22/06/2018 - HELLFEST 2018 – 1° giorno @ Clisson - Clisson (Francia)

Pubblicato il 18/07/2018 da

Introduzione a cura di Simone Vavalà
Report a cura di Lorenzo Ottolenghi, Marco Pizzoni e Simone Vavalà
Foto di copertina copyright Hellfest Open Air Festival

Eccoci anche quest’anno in quel di Clisson, con la sensazione di partenza di recarci a una sorta di appuntamento con amici che ‘sì, sempre divertente, poi vedremo se tornare’, ma che a conti fatti riesce ogni volta  a stupirci in positivo, lasciandoci solo col desiderio di ripresentarci anche l’anno venturo. Il tempo quest’anno è clemente, evitiamo sia le piogge e il freddo che hanno caratterizzato le prime edizioni che il caldo torrido dell’anno scorso (a parte, un po’, la domenica). Le principali novità organizzative sono essenzialmente legate alla gestione delle spese all’interno dell’area del festival, con l’introduzione del braccialetto con chip che sostituisce la storica tessera Cashless, velocizzando non poco i tempi necessari per procacciarsi da bere e da mangiare; a tal riguardo, finalmente anche i banchetti del cibo, ancora più numerosi e vari, permettono peraltro il pagamento in tal forma, segnando un ottimo punto a favore. Come ormai di prassi, confermati i sei palchi e la loro disposizione, e scopriamo, anzi, tramite la famiglia che ci ospita che l’area concerti e il market esterno, per quanto non funzionanti, sono dal 2017 fissi sull’area e funzionano da sorta di ‘museo del festival’ durante il resto dell’anno, a dimostrazione di come l’Hellfest sia un vero evento e un fulcro dell’economia locale. Ci sarebbe molto da riflettere a riguardo, specie in paragone alla situazione che viviamo nel nostro paese in questo contesto, ma limitiamoci a godere per l’ennesima volta di quello che ha assunto ormai indiscutibilmente il ruolo di miglior festival metal europeo.

 


MOS GENERATOR
L’Hellfest si apre per noi con lo stoner rock retrò dei Mos Generator, e come inizio è quasi perfetto. La band di Tony Reed, per quanto sacrificata dall’assegnazione al Main Stage in tarda mattinata, non risparmia una libbra di energia e sciorina fuzz e riff colanti grasso alla grande, con quel gusto settantiano – erede tanto dei Black Sabbath, come ben testimoniato dallo splendido tatuaggio del nerboruto cantante e chitarrista, quanto di band come Vanilla Fudge – che la contraddistingue. Come ormai confermato da una miriade di formazioni, il power trio è una formula che non mostra limiti di sorta nel trasmettere groove; e così, con cinque album all’attivo, sono anche cinque i  brani da loro proposti, spazianti attraverso l’intera loro carriera con la giusta dose di variazioni live, tra assoli e pestate sulla batteria, perfetti per essere trascinati alla periferia di Washington a bordo di una Dodge.
(Simone Vavalà)

SONS OF OTIS
La proposta della storica band canadese è uno stoner rock a forti tinte doom, che a dirla tutta ne ha fatto uno dei gruppi precursori del (sotto)genere; ma se già sui numerosi album è vincente la componente sulfurea e ipnotica, dal vivo i Sons Of Otis diventano una vera e propria macchina da guerra lisergica. I volumi e le distorsioni li pongono senza problemi nel novero di band come Conan o Sleep, quanto a impatto e violenza, e il basso di Frank Sargeant è uno schiacciasassi quasi intollerabile, in perfetto contrappunto con la batteria ossessiva di Ryan Aubin. Ken Baluke, oltre a sciorinare riff che altro non sono che restituzioni allucinate e rallentatissime di quanto inventato da sua Maestà Tony Iommi (e non a caso viene anche proposto un medley con una devastante restituzione Black Sabbath), con la sua voce gracchiante e insieme profonda spezza gli ultimi barlumi di lucidità che ancora ci tengono in piedi. Solo tre brani in mezz’ora, ma annichilenti come in rare occasioni; e l’aperitivo è servito.
(Simone Vavalà)

DARKENHÖLD
Dopo l’apertura del Temple affidata ai Cainan Dawn, che purtroppo perdiamo, tocca a un’altra band transalpina scaldare gli animi più neri, e i Darkenhöld rispondono alla chiamata in maniera eccellente; il loro black metal dalla forte componente atmosferica non è forse il più adatto per l’orario (è da poco passato mezzogiorno), ma i cinque componenti della band non risparmiano energie, e sono particolarmente felici gli innesti di tastiere e di arpeggi che fanno capolino in diversi momenti. I manieri diroccati e affascinanti che costellano quest’area di Francia vengono evocati meravigliosamente in brani come “Le Castelles Du Moine Brigand” (nomen omen), in un mix riuscito tra la tra magniloquenza misurata dei primi Dimmu Borgir e le giuste sfuriate, rese ancora più intense dalla acida voce di Cervantes. Le croci rovesciate al neon che sovrastano il palco del Temple si sono finalmente accese e non sembrano destinate ad affievolirsi, dopo questo show.
(Simone Vavalà)

DOPETHRONE
Torniamo al Valley con ancora nelle orecchie un po’ di feedback residuo dall’esibizione dei Sons Of Otis, ma inevitabilmente non sono i loro connazionali Dopethrone la band giusta per rilassare i timpani. Freschi di uscita del nuovo album “Transcanadian Anger”, Vincent Houde e soci continuano imperterriti sulla loro strada: sempre uguali a se stessi, sempre uguali ai primi Electric Wizard, comunque sempre divertenti e coinvolgenti. La sezione ritmica di Vyk e Shawn è una specie di assalto tellurico che ci muove letteralmente le viscere, mentre i fraseggi di chitarra (se così li vogliamo chiamare) si configurano come rombi assordanti e rallentati che farebbero entrare in risonanza anche le mura di un bunker anti-atomico. Dicevamo del nuovo album, e nonostante lo scarso tempo a disposizione il tiro si concentra proprio su quello, mostrandoci che brani come “Wrong Sabbath” o “Fuzzgasm” possono entrare di diritto tra i classici della loro discografia, o semplicemente tra le più squassanti manifestazioni dello stoner-doom più mefitico.
(Simone Vavalà)

SCHAMMASCH
Il Temple, che sarà la ‘casa’ per alcuni di noi nei tre giorni di festival, ci accoglie con gli Schammasch, alfieri del nuovo black metal elvetico (tra le loro fila membri dei Blutmond e dei Cold Cell). C.S.R. – al secolo Christopher Ruf – guida magistralmente la sua creatura: nella dimensione live le parti più avanguardiste ed elaborate si perdono un po’, ma quello che lo show perde in ricercatezza lo guadagna in immediatezza e violenza glaciale. Gli Schammasch, nonostante la luce del Sole che filtra abbondantemente nel tendone, creano un’atmosfera ritualistica e occulta, tirando e colpendo con un impatto sonoro massacrante. La combo “Chimerichal Hope” / “Do Not Open Your Eyes”, eseguita come unico pezzo ed estratta dall’ultimo EP “The Maldoror Chants: Hermaphrodite”, ci regala quasi dieci minuti di black metal maligno e atmosferico, nonostante le sfuriate continue. C.S.R. si divide tra voce, chitarra ed effetti che comanda da un piccolo pad attaccato all’asta del microfono. La resa generale è ottima e notiamo con piacere che, quest’anno, i suoni dei palchi più estremi (Altar e Temple) sono ottimamente calibrati fin dall’inizio.
(Lorenzo Ottolenghi)

THE CHRIS SLADE TIMELINE
È vero: aspettarsi il concerto del secolo da una band all-star che anticipa praticamente la scaletta fin dal monicker era assurdo. Ma al tempo stesso ci aspettavamo qualcosa di più del puro effetto jukebox hard rock che è stato, complessivamente, lo show di questa combo. Cinque brani su otto, ovviamente, fanno parte del repertorio degli AC/DC e coprono senza troppi intenti filologici la carriera degli australiani da “Dirty Deeds Done Dirt Cheap” a “The Razors’ Edge” (entrambe le title-track vengono nello specifico suonate). Purtroppo il cantante non è né graffiante come Brian Johnson, né suadente come Bon Scott, e già qui la sensazione del compitino è forte; quando poi per ripercorrere il resto della sua gloriosa carriera Chris Slade ricorre a brevi parentesi come il tour del 1984 con David Gilmour, di cui viene eseguita “Comfortably Numb” (con un diverso vocalist), la capacità di emozionare scende quasi sotto zero. Visto il simpatico accento gallese che ancora caratterizza il pelato batterista, l’impressione è che la collocazione ideale di questo progetto sarebbe in piccoli locali, con fiumi di birra e cori ad accompagnare un’oretta di puro divertissement.
(Simone Vavalà)

HARD-ONS
Gli Hard-Ons, piccola leggenda del punk rock australiano, salgono sul palco della Warzone nel primissimo pomeriggio portando una carica di freschezza col loro punk di matrice Ramonesiana a cui si aggiungono riff tipici dell’hard rock australiano – non a caso il chitarrista Blackie sfoggia una maglietta degli Ac/Dc. La formula è semplice e immediata e i quattro sparano uno dopo l’altro i loro classici con il cantante Keish De Silva, sempre sorridente, che si esibisce in balletti fra il divertente e l’imbarazzante. Blackie sfoggia la sua abilità chitarristica macinando riff su riff, tuttavia il caldo si fa sentire e il risultato finale è un concerto sicuramente divertente ma che lascia l’impressione di qualcosa che manca, soprattutto in termini di energia e coinvolgimento.
(Marco Pizzoni)

ROSE TATTOO
Ci spostiamo rapidi al Main Stage 1, per assistere alla performance dei Rose Tattoo. Band leggendaria per gli amanti dell’hard-rock, tanto da suonare di supporto ai Guns N’ Roses, devono parte della loro fama proprio alla band di Axl, Slash e Duff, che registrò una cover di “Nice Boys” su “Live ?!*@ Like A Suicide”. Gary ‘Angry’ Anderson, unico membro rimasto della band australiana, nonostante i suoi settant’anni, sfodera una voce impeccabile, da far invidia a un ventenne. Il gruppo, messo in piedi per questo tour estivo, regge perfettamente il ritmo e regala ai fan un concerto impeccabile, condito da classici immortali come “One Of The Boys” e “Rock ‘n’ Roll Outlaw”. I Rose Tattoo sul palco hanno mestiere, ‘Angry’ Anderson è il classico frontman d’altri tempi, capace di calamitare l’attenzione del pubblico, muoversi da una parte all’altra del palco e scaldare la folla che, forse, affollava il prato davanti a uno dei due Main Stage per band più blasonate. Concerto impeccabile, Aussie rock da manuale e (complice la t-shirt del frontman) tanta voglia di sentire il rombo di una Harley. Peccato che una band del genere abbia suonato alle tre del pomeriggio, soprattutto viste le performance piuttosto deludenti di alcuni grossi gruppi che li hanno seguiti su quel palco.
(Lorenzo Ottolenghi)

CONVERGE
Ci lascia un po’ perplessi la decisione di mettere i Converge sul Main Stage, quando probabilmente avrebbero potuto tranquillamente suonare alla Warzone a un orario più consono. In effetti il pubblico non è numeroso e raggiungiamo senza troppe difficoltà la transenna, dove veniamo premiati da un concerto impeccabile, potente, diretto e senza fronzoli. I quattro di Salem suonano una quarantina di minuti di hardcore dall’elevato tasso tecnico, con la chitarra di Kurt Ballou che non sbaglia un colpo, la sessione ritmica di Newton e Koller che aggiunge potenza a potenza e la voce di Jacob Bannon che alterna momenti più puliti ad altri in cui il suo scream sfiora il growl. La maggior parte dei brani è presa dall’ultimo album “The Dusk In Us”, ma non mancano canzoni tratte da altri dischi, fra cui segnaliamo una versione da brividi di “Aimless Arrow”. I Nostri chiudono con “Concubine” e abbandonano il palco senza nemmeno un saluto, dopo avere letteralmente annichilito il pubblico.
(Marco Pizzoni)

JOAN JETT
Ci spostiamo di poco, ma cambiamo completamente genere con Joan Jett ed il suo rock’n’roll debitore dell’hard rock degli anni ’70 e di un certo punk rock. La cinquantanovenne sembra una ragazzina e mostra di avere ancora un’ottima voce, i Blackhearts che la accompagnano sanno suonare bene e tecnicamente il concerto è ben riuscito; eppure ci pare sia mancato qualcosa, soprattutto in termini di interazione col pubblico, lasciata quasi completamente al tastierista della band che si occupa di presentare la maggior parte dei brani. Ci è sembrato di cogliere da parte di Joan una certa svogliatezz: suona alcuni dei suoi brani più conosciuti (“Cherry Bomb” e “Bad Reputation”) subito a inizio concerto e soprattutto propone una versione del suo inno “I Love Rock’n’Roll” che ci ha lasciati delusi. Da un brano di quella fama ci saremmo aspettati una lunga versione dedicata al sing along, mentre Joan ne ha proposto una versione che non ha superato i quattro minuti, con un solo breve momento di coro col pubblico. Intendiamoci, il concerto non è stato affatto brutto, ma la freddezza e il distacco di Joan ci ha lasciato l’amaro in bocca.
(Marco Pizzoni)

CROWBAR
Al Valley è tempo della prima, grande band della scena di NOLA, in una giornata che vedrà salire sul palco, nel seguito, anche Eyehategod e Corrosion Of Conformity; parliamo chiaramente dei Crowbar di Kirk Windstein, che si confermano anche quest’oggi un’assoluta certezza in sede live, in quella che sarà anche una delle ultime esibizioni (almeno in Europa) per il bassista Todd Strange, che ha recentemente annunciato l’intenzione di salire sul palco per l’ultima volta in occasione della data di New Orleans del 4 agosto. Niente, nella tenuta della band, fa però presagire un’implosione della stessa, anzi; nel riproporre brani che vanno da “Conquering” a “Planets Collide”, i quattro mettono in mostra una vera e propria storia dello sludge, tra cadenze fangose e disagio ritmatissimo, e proprio i due membri fondatori succitati sono chiaramente l’anima marcia di questa celebrazione: Kirk sciorina con facilità riff in grado di aprire la faccia in due, seppur ricchi di groove, elemento questo ben accentuato dal lavoro sulle quattro corde del compare. Dopo circa tre quarti d’ora, tra le macerie figurate restano solo i feedback delle chitarre, ben di più di un fischio nelle orecchie, e la solita soddisfazione.
(Simone Vavalà)

MYSTICUM
Cerastes, Prime Evil e Dr. Best (o Mean Malmberg per i nostalgici): i Mysticus. Inventori, promotori e – nonostante le poche uscite discografiche – signori indiscussi dell’Industrial Black Metal. Quello che potete sentire su “In The Stream Of Inferno” e “Planet Satan” dal vivo è ancora più violento, occulto e malato (e tanto potrebbe bastare a chiudere il resoconto sul loro show). Tre colonne occupano il palco, il set che i Mysticum usano per le occasioni speciali, e i tre signori dannati dell’industrial black appaiono in cima ad esse, dando il via a un maelstrom sonoro di violenza inaudita, inni a Satana e sguardi annebbiati dalle droghe. Dei tre è sicuramente Cerastes il più impressionante: chi ricorda le foto di più di vent’anni fa, con le braccia devastate dai segni dell’ago, oggi si trova davanti l’evoluzione devastata e crudele di quell’uomo. Proiezioni scorrono sul telo dietro la band e sui tre piedistalli, formando disegni ipnotici, proiettando immagini di guerra e simboli satanici, fino a disegnare molecole (ovviamente di sostanze stupefacenti). Non c’è spazio, respiro e pace: i volumi sono folli, l’impatto sonoro inaudito e la rabbia glaciale che trasuda dalle grida inumane di Cerastes e Prime Evil è l’urlo belligerante di un demone in crisi di astinenza. Un’ora al limite del sopportabile, tanto che a fine concerto quasi metà del pubblico o ha abbandonato il Temple o si è ammassata nella metà del tendone più lontana dal palco. Il silenzio che segue la fine del gig è desolante: immaginiamo – dove prima c’erano i tre carnefici – un cadavere dilaniato dal suono e dalla crudeltà dei Mysticum. Fino a questo momento, concerto dell’anno.
(Lorenzo Ottolenghi)

SÓLSTAFIR
Per descrivere la scena islandese e le band che ne fanno parte, si usano spesso iperboli descrittive in cui le parole ‘post’ e ‘progressive’ si sprecano. Addirittura il sito dell’Hellfest definisce i Sólstafir ‘atmospheric black metal with post-rock/metal, progressive rock and post-hardcore vocals’, un poema che farebbe passare la voglia di ascoltarli e che è solo un misero tentativo di descrivere un black metal dallo stile personalissimo e unico. Ormai affermati nella scena estrema, scena che calcano dal 1995, Aðalbjörn Tryggvason e compagni ci regalano un sound violento le cui radici sono marcatamente black metal e la cui evoluzione non si discosta così tanto dagli inizi; dal vivo, poi, la musica è diretta, ammaliante e gelida: metà setlist è estratta dai due capolavori “Khöld” e “Svartir Sandar” e, forse, a un festival poteva essere incluso un pezzo da “Masterpiece Of Bitterness” che, coi due dischi succitati, forma una triade strepitosa. Lo show è comunque riuscitissimo, arricchito dalle tastiere di Ragnar Ólafsson che non risultano mai invadenti e lasciano libero sfogo all’approccio più diretto che gli islandesi scelgono dal vivo.
(Lorenzo Ottolenghi)

HOLLYWOOD VAMPIRES
Dicevamo poco sopra, a proposito della band di Chris Slade, di come sia facile non andare oltre lo strappo di un sorriso compiaciuto quando ci si trova a suonare, in pratica, solo cover. Be’, evidentemente il mestiere e la giusta dose di strafottenza compiaciuta possono cambiare molto le cose, ed è esattamente quello che avviene con gli Hollywood Vampires. Formati per gioco da Johnny Depp, Alice Cooper e Joe Perry, dopo le prime esibizioni nei locali di Los Angeles hanno iniziato a fare sul serio, senza però prendersi troppo sul serio, e il risultato si vede: in maniera scanzonata e leggera due mostri sacri della musica e uno del cinema, accompagnati da turnisti del calibro di Chris Wyse e Glen Sobel, ci offrono medley di classici immortali come “The Jack”, “Ace Of Spades” e “Break On Through”. Tutti brani in cui si sprecano omaggi, ricordi e anche classe, per esempio quando Alice Cooper, sulla cover dei The Doors, regala una prestazione profonda e quasi inaspettata. Si alternano anche alcuni pezzi inediti tratti dal loro album d’esordio, che confermano la loro buonissima qualità, e arriva anche il momento di sentire Depp cantare; e francamente, oltre a essersi dimostrato un chitarrista più che discreto e in grado di non eccedere sul palco (come ci si poteva aspettare dal personaggio), la sua restituzione di “Heroes” di Bowie non sarà da pelle d’oca, ma neanche sfigura. Chiude eccellentemente il  tutto “School’s Out”, unita a “Another Brick In The World Part 2”; lasciandoci certo la sensazione che, senza quei tre nomi coinvolti, non avremmo mai visto trentamila persone assiepate per questo repertorio. Ma lo spettacolo valeva il biglietto.
(Simone Vavalà)

EYEHATEGOD
Assistiamo per la seconda volta in poco più di un mese all’esibizione degli Eyehategod dopo il loro concerto in quel del Desertfest di Berlino, e possiamo solo confermare quanto di buono notato in quella occasione. Anzi, a ben vedere stasera c’è anche qualcosa di più; nonostante perduri l’assenza alla seconda chitarra di Brian Patton, trattenuto a casa dalla recente paternità (ed è purtroppo notizia di questi giorni l’abbandono definitivo della band), i quattro cantori del fango e del malessere di New Orleans riescono ad essere ancora più incisivi, recuperando anche qualche dose (ehm…) di tossicità sparita recentemente. Evidentemente la sobrietà non ha spento l’estro maledetto ed espressivo di Mike Williams, che aveva solo bisogno, probabilmente, di rodarsi dopo un periodo intenso – ricordiamo che si è sottoposto l’anno scorso a un trapianto di fegato. E così perle di sofferenza atavica come “Sisterfucker (Part I)”, ma anche colate di lava più recenti come “Medicine Noose”, ci rendono contemporaneamente euforici e angosciati, come nella natura di questo genere. Menzione d’onore anche questa sera per lo scanzonato Jimmy Bower, che non fa rimpiangere (almeno come impatto) la presenza di una seconda chitarra, vomitando riff pastosi senza tregua.
(Simone Vavalà)

SATYRICON
Satyr e Frost, nelle loro ultime uscite disografiche, non hanno sempre saputo mettere d’accordo il pubblico e molti blackster hanno storto sempre più il naso dal periodo post-“Nemesis Divina”, ma resta il fatto che i Satyricon, dal vivo, senza troppi fronzoli sono una delle migliori black metal band in circolazione. E lo dimostrano per l’ennesima volta sul palco del Temple; per la terza volta (almeno per chi vi scrive) la band ha avuto problemi con la strumentazione, quindi i norvegesi sono costretti ad arrangiarsi con quello che viene prestato da altre band; crediamo che, se Satyr non l’avesse detto a metà concerto, nessuno se ne sarebbe accorto, però. La resa sonora dei due, accompagnati dai soliti Azarak e Neo (rispettivamente chitarra e basso), oltre che dalle tastiere di Anders Hunstad e dalla seconda chitarra di Attila Vörös (Satyr, dal vivo, suona solo occasionalmente, concentrandosi sulla performance vocale), è dirompente. Si parte con “Midnight Serpent”, estratta dall’ultimo lavoro in studio, per poi gettarsi nel recente passato della band. Quando arriva la title-track dell’ultimo disco, “Deep Calleth Upon Deep”, notiamo che è già un anthem per i fan dei Satyricon e il sing-along accompagna gran parte del pezzo. Da qua in poi sarà una massacrante interazione tra la band e il pubblico: “Now Diabolical”, “Mother North” e “The Pentagram Burns” non danno un attimo di tregua, i Nostri non perdono tiro e potenza neanche per un attimo e le conclusive “Fuel For Hatred” e “K.I.N.G.” sono l’estasi finale. Le ovazioni e gli applausi a fine concerto sono tali e tanti che i Satyricon faticano a lasciare il palco, dimostrandosi, ancora una volta, un gruppo live eccezionale. Merita una menzione il breve discorso di Satyr: presenti per la quinta volta all’Hellfest (la prima nel 2006, all’esordio del festival), i Satyricon rimarcano l’amore per questa manifestazione, nonostante con gli anni sia diventata più maintream e meno dedita all’underground. Opinabile, guardando i bill delle varie edizioni, ma ‘also spracht Sigurd Wongraven’.
(Lorenzo Ottolenghi)

BAD RELIGION
Per il trentennale di “Suffer” i Bad Religion stanno proponendo in tour l’intero album, ed è con un po’ di sorpresa e un briciolo di delusione che scopriamo che all’Hellfest ne propongono una versione ridotta, limitata alle prime quattro canzoni, per poi spaziare nel resto della loro discografia. La delusione dura però solo pochi istanti, considerando che si esibiscono, come al solito, in un grande concerto. Energia, melodia, tanta carica e un tiro invidiabile, questa è la, solo apparentemente semplice, ricetta dei Bad Religion, e anche sul palco della Warzone la interpretano alla perfezione. Quando sale sul palco, in camicia e sempre più stempiato, Greg Graffin parrebbe tutto tranne che un punk rocker, eppure quando inizia a cantare gli anni non sembrano essere passati per lui e non ce n’è davvero per nessuno e, nonostante alcuni problemi iniziali con i volumi della voce troppo bassi, sfodera la solita prestazione straordinaria. Al suo fianco il compagno di avventure di sempre, Jay Bentley, che gioca e scherza col pubblico, si sbatte e suona il basso in maniera semplice ma senza sbavature. I due chitarristi, Brian Baker e il ‘nuovo’ (ormai dal 2013) Mike Dimkich, sfoderano una prestazione perfetta alternandosi i brevi assoli, mentre Jamie Miller, chiamato da un paio di anni a sostituire alla batteria un mostro di bravura come Wackerman, non delude. In un’ora propongono la maggior parte dei loro classici per poi chiudere con un terzetto da brividi (“Sorrow”, “American Jesus” e “Fuck Armageddon… This Is Hell”) con tutto il pubblico, noi compresi, che canta a squarciagola.
(Marco Pizzoni)

JUDAS PRIEST
Orfani delle due storiche chitarre (K.K. Downing ha lasciato la band nel 2011, mentre Glenn Tipton, per i noti problemi di salute, non si esibisce dal vivo), i Judas Priest calcano il Main Stage 1 alle 23:30, pronti a regalarci un’ora e mezza di concerto. A parte tre pezzi estratti dall’ottimo ultimo lavoro in studio “Firepower”, i Judas si concentrano su materiale che copre esclusivamente i dischi fino a “Painkiller”: una scelta che non possiamo che apprezzare. Rob Halford ha una voce in ottime condizioni e tiene perfettamente il palco per tutta la durata del concerto. Tutto quello che ci si aspetta da un live di band di questa caratura c’è: un palco sontuoso corredato da effetti e cambi, poche pause sapientemente posizionate per tenere caldo il pubblico e – ovviamente – tutti i classici del gruppo. Da “Firepower” si salta subito a “Grinder” con un balzo indietro nel tempo di quasi quarant’anni, per proseguire con “Sinner” e “The Ripper”. Si torna al presente con “Lightning Strike”, per poi tuffarsi ancora indietro con “Bloodstone”, “Saints In Hell” (ripresa quest’anno dai Judas Priest forse per la prima volta in quattro decadi) e “Turbo Lover”. La prima pausa e poi si riparte con “Tyrant”, “Night Comes Down” e l’immortale “Freewheel Burning”. Potrebbe già bastare, ma il meglio deve ancora venire. Un’altra pausa e si riattacca con “Rising From Ruins” (ultimo estratto da “Firepower”), per poi chiudere con “You’ve Got Another Thing Coming”, “Hell Bent For Leather” e la stratosferica “Painkiller”, eseguita in modo magistrale. Naturalmente nessuno crede che il concerto sia terminato ed ecco i Priest tornare sul palco, guidati da un Halford che ha ancora voce da vendere e ci regala un encore tutto tratto da “British Steel” con, in successione, “Metal Gods”, “Breaking The Law” e “Living After Midnight”. In conclusione, una setlist pazzesca, una band in ottima forma e un concerto memorabile. Potremmo finire qua, ma è il turno degli A Perfect Circle ed è solo il primo giorno dell’Hellfest 2018.
(Lorenzo Ottolenghi)

NAPALM DEATH
È ormai mezzanotte quando salgono sul palco i maestri del grindcore e, in un’ora di concerto, con più di venti canzoni, dimostrano che hanno ancora molto da insegnare. Gli inglesi si esibiscono in uno show dall’impatto sonoro violentissimo, proponendo canzoni prese da tutta la loro carriera, anche se la parte del leone la fanno due album temporalmente agli antipodi, l’esordio “SCUM” e l’ultimo “Apex Predator”. Il frontman Barney – che sfoggia una maglietta rossa con il simbolo della pace – è, al solito, incontenibile: corre senza sosta sul palco, si agita e scuote la testa come un tarantolato e il suo growl primitivo è un grido di rabbia feroce che non conosce cali d’intensità. Non mancano le sue invettive politiche, ma anche i momenti di gioco col pubblico come quando, dopo aver sparato una dopo l’altra le brevissime “You Suffer” e “Dead”, spiega che si tratta di due canzoni ben diverse e che se le ascoltassimo attentamente capiremmo tutte le differenze. Ottima la prestazione anche degli altri componenti, lo storico bassista Shane Embury, John Cooke – chitarrista live ormai perfettamente affiatato col resto del gruppo e che si occupa anche degli scream – e il batterista Danny Herrera. Dopo un’ora usciamo provati dalla lunga giornata, ma decisamente soddisfatti da un concerto intenso e di grande impatto.
(Marco Pizzoni)

CORROSION OF CONFORMITY
I Corrosion Of Confomity confermano l’eccellente stato di forma mostrato pochi giorni addietro a Milano, concerto di cui riprendono in toto la scaletta. Non c’è da stupirsi, del resto: il ritorno della formazione a quattro va celebrato degnamente, e spazio quindi a una manciata di brani dal nuovo “No Cross, No Crown”, oltre alla giusta cavalcata attraverso i loro brani più famosi. Anche stasera è assente Reed Mullin dietro le pelli, sostituito egregiamente da Eric Hernandez; e peraltro serve poco di più, dal punto di vista ritmico, rispetto al lavoro straordinario svolto da Mike Dean: il bassista si conferma un musicista di rare doti e oltre a garantire groove regala anche diversi momenti psichedelici, il cui apice é sulla restituzione in chiave zeppeliniana della conclusiva e sempre coinvolgente “Clean My Wounds”: manca solo il theremin, mentre la chitarra di Pepper Keenan, come sempre, fa quello che vuole. L’unica nota differente rispetto alla serata in Santeria riguarda forse proprio Pepper, che stasera – coerentemente al contesto più metal’ – sceglie un approccio vocale graffiante, e anche i brani risultano leggermente più pesanti, rispetto all’accattivante mood southern che li contraddistingue, comunque fortissimo in momenti come “Broken Man” e “Albatross”.
(Simone Vavalà)

A PERFECT CIRCLE
Il ritorno all’Hellfest di Maynard Keenan dopo l’esibizione con i Puscifer (e, chissà, prima di rivederlo presto anche coi Tool?) è in grande stile: il Main Stage è relativamente scarno, fatte salve le piattaforme su cui si stagliano Maynard stesso, Greg Edwards (temporaneo sostituto di James Iha, impegnato nella reunion degli Smashing Pumpkins) e Jeff Friedl, ma l’atmosfera è decisamente ieratica e potente, esattamnete come il suono della band. Non c’è una sbavatura, un’imperfezione, un calo di tensione per tutta l’ora e mezza di durata del concerto, e i rarefatti giochi di luce e proiezioni aumentano la sensazione di assistere a qualcosa di mistico. Va detto, tra l’altro, come in questo quadro complessivo i brani del nuovo “Eat The Elephant” – album osannatissimo ma non proprio potente dal punto di vista della componente più rock – rendano a meraviglia; la scaletta riassume perfettamente vent’anni di carriera, con i picchi espressivi durante gli estratti di “Mer De Noms”, e, anche se si sapeva che era stata inserita in scaletta nelle ultime date, l’improbabile cover di “Dog Eat Dog” degli AC/DC (suonata in omaggio a Malcolm Young) colpisce favorevolmente. L’unica pecca? La ridicola parrucca indossata da Maynard, e naturalmente la citiamo come boutade; la capacità di toccare le più diverse tonalità vocali di Keenan con assoluta naturalezza è uno dei vertici della band, e ciò in sede live regala veri brividi.
(Simone Vavalà)

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