Introduzione e report a cura di Marco Gallarati
Mercoledì 13 novembre 2019. Una delle prime, vere fredde serate autunnali del milanese vede i newyorchesi Immolation tornare infine presso le nostre latitudini, portandosi dietro un carrozzone piuttosto variegato di band supportanti il loro poderoso death metal tecnico, brutale e con quel pizzico di sapiente melodia che lo pone ai primissimi livelli di gradimento nella scena. Per alcuni brucerà ancora l’annullamento, rimasto un po’ una macchia oscura nell’intonsa carriera della formazione, della data dell’anno scorso al Freakout Club di Bologna, ma per molti l’inghippo è passato e/o dimenticato, pronti ad accogliere i paladini a stelle e strisce in questo nuovo tris di concerti piazzato nello Stivale ancora in promozione dell’ormai datato “Atonement” (2017). Il black metal dei norvegesi Ragnarok, il death-grind sparato a mille dei Monument Of Misanthropy e i nostri portacolori Embryo sono chiamati a movimentare una serata di violenza praticamente senza compromessi, ma compromessa, questo sì, dalla pesante inadeguatezza dell’impianto dello Slaughter Club, di certo non il locale più adatto per sonorità sì estreme e bisognose di suoni perlomeno decenti per essere vagamente intelligibili. Ma andiamo con ordine e accogliamo sul palco gli opener di questo evento…
EMBRYO
I cremonesi Embryo si presentano puntuali alle 19.40, quando l’audience si attesta ancora sulla – ahinoi – trentina di persone (saremo massimo 150 per fine serata). I Nostri, già apprezzati varie volte in studio ma in silenzio discografico dall’ultimo “A Step Beyond Divinity” del 2017, attaccano con il loro death metal groovy e moderno, che fa sfoggio anche di uno strumento atipico per il genere quale le tastiere di Simone Solla, utili a fornire discreti pattern atmosferici. L’approccio vocale di Roberto Pasolini spazia con ferocia tra scream (poco) e growl (tanto) e tiene bene le cadenze variopinte e talvolta poco lineari dei brani del combo, che vede sugli scudi Eugenio Sambasile alla chitarra – molto piacevoli i suoi contenuti assoli – ed il bassista session Gabriel Pignata, di recente uscito dai Destrage e qui in grado di donare quel briciolo di presenza scenica in più che non guasta mai. I suoni – lo immaginerete – non sono ottimali, ma c’è da dire che gli Embryo risultano puliti e precisi sugli strumenti, quindi la loro mezzora sarà il concerto migliore del lotto, esclusi gli headliner, non solo sotto il profilo della resa acustica. Pasolini conferma la prossima pubblicazione di un EP dal titolo ancora sconosciuto, dal quale viene eseguita l’inedita “Misguided Legacy”, canzone che ci è parsa apparentemente in linea con il resto del materiale proposto, fra il quale hanno spiccato “The Horror Carved”, “Vanguard For The Blind” e “No God Slave”. Bravi Embryo! E passiamo ora alle prime note dolenti…
MONUMENT OF MISANTHROPY
La belluina proposta dei franco-austriaci Monument Of Misanthropy, un death metal abrasivo, velocissimo e strettamente imparentato con il grind, è la musica meno adatta ad essere riprodotta allo Slaughter Club: i colpi del rullante di batteria rintronano mischiati alla doppia cassa proiettando tutto l’udibile in sfere cacofoniche d’assurda e rutilante malignità; i volumi altissimi non aiutano a discernere un bel nulla ed un bassista apparentemente molto preparato e virtuoso si vede inglobare nel vuoto cosmico le moltissime note suonate, spesso in slap e in tapping; il vocalist George Wilfinger salta da una corda vocale all’altra lanciando grida sgozzate con una e gorgoglii abissali con l’altra, sempre alla ricerca del massacro uditivo costante. Per gli amanti della barbarie senza nessun senso, il set dei MOM potrà anche essere stato esemplare, ma questa quarantina di minuti di attacco frontale a noi ha fatto solo qualche carezza e provocato più di uno sbadiglio. Surreali le ripetute richieste di circle-pit del citato frontman, rivolte ai trentacinque cani randagi con in mano una birra sparsi per la venue, oltretutto immobilizzati sul posto dallo tsunami di decibel in atto. Per non parlare del momento critico in cui a Wilfinger tocca pubblicizzare il gruppo e le parole gli vengono spezzate dal proprio batterista che smanetta sui tamburi tra un pezzo e l’altro. Da rivedere assolutamente in altro contesto; o forse meglio mai più?
RAGNAROK
Si sale di livello, seppur senza toccare eccellenze estreme, con gli storici black metaller norvegesi Ragnarok, che proprio in questi giorni stanno facendo uscire il nuovo album, il nono “Non Debellicata”, ancora su Agonia Records. Il quartetto di Sarpsborg, guidato dal frontman Jontho, che dal precedente “Psychopathology” è passato dal suo strumento regolare, la batteria, alla voce, può contare su una schiera di sodali nettamente più presente e partecipante rispetto a quella di chi li ha preceduti sul palco. Il settaggio dei suoni, per una formazione che propone un black metal a cavallo tra la scena indigena e quella svedese, quindi feroce, disumano ma con lievi inflessioni melodiche e sporadici rallentamenti atmosferici, è ancora il tallone d’Achille della performance, in quanto anche per loro il volume è parossistico e rende difficile la fruizione di ciò che esce dalle asce del ‘pienotto’ Bolverk (chitarra) e di Rammr (basso), per non parlare del solito rullante rintronante del drumkit di Malignant. Al compimento dei venticinque anni di carriera, i Ragnarok possono quasi considerarsi degli antesignani del genere e lo dimostrano, solo in parte, on stage, sciorinando con la giusta dose di malvagità, fervore satanico e trasporto bestiale il loro assalto all’arma bianca. Le varie “Blood Of Saints”, “In Nomine Satanas”, “Dominance & Submission” si susseguono senza tante interazioni con l’audience, che, un’altra volta annichilita dall’onda sonica debordante, riesce comunque ad unire i palmi delle mani a fine esecuzioni per prodigarsi in applausi abbastanza convinti. Dal lavoro in uscita, i Nostri hanno eseguito sicuramente “The Great Destroyer”, un bel pezzo sparatissimo, dal riffing ficcante e che non demorde mai, facendo presagire un buon sentore per l’imminente giudizio su “Non Debellicata”. Dopo poco meno di cinquanta minuti di Metallo Nero e Rovesciato, i blackster in face painting si congedano in fretta, lasciandoci nel limbo d’attesa per gli Immolation.
IMMOLATION
Definirli una ‘fredda macchina di professionismo death metal’ potrebbe sembrare un po’ fuorviante e sminuente di ciò che sono in realtà gli Immolation oggigiorno; ma è pur vero che, allo Slaughter Club, i newyorchesi sono saliti sul palco in modo dimesso, hanno dispensato pesanti e chirurgiche bastonate agli astanti e, al termine di “When The Jackals Come” e di sessanta minuti di maestria tecnica e dinamica assoluta, se ne sono andati senza quasi neanche salutare. I quattro musicisti lasciano ovviamente che a parlare sia la musica e quella degli Immolation è iconica di un genere, il death metal americano, che essi interpretano a meraviglia, con il loro inconfondibile approccio old-school sì, ma anche sempre moderno e innovativo. Inutile stare qui a ribadire quanto la coppia Vigna-Dolan sia fra le più adorate della scena: la loro qualità espressiva e la presenza scenica, spettacolare e brutale al tempo stesso, dovrebbe fare scuola presso le nuove generazioni! I suoni sono guarda caso vicini alla perfezione, con la batteria di Steve Shalaty finalmente retrocessa in termini di volumi e sovraccarico e capace di fornire un tappeto ritmico roboante alle evoluzioni miracolose del già citato Vigna e del fido compare, all’altra chitarra, Alex Bouks, dall’espressione stolida e imperturbabile ma grandemente efficace in resa sonora. Ross Dolan fa il minimo indispensabile per ingraziarsi il parterre, ma quando termina i doverosi saluti e torna a ruggire nel microfono con grinta verace e genuina l’impatto è devastante e severo: un growl che non fa prigionieri. La prima metà del concerto è più spezzettata, con il gruppo che cerca ancora un minimo di dialogo con l’audience; ma da “World Agony” in avanti si precipita in un vortice continuo di sferzate marziali e riff assassini, proposti uno dopo l’altro senza più interruzioni (che non siano alcune rapide presentazioni dei brani di turno). “Burn With Jesus” e “Dawn Of Possession” hanno tenuto alta la bandiera del profondo passato Immolation, ma nessuna canzone suonata è sembrata fuori posto in una setlist impeccabile e massiccia, nonostante l’inattesa assenza di “A Glorious Epoch”. Il quartetto americano ha dunque posto fine ad una serata risultata piacevole nonostante le problematiche riportate più sopra e un’affluenza non memorabile. A rivederci presto, cari Immolation.