Report a cura di Lorenzo Ottolenghi, Marco Pizzoni e Simone Vavalà
Foto di copertina di Jata Live Experiences https://kissjata.wordpress.com/2017/06/13/hellfest-2017-les-ambiances/
Eccovi il report della terza e ultima giornata dell’Hellfest 2017. Potete leggere qui il report della prima giornata di festival, e a questo link quello della seconda.
PRONG
L’orario è a dir poco infame, specie col clima torrido che ha caratterizzato questi giorni all’Hellfest; a poco serve cercare di rinfrescarsi con una birra sotto il Sole delle 13, anzi: la disidratazione è dietro l’angolo, e l’euforico spettacolo messo in piedi da Tommy Victor e soci ci dà solo il colpo di grazia. Nemmeno tre quarti d’ora a disposizione, ed ecco quindi che il terzetto californiano sceglie di conquistare la platea a colpi di potenza e groove: un paio di estratti dall’ultimo (in attesa di fine mese) “X-No Absolutes” e poi un ripescaggio di classici che arrivano fino a “Beg To Differ”, per la gioia di tutti i presenti. Resiste Art Cruz dietro le pelli, mentre abbiamo perso ormai il conto dei bassisti che si sono avvicendati sul palco con i Prong, ma l’importante è la compattezza, e anche oggi tutto funziona. Tommy è in stato di grazia e macina riff su riff, dando come sempre l’impressione di avere almeno un altro chitarrista al suo fianco, e quando arrivano “Whose Fist Is This Anyway?” e “Snap Your Fingers, Snap Your Neck” il polverone creato dal moshpit fa pensare al deserto e i cori ad un raduno hardcore degli anni ’90. Entusiasmo, incitamento, riff trascinanti, anche all’una del pomeriggio e con un parterre ridotto: questo è professionismo da corna alzate.
(Simone Vavalà)
HIRAX
Appena gli Hirax salgono sul palco si capisce subito come Katon De Pena, il loro storico cantante, sarà il mattatore della serata: saluta il pubblico con un “how fuckin’ you doin’?”, poi invita ad accendere le luci per vedere la gente, e poco importa se è pieno giorno. La band parte subito col loro thrash metal old school, veloce e diretto e i fratelli Vance e Steve Harrison, chitarra e basso, macinano riff su riff. Katon è in forma strepitosa, la voce non mostra un momento di cedimento anche quando si lancia nei suo tipici acuti, ma soprattutto sprigiona un carisma incredibile: gioca con il pubblico, scherza, ammicca, sorride, si diverte e fa divertire ed è impossibile non seguirlo nei suoi incitamenti. Gli Hirax sono obiettivamente una thrash band come ce ne sono tante, ma danno l’impressione, il cantante in particolare, di credere davvero in quello che fanno suonando con autentica passione; ed è proprio questo che fa la differenza e che rende il loro un concerto trascinante e coinvolgente. Una versione dilatata di “El Diablo Negro”, con ancora una volta Katon protagonista che fa urlare e cantare tutto il pubblico, chiude un concerto divertente ed esaltante.
(Marco Pizzoni)
GHOST BATH
Sicuramente il Sole delle tre del pomeriggio non rende particolarmente giustizia alla carica emozionale dei Ghost Bath: da buoni paladini del depressive black metal, l’oscurità sarebbe certo il loro palcoscenico ideale, ma Dennis Mikula e compagni non si fanno scoraggiare, anzi; i brani del recente e apprezzato “Starmourner” suonano piuttosto potenti e quando arriva l’ultimo (di soli tre!) brano, ossia “Death And The Maiden”, tratto dal precedente “Moonlover”, siamo decisamente conquistati. Il gioco tra le tre chitarre è capace di trasmettere la violenza del riff portante ma anche l’atmosfera delle ossessive divagazioni sui toni alti, che fanno a tratti pensare alla presenza di una acidissima tastiera. Su tutto, si erge potente e suggestiva la voce del leader, leggermente meno stridula che su disco, con tutti i vantaggi del caso. Un riuscito raggio di luna nell’assolato pomeriggio di Clisson.
(Simone Vavalà)
PENTAGRAM
Ridotti a un trio per il recente arresto del tribolato Bobby, i Pentagram sono chiamati quest’oggi a una prova, sulla carta, veramente ardua. Difficile, infatti, compensare la presenza scenica del piccolo ma carismatico frontman, eppure tutto fila alla perfezione, e il pubblico resta incatenato fin dalle note dell’iniziale “Death Row”; il recente acquisto Pete Campbell si conferma l’innesto giusto alla batteria, e il lavoro svolto in coppia con Greg Turley è tellurico e decisamente più cattivo del solito. Victor Griffin, meritevole di un posto nell’Olimpo dei chitarristi metal, macina i suoi iconici riff occupandosi anche delle linee vocali, e lo fa egregiamente: certo la tonalità non è quella di Liebling, ma classici come “Sign Of The Wolf”, “Forever My Queen” o “Relentless” vengono resi egregiamente. Fino al gran finale con distruzione del palco in perfetto stile Pete Townshend e la giuste dose di feedback ad amplificare gli acufeni.
(Simone Vavalà)
BLUE ÖYSTER CULT
Un pezzo di Storia sale sul palco del Valley ed è decisamente una fortuna poter ascoltare i Blue Öyster Cult su un palco non (troppo) smisurato. Gli inventori del sound a tre chitarre, la band metal per chi non ama il Metal, come furono definiti, con ancora due membri originali in formazione, ossia Eric Bloom e Buck Dharma, chitarristi e cantanti della formazione da quasi cinquant’anni – il primo voce “ufficiale”, il secondo spesso protagonista su loro brani iconici. Per esempio “Golden Age Of Leather” e “Burnin’ For You”, con cui scaldano gli animi e fanno partire cori da lacrime tra tutti i presenti; e quando a metà concerto i due si passano le consegne su “Then Came The Last Days Of May” e il suo formidabile assolo scendono davvero brividi lungo la schiena. Il resto della band fa il suo e lo fa all’altezza di questi veri mostri sacri, che conquistano il pubblico per un’ora esatta, passando per capolavori come “Godzilla” e “(Dont’ Fear) The Reaper”, di cui chiunque di noi conosce almeno altre tre versioni coverizzate da altre band, fino al finale con “Cities On Flame With Rock And Roll”, che purtroppo sentiamo da fuori, costretti ad avviarci a prendere posto sotto un altro palco.
(Simone Vavalà)
PROPHETS OF RAGE
I Prophets Of Rage sono probabilmente una delle band più attese di questa edizione dell’Hellfest e il pubblico numerosissimo occupa non solo l’area antistante il Main Stage 1 dove si svolge il concerto, ma anche quella dell’attiguo Main Stage 2. D’altra parte, la curiosità di vedere dal vivo una band che unisce Tom Morello, Tim Commerford e Brad Wilk dei Rage Against The Machine a Chuck D dei Public Enemy e B-Real dei Cypress Hill è decisamente forte. Una sirena anti-area annuncia l’inizio del concerto e di quello che sarà un vero e proprio bombardamento musicale. La band sale sul palco a pugno chiuso e si lancia in una versione tellurica di “Prophets Of Rage” dei Public Enemy. Tutto il concerto si basa sul repertorio delle precedenti band dei componenti, che vengono riproposte in una chiave rap metal alla maniera dei R.A.T.M, e l’unico anticipo dal loro album è il singolo “Unfuck The World”. La maggior parte dei brani suonati proviene in particolare dai Rage Against The Machine e vengono suonati praticamente tutti i loro pezzi più conosciuti come “Testify”, “Take The Power Back”, “Guerrilla Radio”, “Bombtrack”, “Bullet In The Head”, “Know Your Enemy”, che fanno scatenare un pogo enorme e devastante. Morello, Commerford e Wilk non hanno perso un briciolo della loro classe e della loro potenza e soprattutto Tom manda in visibilio il pubblico con la sua chitarra hard funky, i suoi particolarissimi assoli e il suo modo unico di suonare. Chuck D e B-Real si alternano alla voce, e riescono ad assolvere più che bene al difficile compito di sostituire Zack De La Rocha. Chuck D, con il suo stile potente, sembra trovarsi più a suo agio, mentre B-Real deve in parte sacrificare la sua voce particolare per adattarla al sound della band. Sono pochi i pezzi dei Public Enemy e dei Cypress Hill riproposti dai Prophets Of Rage: oltre alla già citata “Prophets Of Rage”, vengono suonate in questa nuova versione metallizzata “Fight The Power” e “How I Could Just Killa A Man”. Ma con la presenza di due mostri sacri simili non ci si può aspettare che venga dimenticato l’elemento hip hop e, verso metà concerto, B-Real chiede al pubblico se, pur sapendo che questo è un festival metal, vuole sentire un po’ di hip hop. Detto fatto: mentre il resto della band lascia il palco, i due vocalist vengono affiancati da DJ Lord ai piatti e si lanciano in un medley di classici dei Cypress Hill (“Hand On The Pump”, “Insane In The Brain”) e dei Public Enemy (“Can’t Truss It”, “Bring The Noise”). La selezione si conclude con “Jump Around”, che vede il pubblico sedersi su invito di B-Real per poi letteralmente balzare in aria all’inizio della canzone, come annunciato dallo stesso frontman: “Alle prime note di questo pezzo saprete esattamente cosa fare”. Il concerto riprende con la band al completo e non manca un sentito omaggio a Chris Cornell, cui viene dedicata una versione strumentale di “Like A Stone” degli Audioslave. Lo show si chiude con una durissima versione di “Killing In The Name”, presentata come the most dangerous song, che fa letteralmente impazzire il pubblico. I Prophets Of Rage si sono esibiti in un concerto davvero intenso e incredibile, dimostrando di essere una band in gran forma e dall’amalgama esplosivo.
(Marco Pizzoni)
SCOUR
Non sappiamo dire quanti, tra coloro assiepati al Temple per l’esibizione degli Scour, fossero lì per effettivo interesse verso questa nuova proposta black metal, rispetto all’inevitabile pubblico curioso di assistere al canonico show di Phil Anselmo in quel dell’Hellfest. Sì, perché il nerboruto cantante di New Orleans, saltata l’annata 2016 per le famigerate polemiche seguite alla sua apologia razzista, è una presenza ormai fissa e affezionata, qui a Clisson; e torna questa volta con il suo nuovo progetto, un black metal primordiale negli intenti, molto meno nella resa; come confermato in sede live, infatti, la sezione ritmica affidata a ex membri dei Pig Destroyer, unita alle funamboliche chitarre di Chase Fraser degli Animosity e di Derek Engemann dei Cattle Decapitation, fa dei cinquanta minuti di concerto una furiosa cavalcata in perfetto equilibrio tra attitudine lo-fi e perfezione esecutiva, appena sporcata dal cantato di Anselmo. Ma, si intende, in senso buono: l’ex Pantera è evidentemente in buona forma, limita al minimo indispensabile le sue chiacchiere, certo più a suo agio con linee vocali in growl rispetto a un approccio in scream da Scandinavia ’92; eppure il risultato è notevole. I cinque eseguono per intero il loro primo EP, con un paio di assaggi del prossimo mini album, che risultano ancora più quadrati, più un paio di chicche sul finale: una cover di “Massacre” dei Bathory, presentata come un pezzo per capire dove tutto è iniziato, e la conclusiva e commovente “Strength Beyond Strength”. Un brano che non necessitava presentazione, giacché, parole sue: “dovreste conoscerla meglio dei vostri genitali”. E che Phil rende mostrando di avere ancora palle da vendere: un ritorno graditissimo e ricco di speranze per il futuro.
(Simone Vavalà)
EMPEROR
Sono quasi le undici quando gli Emperor fanno il loro ingresso sul palco dell’Altar. L’intenso tour di celebrazione dei vent’anni di “Anthems To The Welkin At Dusk” giunge a Clisson con luci di un cupo verde, a richiamare le grafiche del disco, e l’intro “Al Svartr (The Oath)” diffusa dalle casse. Il numeroso pubblico è in visibilio e l’urlo poderoso degli astanti che scandisce ‘I am the Eternal Power, I am the Emperor’ fornisce da subito l’idea di quello che avverrà nell’ora di concerto. Quando inizia “Ye Entrancemperium” la folla si scatena: Samoth, Ihsahn e Trym sono in gran forma e snocciolano l’intera tracklist del loro secondo album in una sequenza micidiale. Non c’è bisogno di corpsepaint e grossi effetti per trasmettere l’energia notturna e gelida della musica degli Emperor e, nonostante il look un po’ da ragioniere, Ihsahn si dimostra (come sempre) un frontman eccezionale, in grado di ammaliare il pubblico e condurlo nelle atmosfere maligne della sua musica, come il sacerdote di un empio culto. Non c’è bisogno di “apparire” o di fare grandi proclami, quando la potenza della musica è così evocativa. “Anthems To The Welkin At Dusk” viene eseguito nella sua interezza e, se poteva esserci qualche minimo dubbio sulla resa live di un disco più tecnico e complesso del precedente “In The Nightside Eclipse” (celebrato tre anni fa), viene spazzato via all’istante dalla performance dei norvegesi. Si prosegue con incedere violento e privo di compromessi, con pezzi immortali, che hanno segnato la storia di un genere e ne hanno ridefinito i confini; una splendida “The Loss And Curse Of Reverence” annichilisce gli astanti e si prosegue fino all’esplosione dell’inno “With Strength I Burn” e l’outro “The Wanderer”. La celebrazione è finita, il pubblico stremato e soddisfatto, ma gli Emperor hanno ancora qualcosa da scatenare sugli astanti. Si inizia con “Curse You All Men!” da “IX Equilibrium”, per terminare con l’accoppiata che, più di ogni altro pezzo, scatena il pubblico: “I Am The Black Wizards” e “Inno A Satana”, due capolavori che, forse, rendono evidente la differenza marcata tra il primo e il secondo disco di Ihsahn e Samoth. Sicuramente, senza voler togliere nulla a “Anthems To The Welkin At Dusk”, i presenti raggiungono l’apoteosi della partecipazione con questi ultimi due pezzi. Ma non vogliamo essere speciosi o lanciarci in paragoni tra due indiscussi capolavori. Gli Emperor terminano la loro esibizione regalandoci un altro concerto da incorniciare.
(Lorenzo “Satana” Ottolenghi)
CLUTCH
Un’altra band che purtroppo è difficile vedere dalle nostre parti, e per l’ennesima volta un Valley ai limiti del soffocamento, tanto che resistiamo all’interno del tendone solo per i primi tre brani; e sicuramente qualche riflessione su un necessario equilibrio tra determinate sonorità e la dimensione del palco inizia a rendersi necessario, all’Hellfest. A parte quest’annotazione sulla logistica, il concerto dei Clutch è sicuramente, comunque, uno degli highlight della giornata; la band è in formissima e Neil Fallon si conferma un frontman trascinante e dalla voce pazzesca. Se pensate ancora ai Clutch come ‘semplici’ paladini dello stoner-rock, appena più ricercato, ricredetevi: Fallon riesce a mettere nei brani una potenza e un calore blues rari e la chitarra di Tim Sult fa da degno contraltare, tra riff ciccioni e passaggi più acidi. Scaletta basata per metà sull’ultimo “Psychic Warfare”, ma del resto i Nostri paiono non sbagliare mai un colpo: né in studio né dal vivo.
(Simone Vavalà)
HAWKWIND
Concludere la tre giorni del Valley con gli Hawkwind equivale, in pratica, a chiudere una serata black metal con i Darkthrone. Capostipiti indiscussi del rock psichedelico e stonato, circa trecentocinquanta anni in cinque, il Maestro di Cerimonie Dave Brock, con l’ormai fedele sodale alla batteria Richard Chadwick e il resto della band, non meno attempata, come da nota sopra, mettono in scena il consueto viaggio interstellare. Meno scenografici che in occasione del loro ultimo passaggio da queste parti – nel 2011 portarono alieni sui trampoli, ballerine seminude e una specie di circo –, non sembrano comunque essere meno incisivi; bastano le loro infinite dilatazioni, i già lunghi brani (pescati soprattutto dal repertorio degli anni ottanta) trasformati in gocce di LSD e le proiezioni sullo schermo per trasformarci in degni psiconauti. E la doppietta “Earth Calling” e “Born To Go”, suonate senza soluzione di continuità, è perfetta per descrivere il nostro viaggio. Va sottolineato l’enorme lavoro alle tastiere, synth e theremin di Magnus Martin e dello stesso Brock, che quando lascia il palco senza troppi convenevoli, ci fa chiedere increduli dove e quando ci troviamo.
(Simone Vavalà)
THE DILLINGER ESCAPE PLAN
Tocca ai The Dillinger Escape Plan l’onore di chiudere il palco della Warzone con l’ultimo concerto di questa edizione dell’Hellfest, ultimo in terra francese anche per gli stessi DEP, visto che hanno annunciato che dopo questo tour smetteranno di suonare. Delle potenti luci strobo annunciano l’ingresso sul palco della band che, dopo un veloce “what’s up motherfuckers?” parte subito in quarta con “Prancer”, facendo capire in pochi istanti che sarà un concerto devastante. I cinque, infatti, non si risparmiano e non lasciano un attimo di tregua al pubblico passando da una canzone all’altra senza soluzione di continuità. I ritmi folli, le chitarre lancinanti e le grida di Puciato si abbattono come una valanga sugli astanti e i rari momenti più pacati, come “Symptom Of Terminal Illness” o “One Of Us Is The Killer” sono i soli attimi in cui si riesce a riprendere a respirare, prima di essere nuovamente annichiliti dalla potenza, dalla tecnica e dalla lucida follia hardcore di brani come “Milk Lizard”, “Surrogate”, “Farewell, Mona Lisa”, “Sunshine The Werewolf”. I The Dillinger Escape Plan sono delle vere e proprie bestie da palcoscenico e non stanno fermi un secondo, corrono da una parte all’altra del palco, saltano sulle casse e sui monitor, si rotolano per terra, il tutto senza smettere di suonare e senza sbagliare un colpo. I continui cambi di tempo e di stile e le ritmiche in continua evoluzione delle chitarre, anche all’interno della stessa canzone, sono talmente spiazzanti da lasciare a volte la sensazione di stare assistendo a più concerti in uno e che ci siano più band sullo stesso palco. Puciato passa dalla grida più feroci e belluine al cantato pulito e quasi melodico con una disinvoltura disarmante, dimostrando di essere uno dei migliori cantanti in circolazione. La chiusura spetta a “43% Burnt”, l’ultima mazzata di un concerto annichilente, che mostra in meno di quattro minuti tutta la ferocia, la follia e la tecnica dei The Dillinger Escape Plan. Non poteva esserci modo migliore di questo concerto per chiudere la Warzone.
(Marco Pizzoni)
PERTURBATOR
Per i tre palchi coperti (Temple, Altar e Valley), l’Hellfest si chiude con la performance di James Kent, ossia Perturbator. Il Temple è gremito e l’ex blackster francese scatena la furia cupa ed evocativa del suo synthwave; certo è un evento particolare per chiudere un festival metal, dato che (seppure molto vicino per background e gusto), Perturbator non suona affatto metal, anzi suona qualcosa di molto lontano e spesso inviso ai più oltranzisti. Eppure, se volete far pace con la musica elettronica, non possiamo che consigliarvi questo ragazzo che, ormai da cinque anni, mescola la musica di John Carpenter, quella dei Goblin e l’elettronica pura con un pizzico di deep house; e se pensate che questo genere, in un contesto live, si limiti a qualcuno che fa partire basi da un computer, non potreste essere più lontani dalla verità. Kent ha uno stuolo di synth e sequencer, suona, governa i loop e aggiusta il clock per far funzionare tutto, esattamente come fanno i grandi di questo genere (da Lustmord al primo Skrillex, per intenderci). Il pubblico salta, balla e applaude: certo un’atmosfera insolita per un festival metal e (forse) la musica di Perturbator è una piacevole novità, vista dai più come un divertissement a chiusura di tre giorni di festival. Senza nessuna esterofilia, a fine concerto, ci siamo chiesti se il pubblico di casa nostra avrebbe gradito così tanto questo show (ricordiamo che Kent è di Parigi e, quindi, gioca in casa). Noi l’abbiamo gradito e ci è sembrata la giusta chiusura dell’Hellfest 2017, come la musica che accompagna i titoli di coda di un film.
(Lorenzo “Satana” Ottolenghi)