Report a cura di Lorenzo Ottolenghi, Marco Pizzoni e Simone Vavalà
Foto di copertina copyright Hellfest Open Air Festival
Eccovi il report della seconda giornata dell’Hellfest 2018. Potete leggere qui il report della prima giornata di festival.
MISÞYRMING
I Misþyrming si presentano sull’Altar intorno alle 13:30. Altri esponenti della nuova scena islandese, discretamente rappresentata all’Hellfest, la band di Reykjavík (che è, in sostanza, un side project dei Naðra, con cui condivide tutti i membri) ha all’attivo un ottimo full-length, seguito da un EP un po’ interlocutorio, così come lo show presentato a Clisson. Il gruppo si riaffaccia live dopo la performance al Roadburn e non convince più di tanto; gli elementi ci sono tutti: un black metal glaciale e maligno, una presenza scenica ben studiata e azzeccata e dei pezzi che, almeno su disco, risultano oscuri e malevoli; eppure qualcosa non funziona. Lo show è un po’ stanco, tutto sa di già visto e già sentito, manca la spinta e i Misþyrming sembrano un po’ svogliati, come se stessero eseguendo un compito ben studiato. Forse perchè il loro approccio musicale era fresco e innovativo tre anni fa, ma ora risulta un po’ inflazionato, o forse perchè l’orario diurno non mette a proprio agio, come spesso accade, le black metal band. Fatto sta che il concerto ha il sapore di già visto mille volte.
(Lorenzo Ottolenghi)
ORANSSI PAZUZU
Probabilmente l’organizzazione ha completamente sbagliato la collocazione dei blackster finlandesi (termine che va piuttosto stretto alla band di Tampere), schedulando il loro concerto al Temple, la ‘casa’ dei blackster più duri, invece che al Valley, dedito a sonorità più sperimentali e oniriche, quali sono quelle degli Oranssi Pazuzu. Così, un sound che per tre giorni riesce a regalare un’atmosfera eccellente a tutte le band avvicendatesi sul palco risulta semplicemente inadatto ai finnici, che si trovano ad avere la loro componente black metal molto più accentuata del normale, a discapito della parte più psichedelica (loro vero punto di forza) che risulta smorzata e molto in secondo piano. È, infatti, il lavoro di Ville ‘EviL’ Leppilahti a risultare penalizzato. La band, comunque, ci mette impegno e dedizione proponendo un concerto incentrato per la maggior parte (quattro pezzi su sei) sull’osannato “Värähtelijä”; ciò che Jun-His e compagni perdono in atmosfera per via dei problemi citati poco fa, lo riguadagnano in volumi, professionalità e passione. Poi, ovviamente, c’è il materiale: pezzi come “Havuluu” o “Vasemman Käden Hierarkia”, coi suoi quasi diciotto minuti, riescono a trasmettere la loro insana magia ipnotica a dispetto di un sound mal calibrato e di un pubblico non proprio partecipe. Nel complesso, gli Oranssi Pazuzu, senza troppi fronzoli, riescono a mettere in pista uno show degno della loro fama e non sembrano pagare la sovraesposizione dell’ultimo periodo; un peccato, lasciatecelo ripetere, che siano stati relegati alle tre del pomeriggio in un palco generalmente dedicato alle band black e viking.
(Lorenzo Ottolenghi)
MODERN LIFE IS WAR
I Modern Life Is War, anche se sono ormai passati cinque anni dalla pubblicazione del loro ultimo album e sei dalla reunion, confermano di essere una delle band più interessanti dell’hardcore moderno in circolazione; e sul palco dell’Hellfest dimostrano di essere decisamente in gran forma. Jeffrey Eaton, senza voler togliere nulla ai suoi compagni, è il mattatore del concerto e uno dei migliori cantanti hardcore di questi tempi. Salta, si rotola sul palco, non sta mai fermo, ha un carisma invidiabile e, allo stesso tempo, sfodera una prestazione vocale eccelsa, sia nei momenti più duri, sia nei passaggi più melodici e puliti. Lo show è una travolgente sferzata di hardcore veloce e diretto ma anche preciso, e il pubblico che affolla la Warzone è pienamente coinvolto e partecipe. La band dell’Iowa propone quasi interamente l’album “Witness”, su cui è concentrato gran parte dello show, anche se non manca di proporre l’amatissima dai fan “Chasing My Tail” e una furiosa cover di “I Wanna Be Your Dog”. Il concerto si chiude con quello che è, probabilmente, il loro pezzo più conosciuto: “Dead R.A.M.O.NE.S.”. Tutto il pubblico canta in coro e Jeffrey, finalmente, scende dal palco e sale sulla transenna per abbracciare le prime file, scena che, in questa edizione dell’Hellfest, ci è capitato di vedere poche volte.
(Marco Pizzoni)
MEMORIAM
I Memoriam ci avevano lasciati perplessi su disco e, purtroppo, i nostri dubbi sono stati confermati in sede live, con un concerto decisamente sottotono. I quattro di Birmingham propongono un death metal old school chiaramente ispirato ai Bolt Thrower, senza però avvicinarcisi nemmeno lontanamente. La voce di Karl Willetts è lontana dal growl che sfoggiava ai tempi e si reduce a essere un cantato roco e abbastanza monotono, che peggiora nel corso del concerto. Il problema più grave, però, è la mancanza di canzoni: i riff sono scontati e banali e durante il concerto questo si sente nettamente, lasciandoci annoiati dopo un paio di canzoni. In particolare si nota l’assenza di una seconda chitarra e l’impatto sonoro è modesto. Anche la presenza scenica è deludente, tanto da non sembrare di avere di fronte dei veterani della scena death metal, ma dei musicisti alle prime armi. Chi scrive sperava che dal vivo i Memoriam avrebbero superato la mediocrità che era emersa dai loro dischi, purtroppo siamo stati ampiamente delusi.
(Marco Pizzoni)
ORANGE GOBLIN
Dopo la Union Jack, le birre ale e la Regina, arriverà il giorno in cui anche gli Orange Goblin entreranno nel novero delle certezze inglesi. Sempre uguali a se stessi, eppure sempre divertenti, quest’oggi Ben Ward e soci si presentano freschi di stampa del nuovo “The Wolf Bites Back”, da cui estraggono tre pezzi quasi di fila, a partire dall’opener “Sons Of Salem”: accattivante e coinvolgente, segna perfettamente le coordinate di tutta la loro esibizione, ben sospesa tra i pezzi più tirati – che dal vivo, a tratti, ricordano i Motorhead, complice il basso pulsante di Martyn Millard – e i momenti più stonati, da sempre parte integrante del sound dei londinesi. Come solito poi, il già citato frontman Ward, gigantesco, bonario e sorridente, dimostra carisma e versatilità vocale, oltre alla capacità di coinvolgere il pubblico alla grande, tra battiti di mani e brevi richiami ai cori, come sulla trascinante “Red Tide Rising”. Corriamo purtroppo via prima della conclusione per andare ad assistere all’esibizione dei Body Count, ma la promozione è piena anche questa volta.
(Simone Vavalà)
BODY COUNT
Tre anni fa fu quasi impossibile accedere alla Warzone per assistere alla loro esibizione; quest’anno, giustamente, l’organizzazione ha ben pensato di spostare la band di Ice-T sul Main Stage, e qualcosa cambia imperscrutabilmente nella stessa attitudine della band, a ben vedere. Non arriviamo a citare il vecchio adagio secondo cui ‘si nasce incendiari e si muore pompieri’, ma stasera i Body Count, pur offrendo un bello spettacolo quadrato, mancano un po’ della loro verve più estrema e trascinante: leggasi, ci si ferma un attimo prima delle ossa rotte. Di certo i brani non mancano: aprono con una doppietta di cover degli Slayer, ossia “Raining Blood” e “Postmortem” che non può che garantire un circle-pit mostruoso, più volte invocato dal nerboruto cantante e ripetuto nel corso dell’esibizione. Ernie C alla chitarra dimostra come Tom Morello e altri genietti del metal meno convenzionale abbiano avuto un Maestro in lui, ben accompagnato da Juan Garcia degli Agent Steel alla chitarra ritmica. Da segnalare la presenza del figlio di Ice-T (Little Ice, sic…) come terza voce (oltre a Sean E Sean) e come la scaletta tocchi tutti i classici della band, con ben cinque estratti dall’esordio, cantati a squarciagola da tutto il pubblico. Ice-T, che spiega di chiamarsi ora ‘Ice Motherfucking T, Bitch’ (inciso finale compreso) fa anche salire la piccola figlioletta di due anni sul palco, chiaramente senza cuffie, scegliendo una versione familiare della classica invasione di palco hardcore. E insomma lo spettacolo procede ed è tutto molto sentito… ma anche, appunto, meno devastante che in passato.
(Simone Vavalà)
ENSLAVED
La band di Ivar e Grutle segna l’inizio del trittico di mostri sacri del black metal che chiuderà il secondo giorno sul palco del Temple. A venticinque anni dall’esordio discografico con il magistrale “Hordanes Land” (celebrato con il classico “Allfǫðr Oðinn”), gli Enslaved ne hanno fatta di strada, virando il loro sound sempre più verso sonorità progressive, peraltro già chiaramente udibili nel secondo full-length “Frost”, mantenendo allo stesso tempo la natura black metal tipica di questi prime-mover della scena norvegese. Si parte con “Roots Of The Mountain” e “Ruun”: la band di Bergen sembra subito in ottima forma e le chitarre di Ivar e Arve si intrecciano alla perfezione, mentre la voce di Håkon e lo scream di Grutle si alternano e si sovrappongono. Il concerto prosegue con “Storm Son”, estratta dall’ultimo lavoro in studio “E”, e la splendida “One Thousand Years Of Rain”, seguita dall’invito, fatto dalla stesso Grutle al pubblico, di cantare con la band l’inno nazionale francese, invito colto più che calorosamente dagli astanti. Si prosegue con “Sacred Horse”, ancora dall’ultimo lavoro “E”, per terminare con due veri e propri inni della band di Ivar Bjørnson e soci: la già citata “Allfǫðr Oðinn” e “Isa”. Durante lo show la band annuncia che quella di Clisson sarà l’ultima esibizione di Cato Bekkevold, dopo quindici anni di militanza (il periodo da “Isa” a “E”); per quanto i norvegesi non siano persone che esternano molto i propri sentimenti, l’emozione è palpabile e, forse, uno dei motivi che ha reso questo concerto uno dei migliori degli Enslaved degli ultimi anni, se non per la resa tecnica (sempre perfetta), per il sentimento profuso in ogni singola nota.
(Lorenzo Ottolenghi)
DEAD CROSS
Rispetto all’esibizione di Milano di qualche settimana fa, la grossa novità messa in mostra dal supergruppo questa sera è una sola: il modo in cui Mike Patton prova a tutti i costi a fare uno show che esuli dal lato musicale. La scaletta è la stessa, quindi l’intero album di esordio e il nuovo singolo “My Perfect Prisoner”, più l’abbozzo di medley tra “Raining Blood” e “Epic” sul finale; la sintonia tra i musicisti anche, ma aumenta sempre più la sensazione che si tratti di un gioco autoreferenziale, che dal vivo mostra pesantemente il fianco. La mostruosa sezione ritmica, composta ovviamente da Dave Lombardo e Justin Pearson, fa un fantastico ‘show of hands’ – per citare i Rush – ma non emoziona; Mike Crain, come già a Milano, è poco incisivo; mentre Patton, come anticipato, arriva alle soglie del fastidioso: qui non può dire parolacce in italiano, per solleticare l’onanismo del pubblico, quindi si inventa la salita sul palco di un bambino, a cui chiede comunque (in italiano) se parla la nostra lingua e con cui condivide i cori di “Bela Lugosi’s Dead”… sfiorando il ridicolo, francamente. Tutto il resto è noia, principalmente loro, e per osmosi anche nostra, sebbene il pubblico – forse meno avvezzo alle spacconate di Mike – sembri gradire.
(Simone Vavalà)
WATAIN
Possiamo dire che oggi i Watain siano in assoluto LA band black metal dal vivo per eccellenza, soprattutto nell’accezione un po’ più old school. Se fuochi e sangue sul pubblico sono ridotti, continuano però ad essere presenti. Erik Danielsson, o più semplicemente ‘E.’, é un frontman crudele e con un’incredibile presenza scenica, che in sede live abbandona il basso per lasciarlo ad Alvaro Lillo degli Execrator, che da più di dieci anni si unisce ai Watain nelle loro esibizioni. Il palco è dominato da tridenti e croci riverse in fiamme, oltre che dal mastodontico drumset di Emil ‘Forcas’ Svensson (Håkan Jonsson non si esibisce live da tre anni). La setlist pesca da tutti e sei gli album della formazione svedese, con una particolare attenzione all’ultimo “Trident Wolf Eclipse”, da cui sono estratte ben quattro canzoni: si parte con “Stellarvore”, iniziando subito in modo tiratissimo e maligno, per poi passare a “Devil’s Blood” dal monumentale “Casus Luciferi”. I Watain creano un’atmosfera carica di odio blasfemo e satanico, trasmettendo l’aura maledetta che contorna la band da sempre. E’ evidente che non c’è posa o studio nella musica degli svedesi, ma solo una crudele essenza malevola e violenta, più volte espressa anche nelle dichiarazioni dei trio di Uppsala; si prosegue senza sosta con “Nuclear Alchemy” e la possente “Malfeitor” (dal capolavoro “Lawless Darkness”). Ci rendiamo conto che i Watain ci stanno trascinando inesorabilmente nel loro mondo esoterico e maledetto, ma alla violenza sonora fa da contraltare una sensazione quasi mistica, di rapimento; staccare gli occhi dal palco è impossibile: assistiamo a un rito empio, con le stesse sensazioni che riuscivano a trasmettere i Behemoth un bel po’ di anni fa. Il gruppo alterna sapientemente pezzi nuovi e vecchi, così da accontentare la fanbase più fedele e i blackster che li hanno scoperti con l’ultimo disco, arrivato dopo cinque anni di silenzio. Così ecco “Furor Diabolicus” e “Outlaw”, seguite dalle recenti “Sacred Damnation” e “Towards The Sanctuary”, per poi chiudere con “On Horns Impaled” e “The Serpent’s Chalice”. Le luci si spengono e la band lascia il palco, ma Erik Danielsson ritorna, per spegnere i fuochi di quello che appare un piccolo altare ai piedi della batteria. Il maestro di cerimonia completa il rito e lascia, a sua volta, il palco lasciando gli astanti annichiliti e rapiti. La potenza live dei Watain è quasi superiore a quella su disco e l’esperienza è unica, unendo violenza, blasfemia e occultismo. Uno dei migliori concerti dell’intero festival.
(Lorenzo Ottolenghi)
AVENGED SEVENFOLD
Chi non ricorda le polemiche scaturite già solo all’annuncio delle band presenti al Firenze Rocks, allorché si seppe che gli Avenged Sevenfold avrebbero suonato dopo i mostri sacri Judas Priest? Ecco, chi vi scrive non è propriamente tra gli estimatori del combo californiano, né ritiene che i dati di vendita debbano essere la sola misura del successo di una band, ma non ha provocato particolare scandalo la collocazione degli Avenged Sevenfold come headliner in quel di Clisson, anzi. La quantità di pubblico si moltiplica mostruosamente, e arrivare sul palco sulle note di “Walk” dei Pantera, nel giorno della scomparsa di Vinnie Paul, fa conquistare definitivamente il pubblico a Synyster Gates & Co. Niente da dire sull’esibizione complessiva del quintetto, che ha capacità tecnica eccellente e la giusta dose di ruffianeria, persino nel look; la scaletta pesca dall’intera discografia (a partire da “City Of Evil” in poi), non manca l’assolo tra shredding ed emozione del suddetto Synyster, né un nuovo e confessato omaggio al batterista dei Pantera, cui viene deidicata “Hail To The King”. Eppure, qualcosa li lascia ancora – almeno per noi – in un ambito che non è quello della spontaneità rock n’roll che ci fa amare questo mondo; innanzitutto, assistere al concerto nei pressi della postazione mixer ci fa sogghignare a vedere una serie di riprese organizzate ad arte dall’entourage della band per evidenti montaggi a latere di eventuali dvd live (sette/otto fan assiepati a fingere di strapparsi i capelli, una finta intervista in transenna et similia). Ma soprattutto c’è l’episodio clou della nostra critica: prima di attaccare “Nightmare”, cioè una delle loro canzoni più celebri, M. Shadows si scusa per la non ottimale forma della voce, aggiungendo che – ahilui – ha cantato per tre sere di fila ed è stremato; invita così il pubblico a offrire al gruppo un sostituto, che si presenta in fretta, con entusiasmo e accolto dai boati della folla…e per certi versi il loro concerto potrebbe anche finire qui. È indubbio come gli Avenged Sevenfold siano una realtà solida e capace in ambito hard rock/metal (lasciamo ad altra sede le speculazioni in tal senso), ma quello che sembra un gesto ecumenico e di cuore appare francamente una dichiarazione di resa – e di lesa maestà, quando si calca lo stesso palco che negli anni ha ospitato artisti del calibro di Rob Halford, Bruce Dickinson, Dee Snider… per citare solo tre nomi che di concerti ne hanno suonati per anni anche due a sera.
(Simone Vavalà)
NILE
È notte quando i Nile portano le leggende egiziane sul palco dell’Altar. Nonostante qualche problema tecnico iniziale che li costringe a interrompersi per un paio di minuti, i Nostri si esibiscono in uno show che unisce brutalità a un tasso tecnico davvero notevole, anche se gli arpeggi e i suoni che rimandano alla musica egiziana, evidenti su disco, qua sono un po’ sacrificati o lasciati a campionamenti. Il fondatore Karl Sanders, Brad Parris e il neo ingresso alla chitarra Brian Kingsland, si alternano alla voce e agli assoli e il drumming di George Kollias lascia senza fiato in quanto a potenza e precisione. La band statunitense propone canzoni da tutti i loro album, con l’eccezione di “Ithyphallic”, dedica un brano a Vinnie Paul e chiude, con “Those Whom The Gods Detest”, un ottimo concerto.
(Marco Pizzoni)
DIMMU BORGIR
È quasi l’una e un quarto quando i Dimmu Borgir, con una decina di minuti di ritardo, si presentano sul palco del Temple, gremito come poche volte nella storia dell’Hellfest. La band forse più amata e odiata all’interno del panorama black metal si trascina da sempre una fama (immeritata, per chi scrive) di band commerciale e venduta; certo, gli ultimi due lavori in studio – “Abrahadabra” e, soprattutto, “Eonian” – hanno fatto storcere il naso a molti e non hanno certo incontrato i favori della critica, ma Shagrath e Silenoz hanno sempre risposto con prove live perfette, non ultime le due date con l’accompagnamento di un’orchestra tenutesi a Oslo e Wacken. C’era, quindi, parecchio interesse per questa prima data europea dopo l’uscita dell’ultimo lavoro in studio: la band sceglie di iniziare subito con “The Unveiling”, tratta – appunto – dal full length uscito a maggio; se la presenza scenica del combo di Jessheim è, come sempre, impressionante e il palco é allestito in modo impeccabile, da subito si sente che qualcosa non va per il verso giusto. Le basi delle numerosissime orchestrazioni hanno un suono gracchiante e, più di una volta durante il concerto, appariranno leggermente fuori tempo; il loro volume sembra troppo alto, coprendo sia le chitarre che – a tratti – la voce di Shagrath. Ecco: un tale tipo di errori sono imperdonabili per una band che fonda da sempre la sua musica su queste sonorità; ancora di più pensando che i Dimmu Borgir non sono certo dei novellini e che hanno alle spalle una lunghissima carriera discografica, costellata da altrettante performance dal vivo. Il duo che guida il gruppo si dà da fare sul palco, Shagrath e Silenoz hanno mestiere e si vede eccome: basta pochissimo a conquistare il pubblico, eppure i problemi restano. Dopo la nuova “Interdimensional Summit” si torna a “The Serpentine Offering” con “The Chosen Legacy” e la title-track. Proprio su quest’ultima, uno dei cavalli di battaglia dei Dimmu Borgir, Shagrath commette anche degli errori nel cantato, invertendo parzialmente due strofe: un errore perdonabilissimo nell’economia di un concerto (o di un tour), ma un po’ pesante alla seconda data, su un pezzo classico e con i suddetti problemi di suoni che continuano a inficiare la performance e la resa globale dello show. Ancora peggio la riuscita di “Gateways” dove, ancora, Shagrath va in confusione col testo e sopperisce in modo pessimo alla mancanza di Agnete Kjølsrud, dimenticandosi pure la chiusa in cantato pulito. L’anthemica “Dimmu Borgir” risolleva un po’ le sorti dello show, più per la maestosità trascinante del brano che per altro, ma l’impressione generale è quella di un gruppo arrivato a questo semi-debutto del nuovo tour parecchio impreparato. I problemi di sound non sono neanche imputabili all’impianto del Temple che, come accennavamo in precedenza, è risultato ottimo per tutti e tre i giorni di festival, ospitando band (come Batushka e Septicflesh) che fanno uso massiccio di parti registrate e che non hanno avuto alcun problema. Si prosegue con “Puritania” e “Council Of Wolves And Snakes”, per chiudere poi con due capolavori immortali: “Progenies Of The Great Apocalypse” e la splendida “Mourning Palace”. Da fan potremmo dire che è stato un buon concerto (e infatti quasi tutti gli astanti hanno partecipato, si sono lanciati in parecchi sing-along e hanno lasciato il Temple soddisfatti) e dobbiamo ammettere che le capacità di frontman di Shagrath hanno spesso coperto i problemi citati in precedenza; ma con occhio critico dobbiamo a malincuore testimoniare un concerto dai mille problemi tecnici e con non pochi errori di esecuzione. Un peccato, ma siamo certi che, per una band di questo calibro, si sia trattato solo di un incidente di percorso; grave, certo, ma pur sempre un incidente.
(Lorenzo Ottolenghi)