Report a cura di Chiara Franchi
Fotografie di Enrico Dal Boni
Quando abbiamo visto in cartellone la proposta rock/metal per l’edizione 2016 dell’Home Festival di Treviso, la sensazione è stata quella che si prova la mattina del 26 dicembre aprendo il frigo: tutto delizioso, ma l’ho già mangiato ieri e francamente ce l’ho ancora sullo stomaco. I While She Sleeps li abbiamo visti il 28 ottobre 2015, al New Age di Roncade (TV), in supporto ai Bullet For My Valentine. Gli Enter Shikari sono stati al New Age il 22 marzo scorso. Quanto agli Eagles Of Death Metal, è la terza volta che prendono appuntamento con la provincia di Treviso, visto che le due date fissate sempre al New Age sono saltate entrambe per cause di forza maggiore (una a novembre 2015 per motivi che è inutile precisare e una a febbraio perché Jesse Hughes si è fatto fuori un tendine). Dunque, abbiamo un programma che si presenta per due terzi come minestra riscaldata e per un terzo come il recupero di un duplice bidone. Per di più, è tutta roba che esce dalla stessa cucina – quella del sopra citato New Age. Per fortuna, quando arriviamo sotto la Isko Tent, davanti al secondo dei sette palchi della manifestazione, il clima è più interessante del previsto. La gente c’è, l’attesa anche, la voglia di divertirsi è tanta. Dopotutto, l’Home Festival è un appuntamento irrinunciabile per una tale e tanto variegata marea di gente che l’atmosfera difficilmente può lasciare delusi. Nato nel 2010 come evento gratuito, l’Home richiamava già alla sua prima edizione ben 27.000 spettatori, con una scaletta capitanata dagli inossidabili Elio e le Storie Tese. Dopo soli tre anni il boom assoluto, 107.000 presenze e una lineup che vedeva in testa Francesco De Gregori, Ministri e Asian Dub Foundation. Dal 2014 si paga un biglietto d’ingresso, aumentato di anno in anno fino a toccare i 25€ al giorno di questa edizione. Considerando che in programma ce n’è per tutti i gusti, che il 2016 vede la partecipazione di star internazionali (tra gli altri, Prodigy, Martin Garrix, Editors, 2Cellos) e che l’area offre una vastissima gamma di stand, intrattenimenti e servizi, la cifra è comunque più che onesta. Vediamo però come sono andate le cose sotto la tenda del rock’n’ roll, dove sabato 3 settembre abbiamo assistito alle esibizioni più ‘strong’ in programma!
WHILE SHE SLEEPS
Sotto la Isko Tent ci sono molti più fan del previsto ad attendere i While She Sleeps e siamo certi che qualcuno, almeno a giudicare dalle t-shirt del gruppo di Matt Tuck, sia tornato col preciso intento di bissare la bella esperienza di quest’inverno. Infatti, anche stavolta la formazione britannica non delude: niente di nuovo rispetto a quanto visto qualche mese fa, ma rivederli, anche a breve distanza dall’ultima volta, non risulta affatto spiacevole. Purtroppo, come temevamo, l’equazione “concerto sotto un tendone = suoni tremendi” dimostra ancora una volta il suo valore quasi assiomatico, ma chi è accorso per assistere alla gig non sembra curarsene più di tanto. A pochissime battute dall’inizio di “Brainwashed”, il pubblico è infatti già scatenato in un pogo selvaggio, che solleva una fitta nube di polvere. I punti di forza dei While She Sleeps si riconfermano essere quelli che ci eravamo già appuntati la prima volta, ovvero la validità tecnica, l’attitudine un po’ “punk” e la giusta proporzione tra sound old school e idee di facile presa. Sul piano della presenza scenica, il carisma naturale del frontman Lawrence Taylor dimostra ancora una volta di essere il pilastro che tiene in piedi la band. Taylor fomenta imperterrito il pubblico a fare macello più macello, facendo dei tre quarti d’ora dello show un vero e proprio delirio di circle pit, gomitate, ginocchiate e wall of death. Tutto come l’ultima volta, con in più una sorpresa. Tra l’acclamata “This Is The Six” e un “Happy Birthday” metallaro per il compleanno del chitarrista Matt Welsh, i While She Sleeps regalano ai loro fan italiani un’anteprima assoluta della nuovissima “Civil Isolation”, che sarà presentata ufficialmente on line solo due giorni dopo. Il pezzo è una rivisitazione su solida base metalcore di quelle cose un po’ trendy à la Bring Me The Horizon, con giusto una reminiscenza degli In Flames più recenti. Nel complesso sembra funzionare, ma i suoni penalizzanti non ci consentono di farcene un’idea più precisa. La chiusura è affidata, come prevedevamo, a “Four Walls” e alla micidiale collisione di corpi impolverati. Well done guys, speriamo solo di vedervi, prima o poi, in condizioni acustiche dignitose!
ENTER SHIKARI
Pur non essendo mai stati dei fan sfegatati degli Enter Shikari, siamo molto curiosi di vederli in azione. Sono pur sempre dei “genitori”, o per lo meno degli “zii”, di tutto quel filone elettro-hardcore che tanto successo sta avendo di questi tempi e, anche se la loro storia discografica non sembra dimostrarlo, sono in circolazione da quasi vent’anni. La concentrazione di fan sotto la Isko Tent prova che la band inglese gode di un nutrito seguito anche qui e che, nonostante la recente incursione a pochi chilometri dalla sede dell’Home, la voglia di Enter Shikari in quel di Treviso è ancora tanta. A dispetto delle attese, però, la partenza del live è in sordina. Tanto per cominciare, i suoni, già compromessi dal telone di gomma che fa da location, sono a dir poco glaciali. La batteria è freddissima, le chitarre quasi “cibernetiche”, la voce e le basi elettroniche sembrano appena uscite dal freezer. Certo, per il genere potrebbe non essere un male, ma il troppo stroppia e la presenza un po’ sottotono della band non aiuta. A peggiorare le cose interviene la netta sensazione che su “Sorry You’Re Not A Winner” ci sia qualcosa di fuori tempo e che su “The One True Colour” i cori siano stonati. Ora, noi non siamo tra quelli che appena sentono un’imprecisione puntano il dito contro la band per il gusto di dire ‘Ah! Hanno sbagliato’. È che mentre un gruppo come i While She Sleeps poteva contare su quel filo di sporcizia sonora per cui la stecca, il sound imperfetto e la sbavatura danno quasi “calore” alla performance, quando un gruppo in studio ha gli ultrasuoni e dal vivo le cose non funzionano è un po’ come entrare in enoteca per prendere un chinotto – you know what I mean. Anche dal punto di vista scenografico, i panorami spaziali e oceanici proiettati sullo schermo alle spalle della band sono indubbiamente belli a vedersi, ma fanno parecchio sfondo di Windows. Per dirla tutta, nemmeno il pubblico sembra coinvolto come ci saremmo aspettati, tanto che all’invito “get dusty, dirty and sweaty” ci verrebbe da rispondere: “Se andate avanti così, la vedo dura”. Per fortuna, dal mash up “The Last Garrison/No Sleep Tonight ” in poi le cose migliorano, il live prende definitivamente piede e tutto funziona meglio nonostante la chitarra (djentissima) sovrasti un po’ troppo il resto degli strumenti. A proposito di chitarre: i brani in cui anche il cantante Rou Reynolds ha imbracciato la sei corde ci sono sembrati molto più d’impatto dal punto di vista del sound. Con la ‘teenageritudine’ super catchy del ritornello di “Radiate”, la band annuncia che si entra nella “crazy part of the show” e qui, finalmente, sentiamo gli Enter Shikari che volevamo sentire: brani trascinanti, pubblico coinvolto, gente che balla. Pubblico coinvolto, sì, ma anche tanta gente che se ne va prima della fine dello spettacolo. Pare che Salmo, che nel frattempo ha attaccato sul main stage, goda di una solida fan base anche tra i metallari.
EAGLES OF DEATH METAL
“We finally made it, can you believe?”: e certo, che ci crediamo! Buona la terza, per gli EODM. La tanto attesa band californiana sale sul palco alle 22:30 – o meglio, Jesse Hughes sale sul palco alle 22:30, con tanto di sigla, tifo da stadio e casacca col nome ricamato sulla schiena. Dedica diversi minuti a salutare un pubblico a dir poco adorante, che si sbraccia e si sgola mentre il cantante sistema baffo, capello ed occhiale. La ragione di tanta ovazione la capiamo quando Hughes e soci imbracciano gli strumenti: bastano due accordi per dare inizio alla festa più rock’n’roll e più trasudante whiskey a temperatura ambiente che possiate immaginare. “I Only Want You” è irresistibile nonostante i suoni osceni. I volumi delle chitarre sono perforanti e ancora più perforante e la voce di Hughes che, non pago di avere il microfono sparato a tutta manetta, urla come se fosse davanti a una platea di sordi. C’è da dire che le chitarre altissime sono parzialmente giustificate. Chiunque abbia ascoltato gli EODM, infatti, sa quanto siano basilari nel loro sound e con un musicista esaltante come Dave Catching sul palco, ci spariamo quasi volentieri questi volumi micidiali. Inutile precisare che alla batteria non c’è Josh Homme, ma alzi la mano chi è sorpreso… I pezzi volteggiano con disinvoltura tra le varie declinazioni del rock, spaziando dal blues al rock’n’roll, alla grettezza punk, tenendo unito il tutto con il cemento della Palm Desert area. Il risultato è che su “Complexity”, “Oh Girl” e “Silverlake” stare fermi è veramente impossibile e il pubblico si lascia condurre con scioltezza dai ritmi ballabili e dai riff accattivanti. In tutto ciò, Hughes straparla e sculetta senza sosta in un susseguirsi di mossette coreografiche e dichiarazioni d’amore per il genere umano: “Pensano che io sia matto e mi chiedono: ‘Come puoi amare così tanta gente?’. Ma io amo tutti! E vi amo per tutto il tempo!”. Non a caso, ecco arrivare l’irrinunciabile “I Love You All The Time”, archetipo della canzone che puoi cantare anche se non la sai. E tra il tributo a David Bowie con la cover “Moonage Daydream” e un accenno a “O Sole Mio” (“If you don’t get moved by this song, you’re an asshole”), approdiamo alla bomba “I Want You So Hard”, un vero e proprio fuoco d’artificio. Sul finale, Catching si lascia andare ad un lungo divertissement di chitarra…molto lungo…lunghissimo… Jesse Hughes nel frattempo è scomparso… non torna… il bassista annuncia che ci sarà un solo di basso e batteria… e noi iniziamo seriamente a temere che Hughes, che tutto a posto non sembra e che già nel pomeriggio, quando lo abbiamo intervistato, aveva tutta l’aria di essere bello carburato, sia collassato da qualche parte in giro per la Isko Tent. Per fortuna, mentre formuliamo queste ipotesi, lo si vede rispuntare sul palco con la chitarra al collo, pronto a prendersi la sua doccia di applausi e a chiudere lo show. Perché sì, lo spettacolo finisce così, con la netta sensazione che la band abbia egregiamente tamponato un imprevisto. Comunque sia andata a finire, è stata un’ora godibilissima, che ci fa tornare a casa canticchiando che anche noi abbiamo un sorriso sulla faccia, che non abbiamo un motivo per piangere e che vi amiamo per tutto il tempo.