17/06/2017 - HELLFEST 2017 – 2° giorno @ Clisson - Clisson (Francia)

Pubblicato il 26/07/2017 da

Report a cura di Lorenzo Ottolenghi, Marco Pizzoni e Simone Vavalà
Foto di copertina di Jata Live Experiences https://kissjata.wordpress.com/2017/06/13/hellfest-2017-les-ambiances/

Eccovi il report della seconda giornata dell’Hellfest 2017. Potete leggere il report della prima giornata di festival a questo link.

 

 

IGORRR
Gautier Serre e la sua creatura Igorrr fanno il loro ingresso sul palco del Temple accolti da una folla numerosissima. Certo, Gautier gioca in casa, ma la sua proposta musicale è tutt’altro che semplice e solo marginalmente metal, quindi già questo dato stupisce in senso positivo. Resta la perplessità di come l’amalgama sonoro di death metal, breakcore, musica operistica e campionamenti di strumenti tradizionali possa rendere dal vivo. Gautier lavora con mixer e synth: suona e non fa partire basi, già questo è un ottimo segno; la batteria di Sylvain Bouvier è perfettamente integrata: tira, si ferma e – in perfetta sintonia – crea break improvvisi. A completare l’opera, il growl di Laurent Lunoir e le incursioni operistiche e barocche di Laure Le Prunenec. Per farla breve, gli ingranaggi sono ben oliati e la macchina funziona a dovere. Chiaro, la differenza rispetto al lavoro in studio c’è, ma non pesa, perché lo show è pensato per la dimensione live e alcuni cambiamenti (come su “Cheval” o “ueiD”) rendono perfettamente la dimensione da concerto. Ottimo inizio della seconda giornata di festival.
(Lorenzo “Satana” Ottolenghi)

BONGRIPPER
Quaranta minuti di esibizione, due brani: il nostro report potrebbe finire così. Ma siamo al Valley, ed è esattamente quello che il pubblico desidera; il basso pulsante e distorto di Ronald Petzke trascina la band come un cammello nel deserto, ben sostenuto da un O’Connor in stato di grazia – e di trance, vista la ripetitività – dietro le pelli. Le due chitarre dipingono la giusta dose di derive lisergiche, e in effetti sia “Worship” che “Endless” (nomen omen) risultano ancora più dilatate che su disco. Il limite, per i Bongripper, resta quello ben noto, ossia l’assenza di voce; ma se, come dimostrato dal parterre, lo scopo è invocare Satana fumando e trasudando ganja, il risultato è stato raggiunto alla grande.
(Simone Vavalà)

EREB ALTOR
Gli Ereb Altor sono, fondamentalmente, due band: quelli degli inizi, fautori di un ottimo epic doom, e quelli più recenti, cioè i fratellini tristi e un po’ sfigati di Quorthon. Così è il loro concerto, diviso tra (poco) ottimo materiale preso dal periodo in cui Mats e Ragnar facevano musica originale e materiale che rasenta spesso il plagio più smaccato di “Hammerheart” e “Blood Fire Death”. Il pubblico gradisce e quindi avranno sicuramente ragione i quattro svedesi. La band, comunque, suona bene e i due leader sanno tenere bene il palco, scambiandosi il ruolo di frontman mantenendo vivo l’interesse degli astanti. Certo, quando il pezzo che riscuote più successo in un concerto è una cover, forse (come musicisti) gli Ereb Altor un paio di domande dovrebbero farsele.
(Lorenzo “Satana” Ottolenghi)

UGLY KID JOE
Sicuramente la band di Whitfield Crane ha fatto il possibile per suonare as ugly as they wanna be, ma la sensazione che certi tempi d’oro non possano proprio tornare è innegabile. Intendiamoci: la resa dei brani è dignitosissima, e una scaletta che comprende pezzi come “Cats In The Cradle” o “Everything About You” difficilmente può deludere; ma probabilmente l’attività live troppo sporadica, un po’ di energie in meno rispetto al glorioso passato e la scelta di farli esibire sul Main Stage, per quanto in orario pomeridiano, hanno giocato troppo a sfavore della naturale giocosità dei cinque californiani. Un buon mestiere senza highlight e meno cori del previsto, purtroppo.
(Simone Vavalà)

ZEKE
Quando gli Zeke salgono sul palco della Warzone il caldo è veramente infernale, ma ciò non ferma i quattro di Seattle che, dopo un veloce saluto, si lanciano in un concerto al fulmicotone. I brani sono suonati a una velocità folle e risultano diretti e immediati. Quello che prevale è l’anima più hardcore della band, che non tolgono mai il piede dall’acceleratore. Il concerto è decisamente travolgente, il pogo coinvolge buona parte del pubblico e il polverone che si solleva finisce per coprire anche il palco. Una trentina di canzoni sparate senza un attimo di tregua una dopo l’altra, in tre quarti d’ora scarsi, questo è stato il concerto degli Zeke, il più ignorante, nel senso positivo del termine, visto alla Warzone.
(Marco Pizzoni)

STEEL PANTHER
Assistere a un concerto degli Steel Panther vuol dire fare un tuffo nel glam e nell’hair metal degli anni ’80; uno show che unisce siparietti comici, volgarità assortite e tette, tante tette. In tutto questo non va assolutamente dimenticata la componente musicale, perchè sono sì una band parodia, ma sono anche dei musicisti eccellenti, come hanno dimostrato anche quest’oggi all’Hellfest. Il pubblico che assiepa il Main Stage è davvero numeroso e gli Steel Panther non deludono le aspettative, proponendo uno show infuocato. I Nostri suonano sia brani più heavy, come l’iniziale “Eyes Of A Panther” o “Death To All But Metal”, che dal vivo scatena sempre un pogo devastante, sia ballad come “Community Property”, dal testo spassoso e volgare cantato in coro dal pubblico. Non mancano pezzi dal nuovo album “Lower The Bar” (“Goin’ In The Backdoor”, “That’s When You Came In” e “Poontang Boomerang”), che dal vivo rendono davvero bene. Michael Starr, Satchel, Lexxi Foxxx e Stix Zadinia, come sempre, non fanno mancare l’elemento comico e scherzano spesso fra loro e con il pubblico con improbabili storie a base di sesso e rock’n’roll, senza dimenticare i vari inviti a mettersi in topless, al grido di ‘nichon! nichon!’, prontamente colti dal pubblico femminile. Il culmine arriva con “17 Girls In A Row”, con la solita invasione di palco da parte delle ‘sluttiest girls’, come le definisce scherzosamente Starr, e il concerto si trasforma quasi in uno spettacolo a luci rosse, anche se il tono ironico, soprattutto da parte dei musicisti, rimane comunque elevato. Il finale arriva in grande stile con “Glory Hole” e “Party All Day (Fuck All Night)”, che chiudono uno concerto all’insegna del divertimento e dell’heavy metal più scatenato.
(Marco Pizzoni)

SKEPTICISM
Alle 15 si presentano sul palco del Temple gli Skepticism. I funeral doomster, come al solito, vestono in modo impeccabile e danno il via al loro show così come tutto è iniziato, cioè con “Sign Of A Storm”, primo pezzo del loro debut “Stormcrowfleet”. Matti Tilaeus compare con un mazzo di rose bianche che appoggia davanti all’asta del microfono, prima di iniziare a investire di cupa disperazione il pubblico. Jani Kekarainen dipinge, con la sua chitarra, scenari cupi e mortiferi, mentre Eero Pöyry, alla tastiera, al lato sinistro del palco, spalle alla band, impreziosisce il sound del gruppo. Su tutto il drumming monolitico di Lasse Pelkonen, che (praticamente) usa il timpano come se fosse un rullante e segna il tempo inesorabile e sfibrante che ci accompagnerà per il resto dello show. Si prosegue con “Forge” e “Arrival”: gli Skepticism macinano lentamente note su note, in un gorgo denso e massacrante. “March October” e “The Departure” proseguono l’agonia lancinante a beneficio di un pubblico decisamente numeroso (vista anche la proposta musicale estrema e non certo a tema con la generale allegria tipica di un festival open-air). Lo show si conclude con “Oars In The Dusk” e Matti che distribuisce qualche rosa al pubblico; poi gli Skepticism spariscono dal palco, tornando nella tetra nebbia che li ha partoriti. Per gli amanti del genere, uno dei concerti più intensi della tre giorni francese.
(Lorenzo “Satana” Ottolenghi)

DEE SNIDER
Ci sono rockstar che annaspano arrivate a cinquant’anni e poi c’è Dee Snider che, a sessantadue anni, si presenta per il secondo anno consecutivo all’Hellfest. Dopo l’epocale data del 2016, parte del tour d’addio dei Twisted Sister, il biondo singer americano torna in terra francese (come sostituto degli WASP, che hanno cancellato tutte le date estive all’ultimo momento) e ci regala un altro show strepitoso. La setlist è equamente distribuita: quattro pezzi di Dee Snider, tre inni dei Twisted Sister e due cover; l’energia è travolgente, un vero e proprio rito rock guidato da un maestro di cerimonia impeccabile, un frontman davvero di altri tempi, in grado di guidare il pubblico, cantare in modo impeccabile e dosare sapientemente le parti discorsive, con la consueta ironia acuta e sferzante. Il vero tripudio è, ovviamente, la seconda parte del concerto: una dedica alla lotta contro il terrorismo e Dee ci propone un’inedita “We’re Not Gonna Take It” lenta e d’atmosfera, fatta solo da voce e piano. La performance è toccante, a tratti struggente, ma ovviamente uno dei più grandi anthem metal non può mancare nella sua versione originale, che inizia quando ancora gli astanti applaudono la versione più intima. Come sempre succede, il pezzo ha una reprise fatta dalla band e una seconda reprise chiamata dal pubblico che canta incessantemente il refrain. Segue “Outshined”, pezzo dei Soundgarden dedicato a Chris Cornell, accompagnato da un sentito e poderoso sing-along dell’audience. La chiusura è lasciata all’immortale “I Wanna Rock” e a “So What”. Un altro concerto memorabile.
(Lorenzo “Satana” Ottolenghi)

SAXON
Altri veterani, i Saxon. Alle 20:00 è il turno di Biff Byford e soci, un Biff encomiabile nel suo costume di scena, nonostante il caldo veramente soffocante, e in gran spolvero. Gli inglesi esordiscono con “Battering Ram” e “Motorcycle Man”, chiarendo subito che la loro sarà una setlist fatta di classici con abbondanti incursioni nel materiale più nuovo: un giusto equilibrio che raramente riesce. Inutile negare che gli astanti si scatenino di più con le hit del gruppo (e non manca nulla, da “Power And The Glory” a “Wheels Of Steel”, passando per”20.000 Ft.”, “Heavy Metal Thunder”, “747 (Strangers In The Night)” e “Crusader”), gruppo in forma strepitosa. I Saxon non mancano un colpo, suonano in modo egregio e rendono onore alla vastissima folla accorsa ad ascoltare il loro Heavy Metal (quello con le maiuscole). I pezzi corrono come una locomotiva, uno dopo l’altro, e la performance coinvolgente e impeccabile attira sempre più persone al Main Stage 2, una folla più che meritata e che scaccia definitivamente (se ancora ce ne fosse bisogno) il difficile periodo attraversato dai cinque inglesi negli anni novanta. Il finale non può che essere lasciato ai due classici per eccellenza firmati Saxon: “Denim And Leather” e “Princess Of The Night”. Un concerto davvero impeccabile, con un gruppo in forma strepitosa ed un pubblico più che partecipe. Ma dai Saxon non ci aspettiamo mai nulla di meno.
(Lorenzo “Satana” Ottolenghi)

ALCEST
In una delle giornate più peculiari nella programmazione del Temple, non sfigurano certo gli Alcest; il quartetto capitanato da Neige gioca in casa, e si vede: pur posizionati ben prima dello slot principale, raccolgono un pubblico numeroso e attento, che ci costringe ad assistere all’esibizione dall’esterno del tendone. Ma nonostante l’apparente contrasto tra la distanza e la proposta intimista della band, il risultato convince; il combo concentra lo spettacolo sull’ultimo lavoro “Kodama”, salta a pié pari il capolavoro d’esordio “Souvenirs D’Un Autre Monde”, eppure offre uno spettacolo compatto e molto più coinvolgente di come le atmosfere su disco suggeriscano. L’afflato complessivo è sicuramente piuttosto progressive, ma alla voce Neige offre grida e strazi a sufficienza, e complessivamente la band suona molto più black di quanto possa suggerire la loro più recente produzione.
(Simone Vavalà)

PRIMUS
Un Valley assiepato e rovente accoglie il trio capitanato da Les Claypool, che si presenta decisamente in grande forma. Bastano i primi tocchi sul basso sulle note di “Those Damned Blue-Collar Tweekers” per far saltare il pubblico forsennatamente, e la leggerezza con cui il funambolico frontman farà correre le sue dita nella seguente ora ha dello stupefacente. Il sostegno dietro le pelli di Tim Alexander, rientrato in pianta stabile nella formazione, è come sempre perfetto, così come le lisergiche trine alla sei corde di Larry Lalonde, perfetto contraltare del mostruoso bassista. Che non sbaglia un colpo nemmeno alla voce, come sempre istrionica e da cartone animato: l’approccio sardonico della band tocca uno dei suoi apici su “Wynona’s Big Brown Beaver”, accompagnata dal suo divertente video, così come la successiva “Mr Krinkle”, che vede Claypool impegnato al contrabbasso e mascherato da maiale. Un altro siparietto divertente prende corpo quando presenta la band come formata da un paio di settimane e desiderosa di provare a far ascoltare qualcosa al pubblico presente, il tutto prima della sequenza finale da brividi, con “Jerry Was a Race Car Driver” e “My Name Is Mud”: due pezzi mirabili e due riff mastodontici, che ci risuoneranno in testa per tutta la serata e oltre.
(Simone Vavalà)

AEROSMITH
Molto difficile, da parte di chi vi scrive, raccontare il concerto degli Aerosmith a Clisson: da un lato c’è il cuore di una persona che, per i motivi più disparati, in quasi trenta anni di concerti non era mai riuscita a vedere dal vivo la band di Steven Tyler e Joe Perry. Quella persona vi direbbe che è stato un concerto magnifico, che l’ha magicamente riportata indietro di vent’anni e più, con canzoni senza tempo, inscindibilmente legate a mille ricordi (“Mama Kin”, “Young Lust”, “Cryin'”, “Living On The Edge”, “Walk This Way”, “Dude (Looks Like A Lady)”, “Dream On”): un piccolo sogno che si avvera, condiviso con persone speciali… Insomma, tutto quello che si possa volere da un concerto rock. Da un altro lato, però, c’è la testa o – meglio – lo spirito critico di chi deve raccontare con professionalità un concerto. E il concerto degli Aerosmith è stato, a voler essere clementi, appena mediocre. Scaletta discutibile per quello che (forse?) è un tour d’addio: molti pezzi troppo recenti (ma, in fondo, la fama – quella vera – per Tyler e soci, è arrivata negli anni novanta), cinque cover piuttosto inutili, tantissime pause per allungare il brodo, ma sopratutto un Joe Perry impreciso (tanto da fermarsi, scusarsi ed imputare l’errore all’emozione, come se in quasi cinquant’anni di carriera le 50.000 persone dell’Hellfest siano da considerarsi una novità) e uno Steven Tyler completamente spompato, visibilmente affaticato dopo solo due pezzi e che continua a sparire, lasciando l’onere della voce a Perry. Non avendo metri di paragone, il sottoscritto non sa dirvi se questa sia la ‘media’ degli Aerosmith, ma ne dubitiamo fortemente. Una band non raggiunge un successo così vasto e duraturo con performance live di questo tenore. Certo: c’è la scusante dell’età, ma è una scusante che si può davvero far valere? Pensiamo di no, sopratutto pensando allo show di un anno prima, sullo stesso palco, dei Black Sabbath (e senza voler scomodare band come i Rolling Stones). Non ce la sentiamo neanche di infierire, perchè si tratta pur sempre degli Aerosmith, un gruppo immenso che ci ha regalato momenti fondamentali di hard-rock e heavy metal. Insomma, un concerto non all’altezza del nome di una band del genere, che avrà lasciato delusi molti. Noi ce ne siamo andati cantando “Janie’s Got A Gun”, perché – in fondo – un concerto è fatto di sensazioni, momenti e ricordi.
(Lorenzo “Satana” Ottolenghi)

KREATOR
A chiudere la seconda giornata del Festival sui Main Stage arrivano i Kreator e, come da copione, triturano tutto e tutti. Una scenografia che ricorda vagamente una cattedrale diroccata, essenziale ma d’effetto; Mille Petrozza che sale sul palco in calzoncini e maglia dei Misfits, ed ecco che parte l’Apocalisse: il quartetto tedesco pesca con criterio dall’intera discografia, con ben quattro pezzi dal recente “Gods Of Violence”, fra i quali alcuni, come “Satan Is Real” o la title-track, sembrano avviati serenamente a prendere posto tra i futuri classici dal vivo. Nonostante l’ora tarda il pogo è selvaggio e coinvolge buona parte del pubblico, che su pezzi come “Phobia” o “Total Death” pare davvero impazzire – in senso buono. Non ci sono sbavature, solo ragionata violenza e gli incitamenti del carismatico Mille, che porta a conclusione la festa con “Pleasure To Kill”.
(Simone Vavalà)

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