A Cura di Carlo Paleari
Nuova calata italica per le zucche più famose del mondo, accompagnate per l’occasione dai connazionali Axxis. Serata all’insegna del puro power metal tedesco, quindi, che il pubblico nostrano non si lascia sfuggire affluendo numeroso in un Alcatraz che, pur senza essere gremito, accoglie con fragore le due band. Un altro segno del legame tra il nostro Paese e gli Helloween è la grande eterogeneità del pubblico, che vede la presenza sia delle vecchie leve, più legate al periodo Hansen/Kiske, sia un numeroso pubblico di giovanissimi, a portare avanti il carrozzone di una band che, senza dubbio, ha fatto la storia di un genere.
AXXIS
Con la tipica puntualità tedesca, alle 20.00 salgono sul palco gli Axxis, forti del nuovo “Paradise In Flames”, per riscaldare il pubblico con il loro power metal roccioso, fatto di up-tempo melodici e coinvolgenti. Inizialmente la platea sembra piuttosto fredda nei confronti della band tedesca, ma, ben presto, la grinta dei musicisti (e in particolare del cantante Bernhard Weiss) riesce a scuotere gli animi. Bisogna dire che, a questo proposito, il merito va anche alla presenza di Lakonia, giovane soprano che, in più di un pezzo, ha duettato con Weiss, con la sue voce squillante. Certo, musicalmente parlando, la sua performance è stata poco più che accessoria, sia per il suo ruolo non centrale e sia per la scelta, comprensibile, da dare maggior risalto alla voce del cantante di ruolo; tuttavia le sue movenze ammiccanti, unite ad una presenza fisica decisamente notevole, strappano al pubblico (maschile) più di una ovazione. Lo spazio concesso agli Axxis è consistente e, così, la band può permettersi di presentare un buon numero di brani e anche di giocare un po’ con il pubblico. Weiss, infatti, dopo essersi preparato un foglio con una serie di frasi in italiano, cerca di interagire il più possibile con le prime file, arrivando a chiamare una ragazza sul palco per un divertente siparietto. Prima di eseguire “Kingdom Of The Night”, infatti, Weiss fa salire sul palco Maria (“un nome facile per me!”, dice il cantante) e, dopo averle dato il microfono, la lascia in mezzo al palco, invitandola ad incitare il pubblico. Dopo l’iniziale incertezza, Maria ci prende gusto, e il pubblico risponde con entusiasmo ai suoi ‘heeey’, tanto che lo stesso Weiss si mette a scherzare su come sia facile essere una rockstar. Arriva il momento di eseguire la ballad e a Maria viene affidato un tamburello, in modo da accompagnare la band nell’esecuzione. Il risultato è stato davvero spassoso, dato che la povera ragazza sicuramente sarà bravissima in tante cose ma, purtroppo, sembra essere totalmente incapace di tenere un tempo. Ma in fondo è stato bello così! Brava Maria! La serata prosegue e gli Axxis continuano il loro show granitico, alternando momenti più tirati ad altri più epici e sinfonici, dando sempre grande importanza alla melodia e ai cori, vero punto di forza del gruppo. Verso le 21.00, quindi, la band saluta e ringrazia il pubblico, il quale, di rimando, risponde con calore, concludendo così una performance di tutto rispetto.
HELLOWEEN
Si avvicina il momento di sentire gli headliner della serata, che presentano in questo tour la loro ultima, controversa fatica: “Keeper Of The Seven Keys – The Legacy”, a cui spetta il compito di tener testa ai due album monumentali che portano lo stesso nome. La scenografia è piuttosto scarna, con solo qualche telo che ritrae la copertina del nuovo album ed un paio di manichini incappucciati ai lati del palco che reggono delle sfere luminose. Finalmente si spengono le luci e la band entra sul palco per lanciarsi subito in “King Of A 1000 Years”, la prima delle due suite del nuovo album. La scelta coraggiosa di iniziare il concerto con un brano di quindici minuti è solo la prima di una lunga serie, che renderanno la serata decisamente inusuale. Dopo la classicissima “Eagle Fly Free”, accolta con un vero boato da tutto il pubblico, e “Hell Was Made In Heaven”, unico estratto dal mediocre “Rabbit Don’t Come Easy”, si torna indietro fino all’altra storica suite del gruppo, “Keeper Of The Seven Keys”. La resa è molto buona, con un Andi Deris decisamente più a suo agio, rispetto al passato, nel repertorio di Kiske. Anche il resto della band sembra carica al punto giusto: Michael Weikath appare molto più tranquillo e partecipe, dopo aver superato i problemi interni della band; Markus Grosskopf è da sempre una certezza, sia per il livello esecutivo, sia per simpatia e carisma; Sascha Gerstner sembra a suo agio nel suo ruolo e, pur rimanendo sempre un po’ in disparte, riesce a farsi notare con la sua presenza elegante e un po’ dandy; e infine il nuovo ingresso, Dani Löble, si conferma una terremotante macchina da guerra. A questo punto della serata giunge un’altra graditissima sorpresa, con l’esecuzione di “A Tale That Wasn’t Right”, pezzo davvero emozionante con un Andi Deris particolarmente emozionante nella sua interpretazione. Ovviamente non poteva mancare il momento degli assoli e, così, i riflettori vengono puntati sull’ultimo acquisto, Löble, pronto a presentarsi al pubblico in tutta la sua potenza. A parere di chi scrive, questi momenti sono sempre i peggiori di un concerto metal, dato che, normalmente, il tutto si riduce ad una serie di esercizi ginnici, divertenti per i primi trenta secondi e mortalmente noiosi per tutto il resto. Se nella sostanza anche gli Helloween non hanno fatto eccezione (l’assolo di Löble è stato potente e preciso ma, comunque, troppo lungo e monotono), differente è stato l’approccio dei musicisti, che hanno saputo rendere più gustoso questo momento con delle divertenti gag. A lato della enorme batteria ‘ufficiale’, compaiono una piccola batteria giocattolo e un sorridente Grosskopf armato di bacchette, pronto a sfidare Löble sul suo territorio. Il tutto funziona alla grande, soprattutto grazie alla esilarante performance del bassista, che si scatena nel picchiare a caso sulla sua batteria, arrivando a scaraventarne i pezzi in giro per il palco e strappando una risata a tutti i presenti. Lo spettacolo continua e gli Helloween, imperterriti, si ostinano a pescare gli episodi più lunghi della loro carriera, come la nuova “Occasion Avenue”, altro estratto dall’ultimo lavoro, che però non riesce ad entusiasmare in pieno, forse proprio per il fatto di essere già il terzo brano a superare i dieci minuti di durata.
Curiosa anche la presenza di ben due brani tratti da “The Dark Ride”, l’album che Weikath continua a definire estraneo alla natura degli Helloween: mi riferisco all’ottima “Mr. Torture”, in cui Deris si perde un pochino, e a “If I Could Fly”, decisamente più solare. La cosa stupisce ancora di più se si aggiunge il fatto che, invece, album come “Master Of The Rings” e “Better Than Raw” rimangono completamente ignorati per tutto il concerto. A questo punto torna di nuovo l’intermezzo solista, dove si ripete la scenetta precedente, stavolta con Gerstner alla chitarra vera e Löble con quella giocattolo, seguito da “Power”, forse il brano dell’era Deris che più di ogni altro può considerarsi un classico. In questo tour la band decide di non includere il classico ‘sing along’ finale e si limita a suonarne una versione fedele, scelta che si rivela azzeccata vista la natura diretta del pezzo. D’altra parte non si poteva terminare il concerto senza un po’ di dialogo con il pubblico e, quindi, via a “Future World”, in cui la band si ritaglia un consistente spazio per far cantare la platea, complice anche l’impianto dell’Alcatraz che, di tanto in tanto, salta lasciando accese solo le spie sul palco. La band, che all’inizio non si era di accorta di niente, visto lo sconcerto del pubblico si rende conto della situazione e continua la sua performance, tra una battuta e l’altra indirizzata ai tecnici tedeschi e italiani. Dopo un’insipida “The Invisible Man”, la band saluta e si congeda in attesa dei bis, che esplodono poco dopo sulle note del singolo apripista del nuovo album, “Mrs. God”, seguito a ruota da uno dei brani più amati in assoluto della band, “I Want Out”, cantata con insospettabile agilità da un Andi Deris decisamente in serata. L’ultimo brano, invece, non poteva che essere “Dr. Stein”, altro super-classico delle Zucche, cantato a squarciagola da tutto il pubblico. Bilancio positivo, quindi, per gli Helloween, autori di uno show che ha entusiasmato e divertito, pur lasciando qualche perplessità. Data la volontà di suonare diversi pezzi molto lunghi, infatti, forse sarebbe stato meglio utilizzare i tempi in maniera più mirata, accorciando gli assoli e tagliando qualche strascico di troppo, in modo da farci stare un paio di brani in più. Comunque non c’è motivo di lamentarsi eccessivamente: ci siamo gustati più di due ore di buona musica, suonata da una band affiatata, compatta e piena di energia. Se poi pensiamo che questa band in particolare ha scritto dei veri e propri capolavori immortali nella sua lunga carriera, cosa possiamo volere di più? Un Lucano?