Memore della prima edizione dello scorso anno, il ritorno all’High Voltage Festival in quel di Londra avviene con le migliori speranze per una seconda edizione degna, se non superiore, della precedente. Speranze che vengono regolarmente confermate da un’organizzazione semplicemente perfetta, un afflusso di pubblico ben superiore rispetto allo scorso anno ed un bill eccezionale scelto da veri appassionati del rock. Per la seconda volta consecutiva anche le condizioni atmosferiche sono state favorevoli al festival, il sole ha picchiato costantemente per tutti e due i giorni dell’evento. Ancora una volta la magia londinese e lo spirito rockeggiante che si respirava hanno reso unici i grandiosi concerti tenuti a Victoria Park, a partire dalla sera prima dell’inizio del festival quando i vostri inviati preferiti, impegnati a testare svariate qualità di birre nel mitico pub Crowbar di Soho, incontrano niente meno che Geoff Tate dei Queensryche intento a scolarsi delle ghiacciate pinte di Guinness. Inutile dire che non ci si è lasciati sfuggire una bella chiacchierata con il cordiale e simpatico cantante. Fa sempre effetto, infine, trovarsi di fianco ad arzilli vecchietti che, con tanto di sedie pieghevoli, assistevano tranquillissimi ai concerti dei vecchi rockers, affiancati dalla frangia più giovane e casinista di fan. Purtroppo la sovrapposizione di diversi concerti ci ha impedito di assistere ad ogni singola band presente, ma abbiamo cercato di riportare tutti gli show degni di nota e meritevoli di essere menzionati.
MICHAEL MONROE
Al nostro arrivo al festival veniamo accolti dal leader degli ormai sciolti Hanoi Rocks, Michael Monroe. A dispetto dell’età, il singer platinato non lesina energie ed offre uno spettacolo all’insegna dell’adrenalina e dominato dal suo imbattibile carisma. Armato di un cromatissimo sax, Monroe snocciola uno dopo l’altro un mix di brani solisti ed estratti dai suoi precedenti negli Hanoi Rocks e Demolition 23. Il concerto inizia con le scoppiettanti “Trick Of The Wrist” e “Got Blood”, giusto per scaldare la folla non ancora numerosissima, ma i boati arrivano con “Motorvatin”, “Hammersmith Palain” e “Back To Mystery City”. La band che accompagna il buon Michael, pur non distinguendosi in particolar modo, svolge al meglio il proprio dovere, anche quando cerca di intrattenere la folla. “Dead, Jail Or Rock’n’Roll” chiude le danze di questo ottimo warm-up che, oltre a confermare la buona salute del sempreverde Monroe, è riuscito a scaldare a dovere i presenti.
RIVAL SONS
Gli americani Rival Sons hanno dato vita ad uno dei migliori show in assoluto della giornata. Vederli suonare sul Main Stage è segno che l’Inghilterra crede nella loro proposta musicale, figlia dei Led Zeppelin e di tutto l’hard rock anni settanta che proprio nel Regno Unito ha vissuto il periodo di massimo splendore. Lascia davvero senza fiato Jay Buchanan, la sua voce potente e cristallina riesce ad ammaliare tutti i numerosi fans giunti sotto il palco. Preciso e maestoso nelle alte tonalità, caldo e passionale nei passaggi intermedi, Buchanan dà il meglio su brani come “Burn Down Los Angeles”, “Gypsy Heart” o “Pressure & Time”, sempre accompagnato dal fido chitarrista Scott Holiday. Anche nei momenti in cui l’anima più blues dei Rival Sons si mostra superba, la foll gradisce e supporta i nostri, fino alla fine di uno spettacolo davvero memorabile. Nonostante molti lamentino il poco tempo a loro concesso (trenta minuti in tutto), gli americani suoneranno a fine serata un altro show sul Metal Hammer Stage per sostituire i defezionari Electric Wizard.
QUEENSRYCHE
Il sole cocente ed impietoso batte sulle teste di migliaia di persone nel momento in cui i Queensryche fanno il loro ingresso sul palco. Sin dalle prime note dell’opener “Get Started”, il singer Geoff Tate appare in scarsissima forma vocale, proprio per questo cerca in tutti i modi di esaltare gli animi con le sue ormai proverbiali coreografie. “Damaged”, ma soprattutto la bellissima “I Don’t Believe In Love” vengono purtroppo martoriate a causa delle pessime condizioni del frontman, ma fortunatamente gli altri musicisti offrono una performance da manuale. Il batterista Scott Rockenfield si distingue con il suo drumming dinamico, potete e preciso nello scandire capolavori come “Jet City Woman” ed “Empire”. Il giovane Parker Lundgren appare sempre più affiatato ed amalgamato insieme ai vecchi leoni, le sue parti soliste suonano impeccabili, anche se molti continuano insistentemente a rimpiangere il mai dimenticato Chris DeGarmo. Il finale dello show è affidato alla divina “Eyes Of A Stranger”, struggente ed evocativa che, per i già citati problemi di Tate, non riesce ad essere proposta in tutto il suo splendore. Alla fine quella dei Queenrsryche si rivelerà una delle prestazioni più incerte dell’intero festival. Purtroppo il trascorrere degli anni sembra sentirsi sulle corde vocali del buon Geoff. Ora attendiamo con ansia di rivedere la band di Seattle in condizioni migliori.
THIN LIZZY
Con “Are You Ready” i Thin Lizzy si presentano in pompa magna sul palco principale dell’High Voltage Festival. La formazione irlandese non perde tempo, ma sin dai primi minuti è chiaro il loro intento: scaldare il cuore dei presenti a suon di rock’n’roll. “Waiting For An Alibi” e “Jailbreak” vengono accolte calorosamente, Ricky Warwick si conferma un frontman assolutamente carismatico, con a fianco il sempreverde Scott Gorham, in forma e giovanile nonostante il trascorrere del tempo. “Dancing In The Moonlight” viene suonata insieme all’amico Michael Monroe, in veste di ospite speciale, sempre accompagnato dal suo cromatissimo sax. Ricky Warwick, un po’ accaldato annuncia che forse è tempo per un goccio di Whiskey, il pubblico va in delirio. E’ proprio lei, la canzone simbolo del folk irlandese, “Whiskey In The Jar” cantata a squarciagola da migliaia di fan, diretti magistralmente da un Warwick caldo e passionale con la sua voce sporca. Lo show verte sul pathos, l’energia ed il cuore che questi musicisti sanno infondere nelle loro canzoni, si vede lontano un miglio chi vive il rock di riflesso e chi ha contribuito in prima persona a renderlo grande, Scott Gorham fa parte senza subbio di quest’ultima categoria. La triade “The Boys Are Back In Town”, “Rosalie” e “Black Rose” congedano i Thin Lizzy, per molti nulla più che una cover band di lusso, ma formazione inconfutabilmente in grado di far rivivere lo spirito originale dei tempi di Phil Lynott.
SLASH
Slash e Myles Kennedy sono la coppia d’oro del momento. L’ex chitarrista dei Guns’n’Roses insieme alla voce degli Alter Bridge sono riusciti a far rivivere la veste più stradaiola del rock e ad assicurarsi ottimi riscontri da fan e critica. “Been There Lately”, brano tratto dagli Slash’s Snakepit, ha il compito di dare inizio allo spettacolo e sparare i primi botti. La successiva “Nightrain” miete impietosamente vittime a non finire, urla, canti e danze si scatenano in tutto il parco, mentre Slash macina assoli con una fluidità ed una classe assolutamente impareggiabile. E’ lui oggi il re della chitarra. Myles Kennedy non è da meno, la sua potenza vocale dona nuova linfa vitale ai vecchi cavalli di battaglia firmati Guns, sembra per qualche attimo di rivivere i primi anni Novanta, quando gli americani dominavano le classifiche di tutto il mondo. “Sweet Parade” funge da apripista per uno degli assoli più conosciuti di tutti i tempi, parliamo del giro iniziale di “Sweet Child O’Mine”. Slash è incontrollabile, non perde un colpo, ed il suo ruolo di mattatore surclassa perfino la classe di Kennedy. I Velvet Revolver vengono citati con “Slither”, brano non proprio memorabile, ma la fine del concerto è ovviamente affidata a “Paradise City”, un vero inno che rimane nel cuore dei presenti. Immenso, sanguigno e selvaggio, Slash ha dato vita al miglior concerto della giornata, un artista del genere avrebbe meritato ben più tempo a disposizione.
GRAND MAGUS
Il poco tempo a disposizione ed un posizionamento in scaletta proprio prima dei Judas Priest non permettono ai Grand Magus di esibirsi al meglio, gran parte del pubblico infatti è impegnata nel cercare una buona posizione sul palco principale. Gli svedesi danno comunque il meglio, sfoggiando tutto il loro metal epico e battagliero, pesante e quadrato. “Kingslayer” e “Iron Will” vengono suonate con grande potenza, mentre Janne Christoffersson spreme la sua ugola al massimo. “Hammer Of The North” manda in delirio i presenti che si scagliano in un feroce headbanging ed innalzano le corna al cielo. Con “Ravens Guide Our Way” i Grand Magus chiudono il loro spettacolo. Il trio si è rivelato in ottima forma ed il pubblico ha apprezzato parecchio la loro performance. Non c’è più tempo, dal main stage i Judas Priest stanno iniziando il loro show.
JUDAS PRIEST
Siamo davvero giunti al momento dell’epitaffio per i Judas Priest, padri dell’heavy metal? Noi siamo molto dubbiosi, ma di fatto a Victoria Park regna una strana atmosfera. L’ultimo festival nella capitale inglese per la band di Rob Halford e Glen Tipton? Gli ultimi show dei Priest hanno mostrato il Metal God in difficoltà dietro al microfono, ma questa sera ogni cosa pare iniziare nel migliore dei modi. La turbolenta e veloce “Rapid Fire” scorre rapida e letale, Halford pare in forma, mentre Tipton ed il nuovo arrivato Richie Faulkner macinano riff senza sosta. “Metal Gods” permette al buon Rob di tenere a riposo la sua voce, così come avviene per le successive “Heading Out To The highway”, “Judas Rising” e “Starbreaker”. Con la successiva “Victim Of Changes” si inizia a fare sul serio, Halford resiste ed offre un’interpretazione calda e sentita, culminata nel famoso acuto della parte centrale del brano. Scott Travis mostra sempre meno emozioni, dietro la batteria appare una macchina senza smorfie, Tipton invece continua a mantenersi in ottima forma tecnica, mentre sul palco non disdegna mai di lanciare i suoi sguardi da ‘piacione’. La rivelazione dello show è però il giovane Richie Faulkner, chiamato a sostituire un pezzo da novanta come K.K. Downing. Certo, carismaticamente non c’è storia con chi ha contribuito a scrivere alcuni dei brani più famosi dell’heavy metal, ma il giovane chitarrista mostra grinta da vendere, grande attitudine ed una preparazione tecnica impeccabile. La scelta del sostituto è stata ottima. “Diamonds & Rust” arriva come manna per i più romanticoni, segue la noiosa “Prophecy”, poi la cannonata “Night Crawler”. Con “Turbo Lover” e “Beyond The Realms Of Death”, la voce del Metal God inizia a perdere colpi, non sarà più come prima. “The Sentinel” viene eseguita in modo quasi ignobile, “Blood Red Skies” appena meglio. Per lesinare più energie possibile, “Breaking The Law” viene fatta cantare interamente al pubblico. Su “Painkiller” andrebbe steso un velo pietoso, un brano difficile come questo non dovrebbe più essere proposto nella scaletta dei Priest. La band si congeda, prima di riapparire per alcuni bis, che terminano ovviamente con “Living After Midnight”, cantata a voce grossa da tutti i presenti. Tra luci e ombre, va detto che i Judas Priest, ed Halford in particolare, hanno dato il cento per cento delle loro energie per offrire un grande show in madrepatria, per questo meritano rispetto. Li rivedremo ancora on stage? Chi lo sa, certo che un velo di tristezza sugli occhi di molti rockers della prima guardia ha chiuso la giornata all’insegna della nostalgia.
THE TREATMENT
La Domenica arriviamo davanti al Metal Hammer Stage proprio mentre i The Treatment iniziano il loro concerto con “Drink, Fuck, Fight”. La giovane band inglese (i musicisti sembrano poco più che scolaretti) sono figli dell’hard rock firmato Ac/Dc ed Airbourne, a loro non interessa apparire originali, quello che conta è spaccare tutto e regalare al pubblico forti scariche d’adrenalina. E ci riescono! Sul palco sono incontenibili e grazie a bordate come “The Doctor” e “Shake The Mountain”, i The Treatmen riescono a conquistare grandi consensi. Gli inglesi, si sa, quando giocano in casa sono molto sostenuti dai concittadini, ma questa volta gli applausi d’approvazione sono tutti meritati. Una giovane realtà da tenere d’occhio.
GENTLEMANS PISTOLS
Rimaniamo inchiodati nelle prime file del Metal Hammer Stage per assistere allo show dei Gentlemans Pistols, band rivelazione che insieme ai Rival Sons ha saputo rivitalizzare l’hard rock anni settanta. Bill Steer comincia a macinare riff potenti e puliti. “L.I.S.A.” e “Confortably Crazy” vengono eseguite in modo perfetto e, tra le file dei presenti, notiamo Lee Dorrian (boss della Rise Above nonchè mastermind dei Cathedral) intento ad ascoltare soddisfatto i suoi pupilli. James Atkinson al microfono si rivela molto più potente ed incisivo che su disco, la sua voce si trova a suo agio sulle alte tonalità, mentre con la sua “diavoletto” affianca lo strabiliante Steer nel suonare accordi senza tempo. Purtroppo il tempo a disposizione è molto poco, motivo per cui gli inglesi non si perdono in chiacchiere, preferendo sparare una dopo l’altra tutte le loro cartucce. Il concerto lascia estasiati, ci sembra di essere tornati indietro nel tempo, durante gli anni magici del rock. Tanto di cappello ai Gentlemans Pistols, con tanta classe, ispirazione ed un talento smisurato hanno confezionato un concerto degno dei grandi nomi dell0intero festival. Di band come queste ce ne vorrebbero davvero molte.
MICHAEL SCHENKER
Le note di “Into The Arena” scatenano l’apocalisse, Michael Shenker fa il suo ingresso in strepitosa forma. Il chitarrista questa volta preferisce trasformare questo concerto in una sorta di best of della sua carriera, accompagnato da un sacco di amici. “Armed And Ready” e “Another Piece Of Meat”, questa firmata Scorpions, vengono eseguite alla perfezione, il chitarrista Tedesco è in gran spolvero, ed I suoi assoli sono degni del periodo d’oro della sua carriera. Sul palco si presenta Doogie White, che esegue l’inedito “Before The Devi Knows You’re Dead”. Il momento topico dello show arriva con “Rock You Like A Hurricane”, classico degli Scorpions, e per l’occasione il fratello Rudolph Schenker si presenta a suonare questo sempreverde della musica rock, mentre il pubblico approva a suon di applausi. Tra gli ospiti appare anche il redivivo Pete Way, bassista degli UFO, da tempo fuori dalle scene a causa delle sue condizioni di salute. Insieme arrivano due classici, “Rock Bottom” e la conclusiva “Doctor Doctor”, sul palco salgono Rudolph Schenker, Doogie White e Jeff Scott Soto, per suonare insieme ad un Michael che pare ringiovanito di vent’anni. Inutile dire che i presenti hanno cantato a squarciagola dall’inizio alla fine dello show. Immensi.
THUNDER
Riuniti per un unico show, i Thunder vengono accolti come vere rock star sul Main Stage, al pari di big come Judas Priest e Dream Theater. Ed il loro concerto non è da meno. Bowes e Morley, due vecchi lupi della scena rock, sono ancora in grado di far battere il cuore dei presenti a tutta velocità, lasciando migliaia di persone senza fiato, tanta è la loro classe nel suonare. “Back Street Symphony” viene accolta calorosamente, la band è in grande forma e le chitarre ci inebriano con assoli degni di entrare nella storia. “River Of Pain” e “Higher Ground” vengono cantate da band e pubblico, quasi a formare un’unica e potentissima voce. Bowes ha mantenuto intatto tutto il suo carisma sul palco, grazia ed adrenalina rivitalizzano vecchie hit come “The Devil Made Me Do It”. C’è spazio per la cover di “Gimme Some Lovin’”, ma la successiva “Love Walked Inn” non ha rivali. La famosa ballad sveglia l’animo romantico dei presenti, che si lasciano cullare dalla dolcissima chitarra acustica di Morley. Il finale dello spettacolo è affidato a “Dirty Love” ed i Thunder per l’ultima volta danno prova della loro esperienza maturata in trent’anni sui palchi. Peccato sapere che di show come questi non se ne vedranno più, ma contemporaneamente la gioia per essere riusciti a vedere questi pezzi da novanta è impagabile. Grazie Thunder, speriamo che questo sia solo un arrivederci.
JETHRO TULL
L’incastro dei vari show ci permette di assistere solo parzialmente al concerto dei Jethro Tull, ma ci sembra doveroso riportare quanto abbiamo potuto appurare con i nostri occhi. Ian Anderson in grande spolvero è stato il mattatore incontrastato della serata, noi arriviamo giusto in tempo per ascoltare interamente “Budapest”. Gli ultimi due brani sono i cavalli di battaglia dei menestrelli inglesi, “Aqualung” e “Locomotive Breath” (con Joe Bonamassa come special guest) hanno radunato migliaia di vecchi rocker pronti ad esaltare i loro beniamini. Peccato non essere riusciti a gustarsi per intero il concerto di queste leggende, purtroppo il tempo tiranno ci costringe a lasciare subito il prog stage per dirigerci verso la zona principale, dove a breve i Black Country Communion saliranno sul palco.
BLACK COUNTRY COMMUNION
Da un supergruppo come i Black Country Communion le aspettative erano molto alte. Glenn Hughes, Derek Sherinian, Joe Bonamassa e Jason Bonham, va detto subito, hanno letteralmente superato ogni più rosea aspettativa. “Black Country” ha subito messo in evidenza il groove di una band che in questi anni è cresciuta in sintonia e amalgama. Rock star dall’alto livello tecnico mostrano un cuore unico, solo Slash in questo festival è stato loro pari. “One Last Soul” e “Crossfire” vengono scandite a suon di cannonate da Bonham Jr., che ancora una volta dimostra di non avere bisogno di vivere sotto l’ombra ingombrante del padre. Sherinian è un fiume in piena di note, Hughes canta come se avesse vent’anni, molti ormai sono certi che il cantante/bassista abbia stretto un patto col diavolo (un po’ alla stregua di Robert Johnson) per mantenere la sua voce limpida, potente ed in grado di raggiungere qualsiasi tonalità. E Joe Bonamassa? Semplicemente il miglior chitarrista delle ultime generazioni. Che si tratti di blues, rock o hard rock, Joe e la sua Gibson mostrano cuore, groove, passione ed una classe che oggi nessun collega coetaneo possiede. Quando poi l’axeman si cimenta al microfono sulla sua “The Ballad Of John Henry”, le migliaia di presenti rimangono incantati dalla sua voce calda e passionale. Il finale del concerto è ovviamente affidato a “Burn”, cavallo di battaglia dei Deep Purple era Hughes. Sembra di essere tornati ad inizio anni settanta, Sherinian rielabora in chiave personale i passaggi di Jon Lord, Hughes canta meglio oggi di quarant’anni fa e Bonamassa non fa rimpiangere Ritchie Blackmore. Signori, poche storie, i Black Country Communion avrebbero meritato di chiudere da headliner la seconda edizione dell’High Voltage Festival. Il loro merito più grande è l’aver dato a tutti i presenti una grande lezione su come si suona, virtuosismi e sbrodolate soliste di venti minuti non sono nulla di fronte a tre riff vincenti suonati con il cuore. Qualcuno, forse, non l’ha ancora capito.
DREAM THEATER
Dopo il concerto dei Black Country Communion è davvero difficile aspettarsi qualcosa di più, in particolar modo da una band che notoriamente non ha mai fatto del cuore la sua arma primaria. Infatti i Dream Theater si presentano sul palco con suoni perfetti, tecnica inarrivabile ed una perizia unica. Eppure vedere Petrucci lanciato nei suoi lunghissimi assoli, Rudess tutto impegnato sulle sue tastiere e Mike Mangini intento a picchiare decine di piatti contemporaneamente per dimostrare di essere più figo del defezionario Mike Portnoy, ha lasciato gran parte del pubblico molto fredda. E LaBrie? Ormai le sue pause sono lunghissime, sempre più spesso per diversi minuti sparisce dal palco per lasciar sfogare i suoi colleghi, per poi riapparire e fare il suo compito. Non ce ne vogliano i fan della band americana, ma “Under A Glass Moon”, “Forsaken” o “The Ytse Jam” hanno fallito il loro obiettivo, far breccia nel cuore dei fan. Non a caso, a circa metà concerto, parte dei presenti ha iniziato a lasciare il festival. Anche le successive “Caught In A Web” e “Through My World” vengono eseguite come da manuale, pare di ascoltare un disco, ma le emozioni faticano a venir fuori. L’unico bis arriva con “Learning To Live”, noi ci congediamo dall’High Voltage Festival con un po’ di amaro in bocca a causa di un concerto freddo e poco sentito. Questa giornata è stata in mano ai gruppi minori, che per dimostrare il loro valore hanno dato anima e corpo, al contrario dei Dream Theater, troppo impegnati a non sbagliare una nota piuttosto che ad aizzare la folla e coinvolgerla nella loro lunghissima, interminabile jam session.