sornione nelle pause e snocciola piccole perle di umorismo britisth, quando ricorda l’eccezionalità dell’evento e la rarità di sentire alcuni brani dal vivo. Chiusa con successo la parentesi “Gothic”, c’è spazio per un terzetto di classici in contiguità, per durezza e atmosfere, al capolavoro del ’91: la hit storica “Embers Fire” e i nuovi capisaldi “No Hope In Sight” e “Beneath Broken Earth” chiudono splendidamente il programma sull’Altar, lasciando appagati e contenti tutti quanti.
(Giovanni Mascherpa)

Setlist:
Gothic
Dead Emotion
Shattered
Rapture
Eternal
Falling Forever
Angel Tears
Silent
The Painless
Embers Fire
No Hope in Sight
Beneath Broken Earth

Paradise Lost - Hellfest 2016-1 - 2016
PUSCIFER

Prima di tutto le buone notizie. Mentre i Tool annaspano tra sporadici concerti dalla setlist cristallizzata ed il miraggio di un disco nuovo e degli A Perfect Circle non si hanno notizie da anni, i Puscifer sono la macchina da guerra industrial pop che Maynard Keenan ha probabilmente sempre sognato. Il sottoscritto non esagera: pochi gruppi possono permettersi una performance giocata in equilibrio tra raffinatezza e kitsch (i quattro figuranti wrestler che accompagnano con lotte e pantomime la scaletta del concerto), rigore elettronico e melodia. Merito sicuramente della coppia Keenan/Round al microfono, di una scrittura solida e di un suono il cui baricentro oscilla tra i Japan ed i Depeche Mode di “Exciter”. Anche se la scaletta pesca in modo democratico tra i tre dischi pubblicati, gli arrangiamenti sono inevitabilmente legati all’ultimo “Money Shot”. Accade quindi che “Telling Ghosts” si dipani sensuale e sussurrata, oppure che “Vagina Mine” (dall’album d’esordio) si spogli delle ultime scorie Tool per abbandonarsi ad una danza suadente. Se i recuperi sono una piacevole sorpresa, il repertorio recente letteralmente scintilla, con le armonie vocali che nobilitano “Grand Canyon”, la tensione sottesa di “The Remedy” ed una “Breathe” che ricorda i N.I.N. più affabili. Ed è a questo punto che affiorano i primi dubbi: che ci fanno i Puscifer qui? Sono musicisti eccelsi e suonano un pop rock elettronico di ottima fattura, e proprio per questo non dovrebbero essere sotto il tendone del Valley, ma sul Mainstage oppure in festival più generalisti (nel senso più nobile del termine), dove finalmente poter far valere le loro (enormi) potenzialità. L’impressione è che un gruppo del genere sia stato invitato più per il passato di Maynard Keenan che per l’effettiva coerenza sonora con il festival. Stupisce l’atteggiamento stesso della band, in quanto tutte le scelte del Valley, anche le più enigmatiche (Woven Hand ed i Triggerfinger nella scorsa edizione, i Magma nell’attuale) si sono sempre rivelate vincenti per la volontà degli stessi gruppi di aderire al gusto sperimentale dell’evento. Qui i Puscifer si limitano invece a svolgere (bene) il loro compito di band macinasingoli, guidando con prudenza e attenendosi rigorosamente alle indicazioni del navigatore. Non siamo dalle parti del pilota automatico, ma la rilassatezza che affiora da metà concerto in poi segnala comunque un problema. Basterebbe una curva improvvisa, magari una deviazione della voce di Keenan dal canovaccio David Sylvian, a risvegliare l’attenzione, ma non accade nulla del genere ed alla fine rimane tra le mani solo un altro concerto da classificare alla voce ‘bello, però…’.
(Stefano Protti)

Setlist:
Telling Ghosts
Galileo
Vagina Mine
Horizons
The Remedy
Grand Canyon
Breathe
Toma
Conditions of My Parole
Money Shot
Man Overboard

KING DIAMOND

Hanno terminato gli headliner, e che headliner, ma se mai possibile l’Hellfest riesce a regalarci un ulteriore, straordinario finale: signori, riecco tra noi il Re Diamante in tutto il suo splendore. E’ incredibile come non sembri mai passare il tempo, al suo cospetto: trascinante, teatrale, impeccabile nella resa vocale, nonostante passaggi che farebbero impallidire tanti virtuosi vocalist con parecchi anni di meno. Il set si apre con una selezione di pezzi dagli album classici della band, su cui spicca una “Halloween” da brividi, e un paio di cover dei Mercyful Fate tanto per gradire, tra cui una certa “Melissa” che fa scendere lacrime agli astanti. Ma naturalmente è la seconda parte del concerto, annunciata da qualche settimana, a regalare ancora più gioia: arriva il momento dell’esecuzione per intero del mitico “Abigail”, considerato unanimemente il capolavoro di King Diamond. La vistosa coreografia che richiama una villa neogotica diventa parte integrante dell’esibizione, assieme ad alcuni figuranti, come la povera protagonista dello splendido concept, il conte LaFey o malefici preti. Tra mid-tempo e passaggi più trascinanti, il fedelissimo Andy LaRocque, come il resto della band, non sbaglia un colpo, restituendoci perfettamente l’atmosfera pomposa e trascinante dell’album, come se quasi trent’anni (!) non fossero passati. E su tutti, a costo di ripeterci, si staglia una vera icona, che instancabile ci offre il suo rito grandguignolesco per quasi un’ora e mezza, senza un calo di tensione dall’iniziale “Funeral” alla maestosa “Black Horsemen”. Il Re è (un non) morto, viva il Re!
(Simone Vavalà)

Setlist:
Welcome Home
Sleepless Nights
Halloween
Eye of the Witch
Melissa
Come to the Sabbath
Arrival
A Mansion in Darkness
The Family Ghost
The 7th Day of July 1777
Omens
The Possession
Abigail
Black Horsemen

King Diamond - hellfest 2016 1 - 2016

King Diamond - hellfest 2016 2 - 2016

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