18/11/2015 - HIGH ON FIRE + BASK @ Lo-Fi - Milano

Pubblicato il 25/11/2015 da

A cura di Simone Vavalà

L’autunno musicale milanese entra nel vivo in una serata brumosa dalla perfetta ambientazione. Il Lo-Fi, meritevole locale all’estrema periferia della città, divenuto ormai un punto di riferimento per i concerti lontani dal mainstream, ci accoglie in una coltre di fumo e nebbia adattissima ai suoni della band di Matt Pike, di ritorno sul nostro suolo a pochi mesi dalla data bolognese.

HOF

BASK

Giusto il tempo di entrare e prendere le birre di rito, che a scaldare gli animi salgono sul palco i Bask. Il quartetto del Nord Carolina, il cui pregevole “American Hollow” è uscito da poco più di un anno, prova ad avvolgere nelle sue atmosfere psichedeliche la sala, ma purtroppo l’esito è molto inferiore alle aspettative, che erano decisamente alte da parte di chi vi scrive. Il loro sound, un eclettico stoner venato di psichedelia di matrice Earthless, per citare una band che sicuramente scorre nelle loro vene, risulta particolarmente suadente su disco, ma decisamente da rodare in sede live: cinque dei sei brani che compongono il loro esordio vengono offerti in pasto alla platea, per un’abbondante mezz’ora di buona fattura, ma perdono tutta la componente sulfurea e lisergica presente nei microsolchi. Dopo l’inefficace scelta di aprire con un pezzo troppo lento, specie in relazione a chi e quale tipo di assalto sonoro sta realmente attendendo il pubblico presente, la band sembra scollarsi molto in fretta; emergono un paio di stecche di troppo, il muro di suono mostra diverse crepe e anche la splendida “A Man’s Worth”, che su album ci illude che gli anni Sessanta siano sempre vivi, diventa una sorta di spompata ballatina. Peccato, ma forse serve solo altro rodaggio.

HIGH ON FIRE

Una breve pausa, un proficuo passaggio al banchetto dei dischi quasi sempre presente nel locale, e tutto è pronto per gli High On Fire. Pare giusto ricordare, però, che erano inizialmente previsti anche i Black Tusk come gueststar, ma la band di Andrew Fidler ha deciso poche settimane fa di ritirarsi dalla tournée per concentrarsi sulle registrazioni del nuovo album. Ma torniamo alla musica: da rilevare come la setlist di questa sera degli High On Fire non si discosti affatto dalle precedenti date – compresa quella estiva di Bologna -, dando l’idea di un’assoluta continuità tra le due tranche del loro tour europeo. Se da una parte è comprensibile la strutturazione di un tour come puro supporto del nuovo album, da cui non per nulla vengono estratti ben sei dei tredici brani in scaletta, non si può fare a meno di notare che da una band in giro ormai da quindici anni e con sette album all’attivo un pizzico di varietà in più sarebbe apprezzato. La sensazione che qualche classico ripescato dal cilindro avrebbe goduto di ottima resa viene poi acuita dall’immediata certezza di ritrovare, come sempre, un power trio straordinariamente affiatato, con una sezione ritmica di una violenza inarrestabile, ma in grado di fraseggiare alla perfezione con i ricami chitarristici di Matt. In questo, anzi, gli High On Fire vanno anche oltre: non sono rari i momenti in cui l’orecchio tradisce la percezione reale e diventa difficile capire quando i riff portanti vengono assorbiti dal basso di Jeff Matz, che li rivomita come lava nell’infernale incedere della batteria, per ritornare magicamente, in piccoli e preziosi passaggi, nelle melodie delle chitarre. Esempio perfetto l’iniziale “The Black Pot”, brano di apertura dell’ultimo “Luminiferous”, che subito infiamma il pubblico: si muovono quasi all’unisono Des Kensel dietro le pelli e le due asce, infuriate ma precisissime, nel creare l’atmosfera di una discesa ghignante all’Inferno. La band mantiene il tiro alla perfezione intervallando un paio di pezzi dall’ottimo “Death Is This Communion” (la title-track e “Cometh Down Hessian”), Matt sventola la chitarra e la chioma fluente con sguardo messianico, trascinandoci per i settanta minuti del set con sudore, sangue e orgogliosa ignoranza: quella sana di tre talenti indiscussi nello sciorinare assalti sonori di estremo godimento. Sono sicuramente lontani anni luce i suoni e le atmosfere che hanno fatto assurgere il baffuto genio all’Olimpo del Metal ai tempi degli Sleep, ma la capacità mimetica con cui Matt Pike ha reinventato se stesso e forse un intero sottogenere lascia sempre stupefatti. Una breve pausa che fa appena rifiatare, con una base di batteria su cui il mastodontico Kensel si reinserisce ‘live’ perfettamente, ed ecco i bis: un leggero rallentamento delle atmosfere sludge-core con “Fertile Green” e il finale affidato a “Snakes For The Divine”, dall’omonimo album, impeccabile e da brividi. Per quanto riguarda la resa tecnica, è restata solo un po’ sotto tono la voce per i primi due brani, ma il problema è stato presto risolto senza lasciare particolari amarezze sull’esito complessivo; che, semplicemente, è stato equivalente ad essere gettati in una lavatrice dove una mano poco benevola, prima di farla partire, ha pensato bene di aggiungere una falciatrice accesa. Acufeni e metal distribuiti con classe e capacità, come sempre.

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