Introduzione a cura di Lorenzo Ottolenghi
Report a cura di Lorenzo Ottolenghi, Marco Pizzoni e Simone Vavalà
Foto di copertina di Jata Live Experiences https://kissjata.wordpress.com/2017/06/13/hellfest-2017-les-ambiances/
Eccoci giunti all’edizione 2017 dell’Hellfest. L’open-air francese, come organizzazione e varietà di generi proposti, migliora di anno in anno e (soprattutto) corregge il tiro quando si accorge di aver sbagliato qualcosa – la leggera diminuzione del numero di biglietti, per esempio, ha risolto il problema delle code ai chioschi che vendono cibo, che aveva causato qualche protesta l’anno scorso. Anche i volumi ed i relativi livelli hanno fatto un enorme passo avanti, tanto che possiamo contare pochissimi concerti con problemi di sound. L’impostazione ‘for the fans’ resta il cuore pulsante dell’Hellfest: pochi shop di memorabilia o merchandising più o meno ufficiale, tutto è incentrato sulla musica. Nonostante il caldo davvero intenso, soprattutto il secondo e il terzo giorno, poi restano sempre molti spazi dove ripararsi dal Sole o, semplicemente, riposarsi tra un concerto e l’altro, bevendosi qualche birra con gli amici; il meccanismo dei pagamenti cashless risulta ancora una volta vincente e abbatte i tempi di attesa. Naturalmente il centro dell’evento è costituito dai concerti che spaziano dall’hard rock più melodico al black metal più violento, passando per glam, punk, funeral doom, space rock, classic metal e brutal. Insomma, quali che siano i vostri gusti, c’è sempre un concerto interessante e, per chi volesse allargare i propri orizzonti, la scelta è immensa. La vicinanza dei palchi tra loro, inoltre, rende gli spostamenti agevoli e limita la spossatezza da lunghe camminate tipica di altri festival. Se proprio dovessimo trovare un difetto all’Hellfest potremmo dire che i prezzi di cibo e birra sono leggermente aumentati, ma restano in linea con gli altri open air di queste dimensioni. Qua trovate il resoconto della nostra trasferta a Clisson: buona lettura, mentre già inizia il countdown per l’edizione 2018!
OKKULTOKRATI
Il festival si apre (per noi) con gli Okkultokrati e il loro mix di black metal, punk hardcore e sludge. I norvegesi, che pagano un fortissimo tributo ai Darkthrone dell’era 2006-2010, propongono una setlist incentrata sulla quasi totalità dell’ultimo “Raspberry Dawn”. Nonostante non sia ancora mezzogiorno, l’atmosfera all’interno del Valley è già calda (sia dal punto di vista della temperatura che da quello del pubblico) ed una notevole folla si riunisce per vedere questa nuova ‘sensazione’. Il gruppo non si risparmia: la presenza scenica è austera, con Black Qvisling severamente fermo al centro del palco, mentre i suoi compagni si scatenano in una furia sonora che investe gli astanti come una cannonata. Pezzi come “Hard To Please, Easy To Kill” o “We Love You” non hanno la sferzante velocità del canonico black metal, ma il tiro quasi hardcore mescolato a un drumming che, a volte, vira dal punk al rock ‘n’ roll più classico, contribuisce a creare la giusta dose di violenza e intolleranza sonora. Più il concerto prosegue, più le persone vengono magneticamente attratte verso il Valley da un sound primordiale, che centra il bersaglio senza troppi fronzoli, colpisce duro e sa anche far male. Quando gli Okkultokrati finiscono il loro set, abbandoniamo la transenna, certi di aver inaugurato la tre giorni francese nel migliore dei modi.
(Lorenzo “Satana” Ottolenghi)
BOOZE & GLORY
Giovane band londinese, formatasi nel 2009 e con quattro album all’attivo, i Booze & Glory portano sul palco della Warzone tutta la carica e l’immediatezza della loro miscela di street punk e Oi!. La loro formula è tanto semplice quanto efficace: canzoni veloci, riff diretti e potenti, ma nello stesso tempo melodici e accattivanti, tanti cori e testi che parlano di bere, lavoro da cui sfuggire per andare a bere, kids, bere, risse, bere e… abbiamo già detto bere? Le canzoni dei Booze & Glory sono fatte apposta per essere cantate tutti insieme e il pubblico si unisce volentieri ai cori in brani come “Leave The Kids Alone” o “London Skinhead Crew”. Non mancano pezzi più calmi per tirare il fiato, come la ballad in salsa Oi! “Blood From A Stone”. Il concerto si chiude con la corale e anthemica “Only Fools Get Caught”, che coinvolge e manda in visibilio il pubblico. Un concerto breve ma intenso, che lascia sensazioni positive e la voglia di tornare a vederli e cantare con loro.
(Marco Pizzoni)
WORMED
E’ il turno degli spagnoli Wormed e del loro brutal death assassino. La stessa band, inizialmente, sembra stupita dal numero di persone che affolla l’Altar, ma lo stupore lascia subito il posto ad una scarica di violenza massacrante, rilasciata tramite una scarica di velocità e capacità tecniche impressionanti. Phlegeton si dimostra un ottimo frontman: non si ferma un attimo, la voce tra growl profondi e pig squeal malatissimi, non cede neanche per un attimo, mentre la batteria di G-Calero tira in modo forsennato ed estenuante, non lasciando al pubblico un attimo di respiro. Ci pensa qualche intermezzo di Phlegeton a dare respiro agli astanti, tra un caldo che inizia a farsi opprimente (pur mitigato dall’ombra del tendone dell’Altar) ed il moshpit che non sarà enorme ma rispecchia in pieno la micidiale potenza rilasciata dai Wormed. Guillemoth e Migueloud (rispettivamente basso e chitarra) macinano scale e accordi: velocità e precisione sono quasi inumane, ma la tecnica è totalmente asservita all’unico scopo della brutalità sonora. I quattro madrileni ci trasportano nella loro personalissima visione cosmica e astronomica, non cedono mai e colpiscono come la collisione di due nebulose. Quando il concerto finisce restiamo annichiliti da tanta energia distruttiva, ma è ancora presto e l’Hellfest 2017 è solo agli inizi.
(Lorenzo “Satana” Ottolenghi)
TÝR
Non abbiamo neanche il tempo per una birra rinfrescante che ci consenta di riprendere fiato ed energia, perché la folla radunatasi al Temple è immensa. Raggiungiamo a fatica le prime file, pronti a goderci il concerto dei viking metaller delle sperdute Isole Faroe: una band che, come pochissime altre nel suo genere, riesce a unire epicità e ricercatezza musicale. La setlist che i Týr propongono in queste poche date estive è piuttosto differente da quella invernale, basata su pezzi più da festival, pur non rinnegando assolutamente l’aspetto più intimo e introspettivo del gruppo. Dopo aver saggiato Valley e Altar, constatiamo con piacere che anche nel Temple (il terzo palco al coperto del festival) i suoni sono da subito di alto livello, a differenza dell’anno scorso, quando i primi due giorni di festival avevano sofferto volumi troppo alti che creavano un caos sonoro piuttosto fastidioso e penalizzante per molte band. Kilt, corni, corazze e martelli di Thor si sprecano, ma l’atmosfera creata dagli scandinavi è tutt’altro che festaiola, tanto che – all’arrivo dei due anthem “Hold The Heathen Hammer High” e “By The Sword In My Hand” – il moshpit che si scatena è immenso e particolarmente ‘cattivo’, quasi da concerto thrash. Heri Joensen, come sempre un po’ freddo, tiene comunque il palco ottimamente arrivando (cosa inedita per un personaggio schivo come lui) ad attendere il formarsi delle due ali di un wall of death che occupa un buon terzo dell’area concerto. L’impatto è violentissimo e la musica belligerante dei Týr guida il pubblico fino alla conclusiva “Shadow Of The Swastika”, pezzo che prende fortemente le distanze da posizioni politiche che erano state attribuite al gruppo e che si trasforma nell’ennesimo sing-along del concerto. I Týr sono ottimi musicisti e grandi compositori e riescono a dimostrarlo in tutto e per tutto, con uno show che resterà sicuramente impresso a lungo nella memoria dei presenti.
(Lorenzo “Satana” Ottolenghi)
HELMET
Nella miglior tradizione rock, sarebbe buona abitudine salire sul palco con una birra d’ordinanza, o un Jack Daniel’s di rappresentanza. Ma Page Hamilton è sempre stato di un’altra categoria, ed ecco che prende posizione con una bottiglia di Laphroaig, che ben giustificherà l’esecuzione di “Drunk In The Afternoon” a metà del concerto; c’è poco da dire sull’attuale produzione in studio degli Helmet, ahimè, ma va detto che oggi Page e i suoi giovani compagni d’armi sono in grande forma: appena quaranta minuti di esibizione, ma serratissimi e trascinanti – tanto che già alle quattro del pomeriggio il Valley va riempendosi discretamente. Metà dei pezzi proposti, compresa l’iniziale “Give It”, provengono dagli immortali “Meantime” e “Betty”, con gran gioia del pubblico, ma va detto che anche i brani più recenti rendono bene in sede live e fanno saltare gli astanti; se ci aspettavamo un concerto da lacrimuccia nostalgica e delusa, siamo lieti di esser stati smentiti e di aver scapocciato con gusto durante classici come “Unsung”.
(Simone Vavalà)
BOUNCING SOULS
Sono quasi le cinque di pomeriggio e il Sole a picco non dà tregua, ma nonostante questo la Warzone è piena per i Bouncing Souls, band ormai storica dell’hardcore melodico americano. L’inizio è un po’ in sordina, anche a causa della chitarra in parte sovrastata dal volume fin troppo elevato del basso, cosa che si ripeterà anche in altri concerti su questo palco, e Greg Attonito sembra quasi svogliato. Ci vuole poco però perché la band ingrani e offra uno show di punk rock tirato e dalle forti linee melodiche. Già alla terza canzone, “Kate Is Great”, il frontman scende a cantare in mezzo al pubblico, cosa che si ripeterà altre due volte (durante la ballad punk “Lean On Sheena” e la conclusiva “True Believers”). La formazione non si risparmia e le canzoni vengono sparate senza interruzioni una dopo l’altra, con un’ottima risposta da parte del pubblico che non smette un attimo di pogare e cantare. Il concerto si chiude con un terzetto di brani ormai classici: “Hopeless Romantic”, “Manthem” e il già citato vero e proprio inno “True Believers”. Certo, qualche imprecisione tecnica c’è e la voce di Greg non sempre è ai massimi livelli, ma tutto questo passa decisamente in secondo piano grazie alla carica e all’energia che i Nostri ci mettono; e poi, diciamocelo, è un concerto punk rock e l’obiettivo dei Bouncing Souls è quello di far divertire il pubblico. E in questo sono riusciti alla grande.
(Marco Pizzoni)
DØDHEIMSGARD
Se dovessimo dare un premio all’aspetto peggiore di una band in questa edizione dell’Hellfest, questo premio andrebbe ai Dødheimsgard (che, per inciso, distaccherebbero di parecchie misure ogni altro contendente). La band sceglie di proporre una setlist che pesca un pezzo da ogni disco (con l’unica eccezione di “Monumental Possession” da cui vengono proposte sia “Fluency” che “The Ultimate Reflection”) e (dal punto di vista sonoro) crea uno show impeccabile, svelando i mille volti che hanno condotto Vicotnik, da “Kronet Tail Konge” fino a “A Umbra Omega”, lungo un percorso musicale in cui il black metal è sempre parte fondamentale, ma tutto il contorno ha avuto una costante (e sempre ottima) evoluzione. Voltando le spalle al palco, riusciremmo a goderci un ottimo concerto di una band geniale e – a tratti – strepitosa, che suona in modo impeccabile sia il black primordiale degli esordi (“Midnattskogens Sorte Kjerne”) che l’avant-garde più sperimentale (“Architect Of Darkness”), riuscendo, e qua sta la bravura dei DHG, a lasciare inalterato il sound originale di ogni pezzo, senza uniformare lo stile dei primi due dischi a quello degli ultimi lavori. Il concerto è, come dicevamo, di livello altissimo, come quasi sempre quando si parla dei Dødheimsgard, e l’impatto sonoro gelido e, al contempo, malato; lo show non ha cali o momenti di stanca, aspetto non trascurabile visto che la musica proposta non è certo di facile impatto, anche per chi è abituato alle sonorità estreme. Fin qua, quindi, tutto bene. Parlavamo dell’aspetto visivo (che in una band black metal, sopratutto in fase live, è tutt’altro che trascurabile): la scelta stilistica di rifarsi alla mitologia indiana potrebbe anche risultare vincente; purtroppo le camicie colorate in stile figli dei fiori e le smorfie di Vicotnik, ricordanti una specie di Abbath freakettone, rovinano il tutto rendendo la componente estetica dello show davvero ridicola. Peccato.
(Lorenzo “Satana” Ottolenghi)
MINISTRY
Rivediamo i Ministry ad appena una settimana di distanza dall’esibizione in quel dell’Alcatraz, e il risultato è il medesimo: la devastazione dei nostri timpani e un livello di adrenalina che permetterebbe di invadere la Polonia, per citare Woody Allen. Non c’è open air o dimensione di pubblico che tenga, né tantomeno gli infiniti cambi di formazione che hanno caratterizzato la tossica e travagliata vita (anche musicale) di Al Jourgensen; qua i volumi giocano ancora più a favore della sua mostruosa carica, e il pubblico di Clisson ci mette poco a creare un circle pit da ambulanze, a cui l’Alieno leader dà corda con gesti e invocazioni esplicite. Scaletta di mestiere che pesca nella parte iniziale dagli ultimi album, con l’aggiunta della gustosa anticipazione dal nuovo album con “Antifa”, ma quando si passa a una sequenza di classici come “Waiting”, “NWO”, “Just One Fix” e “Thieves”, non ce n’è più per nessuno; la band non sbaglia un colpo, Bechdel alle macchine è molto più presente rispetto all’esibizione milanese e i frequenti campionamenti aggiungono la giusta dose di alienazione al solito, a tratti scontato ma sempre immenso, sabba in salsa industriale che il combo americano sa sbatterci in faccia.
(Simone Vavalà)
CRYPTOPSY
Finalmente l’aria serale comincia a farsi sentire e rinfresca un po’ Clisson. Il momento è perfetto perché è arrivata l’ora del concerto dei Cryptopsy, uno degli eventi più interessanti di questa prima giornata, specie per gli amanti delle sonorità estreme. Flo Mounier è rimasto l’unico membro originale della band canadese, ma questo non impedisce al gruppo di proporre come secondo pezzo “Mutant Christ” estratta dal debut “Blasphemy Made Flesh”. Ma l’inizio del concerto (i primi tre pezzi per l’esattezza) sono solo un bonus, una specie di antipasto per quello che sta per arrivare: “None So Vile” eseguito per intero. Riproporre a vent’anni di distanza una delle pietre miliari del brutal death è, già di per sé, un azzardo; farlo con un solo membro della formazione che compose e incise quel disco potrebbe rivelarsi un fallimento totale. La nuova formazione dei Cryptopsy, però, è ben rodata e ha già all’attivo un bel po’ di anni di lavoro in comune, anche se non far rimpiangere le chitarre di Jon Levasseur e, sopratutto, la voce sfoderata da Dan Greening su “None So Vile” non è impresa da poco. Ma, appena parte “Crown Of Horns”, ogni dubbio viene spazzato via. Certo, la voce di Matt McGachy non è quella di Lord Worm e (inutile negarlo) si sente eccome, mentre la chitarra di Christian Donaldson e il basso di Olivier Pinard macinano precisi come un metronomo e letali come una lama affilata; dietro le pelli, Flo dirige il tutto con maestria e con un drumming sovrumano. Tutto prosegue preciso fino alla conclusiva “Orgiastic Disembowelment”. Molti fan della prima ora sono rimasti parecchio delusi dalla prestazione di Matt McGachy, ma – in fondo – è tutta una questione di aspettative: attendersi la voce di Dan “Lord Worm” Greening era impensabile e noi non abbiamo trovato il risultato finale deludente, anzi. In fondo riprodurre le vocals di “None So Vile” sarebbe stato forse fuori luogo; più onesto che Matt abbia cantato con il suo stile, a nostro avviso.
(Lorenzo “Satana” Ottolenghi)
ELECTRIC WIZARD
Luci psichedeliche, la proiezione di un film della Hammer/exploitation come di dovere e il lento ingresso dei membri della band: basterebbe l’atmosfera che precede anche l’emissione di una singola nota per rendere l’idea di cosa ci aspetta, ma quanto segue è ancora più intenso. Jus Oborn e i suoi compagni di misfatti ci immergono in un calderone lisergico, oppressivo e ossessivo per un’ora esatta, che nella nostra percezione sfiora l’infinito, anche senza ricorrere a sostanze stupefacenti. Solo sette brani, dilatatissimi come da copione, con una splendida “Black Mass” che dà la giusta misura di cosa stia avvenendo sul palco, con la voce di Oborn perfetto specchio di una celebrazione dell’Oscuro Signore. Ma anche i pezzi più vecchi, come “Return Trip” o la conclusiva “Funeralopolis” rendono a meraviglia. Il Valley è chiaramente lo stage perfetto per la proposta dei quattro inglesi, ma simmetricamente le chitarre che colano malignità di Jus e Liz Buckingham e la pachidermica sezione ritmica sono l’ideale presenza sul palco più stonato e sperimentale dell’Hellfest.
(Simone Vavalà)
OBITUARY
Cinque pezzi estratti da “Slowly We Rot” e quattro da “Cause Of Death”. Nove pezzi su quindici estratti da due dischi iconici e fondamentali nella nascita del death metal americano (specie nella sua declinazione più classica, quella della scena della Florida). Questo è quello che i fratelli Tardy hanno proposto sul palco dell’Altar. Certo, si potrà imputare agli Obituary che i loro lavori non brillino per originalità, che una setlist basata per due terzi sui primi due album possa essere una mossa furba e che, forse, abbiano esaurito da tempo quello che avevano da dire. Ciò non toglie che, in quasi trent’anni di carriera, i due fratelli Tardy e il fedele Trevor Peres abbiano lasciato sudore e sangue sui palchi di mezzo mondo, senza mai risparmiarsi. Questa serata non fa eccezione e sentire la voce di John è un piacere per tutti gli amanti del Death Metal (quello con le maiuscole). La tripletta iniziale è massacrante: “Internal Bleeding”, “Chopped In Half” e “Turned Inside Out”: un vero e proprio massacro, un assalto all’arma bianca verso gli astanti, un’energia travolgente, insomma: gli Obituary. Poi, dopo alcuni pezzi che privilegiano l’album uscito a marzo, la combo “Dying” / “Find The Arise” / “Deadly Intentions” fino alla conclusione con “‘Til Death”, “Words Of Evil” e “Slowly We Rot”. C’è poco da aggiungere: perfetti dall’inizio alla fine, un tritacarne umano che macina il pubblico e non si ferma mai, gente prossima ai cinquanta anni che ha ancora molto da insegnare a colleghi più giovani e blasonati, una band che ‘combatte fino alla morte’.
(Lorenzo “Satana” Ottolenghi)
RANCID
Freschi di un nuovo album, “Trouble Maker”, e con una carriera che ormai ha raggiunto il quarto di secolo, i Rancid salgono sul palco della Warzone come Main Event del venerdì e semplicemente spazzano via tutto e tutti. Iniziano con “Radio”, per poi inanellare quattro pezzi di fila da “…And Out Come The Wolves” (“Roots Radicals“, “Journey To The End Of The East Bay”, “Maxwell Murder”, “The 11th Hour”), che fanno letteralmente esplodere il numeroso pubblico. La loro miscela di punk e ska è travolgente e l’intera Warzone diventa una vera propria bolgia con tutti, ma proprio tutti, che cantano, ballano e pogano ininterrottamente per l’intero concerto. Tim Armstrong, con una lunga barba incolta da hobo, non sta fermo un attimo sul palco, salta, corre da una parte all’altra, fa volteggiare, come sua abitudine, la chitarra e canta la maggior parte dei brani. Lars Fredriksen è l’altro mattatore della serata, affianca Tim nei cori e incita continuamente il pubblico. Più statico Matt Freeman, ma quando mostra quello che può fare con il basso, come nell’assolo di “Maxwell Murder”, non ce n’è per nessuno. Non mancano i brani dal nuovo album (“Ghost Of Chance”, “Telegraph Avenue”, “Where I’m Going”, “Buddy”), ma la maggior parte dei pezzi sono tratti appunto dal classico “…And Out Come The Wolves” e da come li suonano non sembra che siano passati più di vent’anni da quando è uscito il disco. Il concerto si chiude con una doppietta da paura, “Time Bomb” e “Ruby Soho”, che lascia tutti i presenti stravolti e senza fiato. In una sola parola: travolgenti.
(Marco Pizzoni)
MARDUK
Indubbiamente i Marduk sono una delle migliori live band nell’ambito black metal, almeno tra i big del genere, e ne hanno dato prova massacrando il Temple con la loro gelida carica di odio blasfemo. Forse la setlist cerca di coprire un po’ troppo la loro storia musicale privilegiando (in modo comprensibile) i dischi suonati da Mortuus e Devo a discapito degli album degli anni novanta (da cui, comunque, vengono proposti quattro brani su dodici di setlist). Si parte con due estratti dall’ultimo “Frontschwein” e, dopo la prima pausa, ecco subito “Of Hell’s Fire” e “Materialized In Stone”. Si prosegue: i Marduk sono in forma e suonano, come sempre, in modo impeccabile, distruggendo con la loro ferocia blasfema tutti gli astanti. Alcuni pezzi sembrano un po’ dei riempitivi, ma la tripletta costituita da “Throne Of Rats”, “Cloven Hoof” e “To The Death’s Head True” ritorna a colpire con violenza inaudita. Legion e compagni tornano su materiale più recente, pescando dagli ultimi due dischi (il già citato “Frontschwein” e “Serpent Sermon”). Se, probabilmente, il materiale venuto negli anni 2000 non ha la stessa carica gelida e notturna dei dischi precedenti, di certo non si può dire che i Marduk abbiano fatto dischi di basso livello (forse il solo “Rom 5:12” è un po’ sottotono) e la resa live dei pezzi estratti da questi lavori lo dimostra in modo evidente. Certo, il finale costituito da “Legion” e dall’immancabile “Panzer Division Marduk” sono chiaramente di un’altra caratura; questo, però, non indebolisce la qualità dello show e l’ora di puro black metal che i Marduk ci regalano. Se proprio dovessimo muovere delle critiche alla band, queste riguarderebbero la setlist (più adatta a un concerto vero e proprio che a un set all’interno di un festival) e le numerose pause tra un pezzo e l’altro che hanno indebolito un po’ l’atmosfera che gli svedesi sanno creare pezzo dopo pezzo. Nel complesso, comunque, un ottimo live.
(Lorenzo “Satana” Ottolenghi)
AUTOPSY
Le occasioni di assistere a un’esibizione degli Autopsy sono, purtroppo, rare ed è con grande piacere che ci prepariamo a concludere la giornata dell’Altar con questi padrini del death metal. Il banner alle loro spalle è ispirato alla grafica del primo e immarcescibile “Severed Survival”, che il combo californiano ripropone per metà nel corso del concerto; un concerto quadratissimo, ignorante quanto basta, eppure senza sbavature: la capacità di trascinare la band e il pubblico di Chris Reifert, pur relegato dietro le pelli, è a dir poco encomiabile, e quasi stupisce come il batterista riesca a non trascurare il minimo fill-in senza perdere nulla in violenza ed espressività alla voce. Il resto della band fa il suo mestiere alla grande, riuscendo anche a sopperire all’assenza di un frontman con la giusta dose di presenza scenica, rinunciando a una certa e comune staticità ieratica di rito. Unica pecca, per certi versi, il pubblico poco numeroso; condizione che però, all’opposto, ci ha permesso di goderci un grande concerto senza troppa pressione.
(Simone Vavalà)
THE DAMNED
Capofila del punk inglese, padrini di una certa estetica horror rock, prestati negli anni al calderone goth o al generico alveo dell’alternative: questo e molto altro sono stati in quarant’anni di carriera i The Damned. Chiudere una serata alla Warzone, regno ormai consolidato delle band dall’attitudine più -core, può sembrare persino strambo per questi attempati inglesi, ma il responso del pubblico non lascia dubbi: all’alba dell’una e mezza di notte i pezzi più trascinanti, come “Ignite” o “Anti Pope”, scatenano un pogo e un polverone selvaggi, e anche la band sembra divertirsi parecchio; lo storico Captain Sensible, vestito a metà tra un marinaretto e un lord inglese decaduto sferza la chitarra con semplicità ma efficacia, i membri ‘più giovani’ alla sezione ritmica fanno il loro con capacità, il tastierista Mony Oxy Moron, nel suo completo optical da imbonitore, aggiunge molto allo spettacolo, ovviamente centrato sul carismatico Dave Vanian. Il look un po’ picaresco con baffo a punta e capelli ingellati rende bene l’idea di un attempato rocker e anche la voce regge più che dignitosamente, sebbene qualche pezzo – per esempio “Neat Neat Neat” – venga reso con meno energia del previsto. Ma la Storia passa anche di qua, e vale la pena tossire un po’ di terra alla fine del concerto.
(Simone Vavalà)