Report a cura di Lorenzo Ottolenghi, Marco Pizzoni e Simone Vavalà
Foto di copertina copyright Hellfest Open Air Festival
Eccovi il report della terza e ultima giornata dell’Hellfest 2018. Potete leggere qui il report della prima giornata di festival, e a questo link quello della seconda.
THE LORDS OF ALTAMONT
Cosa c’è di meglio di un’oretta di sano e sgargiante rock n’roll senza troppi fronzoli per aprire la giornata musicale? Nulla, e così con il progressivo ritardo nel risveglio – inevitabile all’alba del terzo giorno – andiamo a piazzarci sotto il palco della Warzone, curiosi di vedere il quartetto losangelino, erede perfetto di complessi come Fuzztones e MC5, dalle cui parti sono non a caso passati più o meno occasionalmente membri della band. Il loro sound, che unisce garage e ritornelli accattivanti, è quadrato e coinvolgente, con un valore aggiunto notevole nella persona di Jake Cavaliere: il tatuatissimo frontman regala linee vocali graffianti e talvolta sensuali, suona l’organo con la foga di Jerry Lee Lewis (piedi compresi) e intrattiene alla grande, tanto che il tempo a loro disposizione risulta decisamente troppo poco. Da rivedere assolutamente, con giubbotto di pelle e occhiali da sole d’ordinanza.
(Simone Vavalà)
THE GREAT OLD ONES
I The Great Old Ones giocano in casa e, forse per questo, all’una e mezza di pomeriggio si presentano davanti a un pubblico decisamente numeroso, visto l’orario e l’ultimo giorno di festival. I suoni potenti e ben bilanciati del Temple riescono a rendere giustizia a una band dal sound piuttosto complesso (tre chitarre sono una sfida per un fonico da studio e un incubo per un fonico live). I cinque di Bordeaux non si perdono troppo in chiacchiere, visto il tempo risicato (tre quarti d’ora) e la durata dei loro brani, e si concentrano in uno show essenziale e d’atmosfera, con un post-black metal glaciale ed evocativo. La voce di Benjamin Guerry (unico membro fondatore rimasto) guida sapientemente la band e il pubblico in un turbinio malsano di suggestioni lovecraftiane. Rispetto alle altre volte che avevamo visto dal vivo la band di Bordeaux, finalmente troviamo un impatto sonoro degno della musica proposta dai francesi, che si prodigano in uno show di impatto; vista la proposta musicale piuttosto difficile dei The Great Old Ones non era affatto scontato un risultato del genere; invece il post-black dei transalpini ha, finalmente, avuto una resa dal vivo degna dei lavori in studio.
(Lorenzo Ottolenghi)
MÅNEGARM
Attivi dal 1995, gli svedesi Månegarm non hanno mai avuto l’attenzione che meritano; probabilmente perchè il loro viking metal non ha né l’abbondanza di strumenti tradizionali e il sound folkeggiante di band come i Moonsorrow, né la maestosa epicità degli Amon Amarth e dei loro mille cloni, e neppure la chiave progressive degli Enslaved. Eppure i loro dischi sono sempre stati di ottima qualità (come provano le guest dell’ultimo lavoro in studio, da Alan dei Primordial a Crister e Daniel degli Ereb Altor) e questo concerto ne è la prova, anche se ci sarebbe piaciuto vedere più persone allo show di una band che dà sempre il 100% e regala ottimi spettacoli. Si parte subito a cannone con “Blodörn” e il pubblico è, fin dalle prime note, partecipe, con un moshpit che sarà praticamente ininterrotto per tutto il concerto – salvo il tempo di un wall of death – e l’incessante crowd surfing. Erik Grawsiö guida bene i Månegarm. Concentrandosi sull’ultimo album omonimo, gli svedesi pescano abbondantemente anche dal materiale passato, sia quello più remoto, da “Fimbultrollet” e “I Evig Tid” estratte dal capolavoro “Dödsfärd” ad “Hemfärd” dall’altrettanto strepitoso “Vredens Tid”, sia quello più vicino, con “Hordes Of Hel” e “Nattsjäl, Drömsjäl”, rispettivamente estratte da “Legions Of The North” e “Nattväsen”. Un concerto energico, sentito e carico di passione ancestrale, come dovrebbe essere il viking metal, una trasposizione dal vivo di pezzi memorabili (vi consigliamo di recuperare i dischi di questo gruppo, nel caso ve li foste persi) e una partecipazione del pubblico altrettanto potente e sentita, forse una delle più ‘cariche’ di questi tre giorni del Temple.
(Lorenzo Ottolenghi)
ACCEPT
Fa un caldo infernale quando gli Accept salgono sul palco, ma i tedeschi non si scompongono minimamente e regalano un concerto coinvolgente, nonostante i volumi non certo elevati. I teutonici iniziano con “Die By The Sword”, unico brano tratto dal loro ultimo lavoro “The Rise Of Chaos”, per poi dedicarsi, come riteniamo giusto trattandosi di un festival, ai loro classici. E così eccoli sparare un terzetto di canzoni da sogno: “Restless And Wild”, “Princess Of The Dawn” e “Fast As A Shark”. Se durante questi pezzi il pubblico è coinvolto e canta incessantemente, esplode letteralmente appena iniziano le note di “Metal Heart”. Oltre all’ottima performance musicale, gli Accept mostrano a tutti come si tiene il palco, si muovono incessantemente, coinvolgono il pubblico e in particolare Wolf Hoffmann sembra divertirsi davvero, tanto da fare pensare che per lui gli anni non passino mai. La chiusura del concerto è lasciata all’ennesimo classico, “Balls To The Wall”, che i Nostri prolungano in una versione dedicata al sing along, con tutta la platea assiepata sotto il palco che canta incessantemente.
(Marco Pizzoni)
ZEAL & ARDOR
Dire che gli Zeal & Ardor erano tra le band più attese del giorno, almeno sui palchi minori, è riduttivo; chi vi scrive ha apprezzato molto entrambi i lavori pubblicati finora da Manuel Gagneux e soci, e averlo perso al Roadburn dello scorso anno per l’eccessivo affollamento della sala non ha fatto altro che aumentare le aspettative. Anche il Valley, oggi, è decisamente pienotto e carico di curiosità, e l’ingresso sul palco dei musicisti, che si dispongono in fila con movimenti ieratici, aiuta a creare atmosfera. Purtroppo, la sensazione complessiva è che dal vivo la band non riesca a replicare al meglio quella schizofrenica magia che balugina spesso nei loro brani in studio; lo show si apre con “Sacrilegium I”, uno dei brani più intensi di “Devil Is Fine”, e quella sensazione di scollamento tra le due componenti sonore – il gospel tradizionale degli schiavi e le sfuriate black metal – che già ogni tanto si notava, è la chiave di lettura di tutto lo spettacolo. Niente da dire sulla qualità dei musicisti coinvolti, né sull’amalgama del gruppo; anche l’alternanza del cantato tra Gagneux stesso e gli altri due vocalist ‘ufficiali’ è di grande effetto, ma di fondo l’unico brano che risulta in qualche modo omogeneo è la title-track del primo album. Per il resto, ci ricordano un po’ i Panopticon: un tentativo interessante e curioso di commistione tra sonorità lontanissime, che purtroppo lontano dallo studio funzionano molto meno.
(Simone Vavalà)
BATUSHKA
Se dovessimo definire il concerto dei Batushka con una sola parola, questa sarebbe: solenne. Il Sole è ancora alto e la luce filtra abbondantemente sotto il tendone del Temple, eppure i polacchi hanno una presenza scenica che lascia senza fiato. Il palco è allestito come in una cerimonia religiosa – e ciò a cui assistiamo di fatto lo è – con candelabri, ceri, teschi e incensieri; sullo sfondo un pannello riporta varie icone ortodosse e sul leggio frontale troneggia quella che è stata scelta come copertina di “Litourgyia”. Sul palco salgono con lentezza rituale in otto, avvolti in mantelli e cappucci. Oltre alla classica formazione (due chitarre, basso e batteria), ci sono infatti tre coristi che si occupano di salmodiare i canti gregoriani. I Batushka propongono per intero il loro primo e unico album e, fin dalle prime note, capiamo che stiamo assistendo a una vera e propria liturgia. I musicisti incappucciati alternano momenti più melodici, dove prevalgono le voci salmodianti e baritonali e gli arpeggi puliti di chitarra, ad altri dove le chitarre esplodono in riff feroci e il canto pulito e profondo si trasforma in uno scream gelido e rabbioso. Sono soprattutto i momenti più armonici a sorprenderci, visto che suonano esattamente come su disco, mostrando le ottime doti tecniche dei musicisti, data la totale assenza di basi. L’impatto, tuttavia, non è quello che ci si potrebbe aspettare da un concerto black metal, in questo caso la malvagità è sostituita da un’aura di cupa sacralità, al punto che il cantante riprenderà il pubblico colpevole di fare troppo rumore nei momenti di silenzio fra un brano e l’altro. Il concerto si chiude con l’ostensione da parte del frontman dell’icona/copertina, chiudendo un concerto che ci ha lasciati impressionati sia per l’atmosfera, sia per l’aspetto musicale. Peccato solo per il chitarrista che, lasciando il palco, si ferma per fare un selfie col pubblico, rovinando parzialmente l’atmosfera fino a lì mantenuta.
(Marco Pizzoni)
BACKYARD BABIES
Procede alla grande l’infornata di band svedesi che oggi infiammano la Warzone e, complice la zona d’ombra a lato del palco, il gruppo di Dregen & Co. è la proposta perfetta per scuotere la testa senza troppa fatica nel torrido pomeriggio di Clisson. Trent’anni di vita e di esperienza live si vedono, eccome: i quattro sembrano sempre eterni ragazzi scanzonati e strafottenti e lasciano parlare le loro ritmiche trascinanti e i riff infuocati, sulle cui note la maggior parte del pubblico non resiste ad ancheggiare o a scuotere la testa (oltre all’inossidabile zoccolo duro di pogatori nel pit). Nicke Borg è un frontman di qualità eccellente e i duetti con l’amico Dregen – anche quando si accostano, secondo i più triti ma consolidati stilemi rock n’roll – ne fanno una coppia d’oro della musica ad alto carico di adrenalina. Particolarmente coinvolgenti “A Song For The Outcast”, in cui il cantante gioca a fare un po’ Billy Idol, e la conclusiva “Minus Celsius”, guidata dal basso di Johan Blomqvist; la Sindrome di Stoccolma (per citare l’album che contiene quest’ultimo anthem) ci prende sempre più, insomma, in attesa dei successivi gruppi svedesi che calcheranno la Warzone nel prosieguo della giornata, compreso il ritorno sul palco di Dregen con i riformati The Hellacopters.
(Simone Vavalà)
MEGADETH
L’esibizione dei Megadeth parte decisamente sotto tono dal punto di vista della resa sonora; fino all’attacco di “The Conjuring”, terzo e acclamato brano proposto, si sentono praticamente solo basso e batteria (portentosi, in effetti) e la chitarra di Kiko Loureiro. E purtroppo, quando entra in gioco anche MegaDave, si nota la sua solita ed eterna classe chitarristica, ma anche i grossi limiti di voce, ormai irrecuperabili. Mustaine tiene botta, certo, e come detto la semplicità con cui ricrea le sue trine sulla sei corde, magnificamente sostenuto da Loureiro, vale sempre il biglietto; ma impossibile sperare in un acuto o in una qualsiasi variazione vocale che esuli dal minimo sindacale. Poco male, comunque: la promozione è garantita da una scaletta da urlo, che vede tra le altre proposte “My Last Words” (ennesima, accorata dedica a Vinnie Paul), “Peace Sells” e “Symphony Of Destruction” in duetto con l’amico Michael Amott. Non poteva mancare, in Francia, il singalong con “A Tout Le Monde” e il gran finale canonicamente affidato a “Holy Wars…The Punishment Due”; e come sempre il thrash di qualità è servito.
(Simone Vavalà)
ALICE IN CHAINS
Stando alla quantità di pubblico assiepata sotto il Main Stage, al di là dell’orario semi-nobile è evidente l’interesse che gli Alice In Chains sanno tuttora destare, e a buona ragione; William DuVall si dimostra infatti anche questa sera molto più di un rimpiazzo del compianto Layne Staley e basta l’apertura affidata a “Bleed The Freak” per sedare qualunque dubbio. Il cantante e chitarrista ha carisma, presenza scenica e ottime capacità, non a caso anche gli estratti da “Black Gives Way To Blue” e “The Devil Puts Dinosaurs Here” si amalgamano a meraviglia in una scaletta che pesca a piene mani, principalmente, da “Facelift” e “Dirt”. Il resto della band è altrettanto impeccabile e Jerry Cantrell, anzi, sfiora come sempre lo stato di grazia: quando dipinge quei passaggi acustici che portano la sua inconfondibile firma, quando concede assoli che riportano indietro nel tempo, quando dedica all’amico Vinnie Paul la struggente “Nutshell”. Finale affidato a cori e brividi con la doppietta “Would?” e “Rooster”, e tanti saluti a chi ha sempre relegato il grunge a fenomeno marginale – almeno rispetto al nostro genere di riferimento.
(Simone Vavalà)
SEPTICFLESH
Poco prima delle 20:30, i Septicflesh fanno il loro ingresso sul palco di un Temple gremito all’inverosimile. Spiros Antoniou ha un visibile tutore alla spalla destra, ma – senza colpo ferire – gli ateniesi attaccano subito con “Portrait Of A Headless Man”, estratta dall’ultimo “Codex Omega”. Tutta la setlist sarà improntata sugli ultimi quattro lavori da studio, rendendo piena giustizia alla ‘nuova’ incarnazione della band, anche se un’incursione in “Sumerian Daemons” sarebbe stata la canonica ciliegina sulla torta. Ma poco importa: l’energia dei Nostri è rilasciata fin dalle prime note e il lavoro di orchestrazione è reso ottimamente da Christos Antoniou. Durante l’esecuzione del primo pezzo, un roadie sale sul palco per risistemare il tutore di Spiros che, a fine pezzo, spiega al pubblico di avere una spalla lussata e non poter muovere al meglio il braccio destro. Come fosse una banale comunicazione di servizio, si continua e arriva subito “The Vampire From Nazareth”. Il pubblico è in delirio e si crea un moshpit violento e massacrante; a metà pezzo Spiros strappa il tutore e lo getta a terra. Ecco, questa è l’essenza stessa dell’esibizione dei Septicflesh: professionalità, passione e dedizione ai fan. E’ il momento di “Martyr” e il pubblico, forse in omaggio al gesto del frontman greco, regala un wall of death violento e privo di scrupoli, qualcosa che si ripeterà poco dopo con “Pyramid God”. I Septicflesh non sbagliano un colpo e se le linee di basso sono, comprensibilmente, un po’ semplificate, questo nulla toglie alla maestosa e oscura teatralità dello show che, nonostante le numerose orchestrazioni, è perfetto contraltare alla violenza inumana scaricata dai quattro ellenici. I grandi classici della band ci sono tutti, ma è sul trittico finale che si scatena la vera e propria apocalisse. “Communion” massacra band e astanti, mentre su “Persepolis” è lo stesso Spiros a chiedere un altro wall of death; il pubblico non si fa pregare e metà Temple si apre come il Mar Rosso, pronto a fagocitare ogni rimasuglio di umanità. Al cozzare dei due lati, si scatena un moshpit frenetico unito a crowd surfing continui: tutto quello che ci si aspetta da un concerto di questo tipo c’è. Ma i Septicflesh sono degli dei generosi (o impietosi, dipende dai punti di vista) ed ecco “Anubis”, a scarnificare, nel nome del Dio-sciacallo, gli ultimi brandelli di energia. C’è ancora tempo per la chiusura e la band greca si accomiata con “Dark Art”, in un massacro collettivo inumano. Per l’ennesima volta i Septicflesh si dimostrano, oltre essere un grande gruppo su disco, una live band strepitosa: impeccabile e con un frontman capace, pure con un braccio a mezzo servizio, di incitare, guidare e infiammare la platea. Band che, a nostro avviso, avrebbe meritato lo slot dedicato agli Ensiferum, ma che – con questa collocazione oraria – ci permette di correre al Main Stage 1, pronti ad assistere al concerto dei padri della NWOBHM.
(Lorenzo Ottolenghi)
GLUECIFER
Dopo quattordici anni i Gluecifer tornano a calcare i palchi e, stando a quanto abbiamo visto, non sembra passato nemmeno un giorno dall’ultima volta che lo hanno fatto. Il punk’n’roll degli scandinavi è ormai un marchio di fabbrica e le chitarre di Captain Poon e Raldo Useless graffiano come ai bei tempi e si alternano fra riff incendiari e assoli di marca Stoogesiana. Biff Malibu, leggermente ingrassato e con indosso una giacca bianca, assomiglia a un venditore di auto usate, eppure quando inizia a cantare colpisce con una carica rock’n’roll entusiasmante, e anche se – al contrario dei suoi compagni di band – si muove poco sul palco, riesce a coinvolgere il pubblico che si lancia in pogo e circle-pit. La band è in gran forma e spara tutti i suoi brani più conosciuti uno dopo l’altro senza risparmiarsi e con tanta energia punk e rock’n’roll, per l’entusiasmo nostro e di tutto il pubblico.
(Marco Pizzoni)
IRON MAIDEN
Cosa si può dire che non sia già stato detto di un concerto degli Iron Maiden? Steve Harris e soci calcano i palchi di mezzo mondo da circa quarant’anni e sia musicalmente che nelle esibizioni dal vivo rappresentano, probabilmente, il concetto stesso di Heavy Metal. In questa carrellata dei grandi classici della band inglese, c’è posto per materiale dal 1980 al 2000, cioè i primi vent’anni discografici dei Maiden. Certo, mancano pezzi tratti da “Killers” o “Somewhere In Time”, ma ci sono estratti di “Brave New World” e, sopratutto “The X Factor” e “Virtual XI”, con “Sign Of The Cross” e “The Clansman” raramente eseguiti con Bruce Dickinson prima di questo Legacy Of The Beast Tour; questi vengono proposti però a discapito di estratti dai succitati album, e una sporadica incursione in “A Matter Of Life And Death” del 2006. Ma va bene così. La scenografia è impressionante fin da subito, quando il famoso discorso di Churchill dà il via a “Aces High”, subito seguita da “Where Eagles Dare”, mentre un bombardiere campeggia sul palco. La band è in gran spolvero: impeccabile come sempre e con Bruce Dickinson che, finalmente completamente ripresosi dai problemi di salute, sfodera una voce incredibile (soprattutto per una persona che proprio quest’anno compirà sessant’anni). Il sing along di praticamente tutto l’Hellfest è incredibile e, anche se siamo abituati a una tale partecipazione nei concerti della Vergine di Ferro, fa sempre accapponare la pelle. Arriva “2 Minutes To Midnight”, seguita da “The Clansman”: le scenografie cambiano ancora, la band si muove da un lato all’altro del palco e dimostra l’energia di un gruppo di ventenni. Ecco, allora, “The Trooper” e “Revelations” (“Piece Of Mind” è, in assoluto, il disco più saccheggiato per questo tour). Il trittico “For The Greater Good Of God”, “The Wicker Man”, “Sign Of The Cross” è, forse, quello che raffredda un po’ il pubblico, ma troviamo giusto che gli Iron Maiden scelgano di non volersi fermare ai primi inarrivabili sette dischi. Ci pensano “Flight Of Icarus” e l’ormai immancabile “Fear Of The Dark” a risvegliare la buona parte di fan più attempati, quest’ultima col consueto sing along da brividi. Concerto perfetto, ma c’è ancora tempo per gli ultimi due pezzi, l’iconica “The Number Of The Beast” e l’anthemica e conclusiva “Iron Maiden”. Si spengono le luci, ma – ovviamente – tutti sanno che c’è ancora spazio per gli encore, cosi il gruppo torna sul palco dopo una breve pausa e attacca “The Evil That Men Do”; gli animi si scaldano ancora di più con “Hallowed Be Thy Name” ed esplodono con la conclusiva, questa volta davvero, “Run To The Hills”. Che dire? Come sempre gli Iron Maiden hanno imbastito uno show incredibile e hanno suonato in modo impeccabile; sulle abilità da frontman di Bruce Dickinson è già stato detto e scritto tutto l’immaginabile e non possiamo che confermare che si tratti, probabilmente, del migliore al mondo nel suo ruolo, sicuramente per quanto concerne la musica metal e, forse, non solo. Se proprio volessimo trovare un difetto, potremmo dire che, al di là dell’amore da fan che rende un evento del genere sempre unico, questo tour non toglie e non aggiunge molto per chi, magari, ha già visto esibirsi gli Iron dagli anni Ottanta, ma la magia di questa band sta anche nell’incredibile ricambio generazionale della propria fanbase e, quindi, per un quarantenne un po’ annoiato ci saranno sempre almeno dieci ventenni in estasi. Bene così e ‘up the Irons’!
(Lorenzo Ottolenghi)
THE HELLACOPTERS
La giornata di domenica vede la Warzone invasa dal punk rock’n’roll scandinavo, con band del calibro di Gluecifer, Backyard Babies, Turbonegro e, ovviamente, The Hellacopters. La band di Nicke Andersson è quella più legata al rock’n’roll di ispirazione Stonesiana e lo dimostra pienamente durante il concerto. Gli svedesi, che sono tornati a suonare da un paio di anni, ripercorrono tutta la loro carriera rivisitando però i loro vecchi brani più garage punk, con l’influenza classic rock’n’roll emersa in “Grande Rock”, e non a caso le tastiere occupano uno spazio tutt’altro che secondario. Le chitarre di Dregen (che con basco e bandana assomiglia a una versione marcia di Little Steven) e Nicke sono comunque al centro della scena e macinano riff fra Rolling Stones, Chuck Berry e Social Distortion, con un forte gusto per la melodia e un certo powerpop di metà anni ’70, quello più legato al punk, senza dimenticare il blues (non a caso abbiamo citato i Rolling Stones) che emerge in alcuni brani. I ritmi non sono mai esageratamente elevati, eppure la carica di energia che trasmettono è notevole e il pubblico apprezza particolarmente lo show. L’ultimo brano è il classico “(Gotta Get Some Action) Now!”, nel quale emerge lo spirito più punk degli esordi e che chiude con un’ultima scarica di adrenalina un concerto di ottimo e divertente rock’n’roll.
(Marco Pizzoni)
EXODUS
Parole d’ordine: violenza e ignoranza. Basta vedere la mole di amplificatori Marshall assiepati sul palco dell’Altar per prepararsi a un’ondata di thrash assordante, e quando gli Exodus salgono sul palco la conferma è immediata. “Funeral Hymn” sfuma velocemente in “Blood In, Blood Out”, si contano i primi caduti nel coraggioso e feroce mosh che, nonostante sia l’una passata, ancora prende vita; dopodiché inzia una discesa agli inferi che ha praticamente un solo nome: “Bonded By Blood”. Ben cinque gli estratti da questo seminale album, e sarebbe bello vedere Gary Holt sciorinare i suoi riff e assoli al fulmicotone; ma anche se rimpiazzato per gli impegni con gli Slayer, sul palco si vede davvero un’energia sprigionata al 100%, e l’apporto dello storico compare Tom Hunting dietro le pelli, oltre a quello del resto della band, fa il suo per mettere sugli scudi uno degli inventori di questo genere. Menzione d’onore per Steve Souza, che nonostante una timbrica che ha sempre convinto poco (almeno chi vi scrive) e qualche chilo di troppo, tiene il palco e le urla a livello ottimale per tutta l’esibizione.
(Simone Vavalà)
CARPENTER BRUT
Dopo il mix di elettronica, dance e industrial dell’anno scorso con Perturbator, quest’anno l’Hellfest sceglie nuovamente di chiudere i palchi dedicati all’estremo (Temple e Altar) con un momento ‘danzereccio’, affidandosi al francese Franck Hueso, alias Carpenter Brut. La synthwave del musicista di Poitiers dal vivo è accompagnata da chitarra elettrica e batteria e si ispira principalmente alle colonne sonore horror degli anni Ottanta (su tutti proprio John Carpenter), aggiungendo elettronica quasi dance, rock e metal. Il mix rende il palco del Temple un’enorme dancehall, dove tra stage diving e headbanging, la maggior parte dei numerosissimi astanti balla (o almeno ci prova). Le atmosfere sono evocative, potenti e coinvolgenti, mentre solo le silhouette dei musicisti sono visibili sul palco – scelta deliberata, a cercare di mantenere il più possibile l’anonimato su un artista che non desidera focalizzare l’attenzione su sé stesso ma sulla sua musica. L’esperimento degli organizzatori dell’Hellfest funziona ancora una volta e permette, tra ottima musica più d’atmosfera di quella suonata durante il resto del festival e allegria alcolica, di stemperare tre giorni di musica metal. Una sorta di grande festa che si chiude con una magistrale cover di “Maniac” di Michael Sembello, direttamente dalla colonna sonora di “Flashdance”. Nel modo più imprevedibile, chiudiamo la nostra maratona, certi, coi nomi annunciati (Manowar, Slayer e Carcass su tutti), che anche l’anno prossimo saremo presenti a Clisson, pronti ad altri tre giorni di immersione nella musica che più ci piace.
(Lorenzo Ottolenghi)