Report di Simone Vavalà
Foto di Moira Carola
Solo dieci giorni separano la calata in Italia degli Imperial Triumphant dalla loro esibizione al Roadburn.
Perché questa premessa, vi chiederete? Perché, a parere di chi vi scrive, poche band hanno assurto al ruolo simbolico di band divisiva in ambito ‘black’ (virgolette d’obbligo) come il combo di New York, e non a caso hanno avuto un’accoglienza trionfale in un festival che vive ormai ai confini del metal, puntando più sulla sperimentazione, la performance, l’evento speciale.
Vedremo più nel dettaglio l’ora di concerto tenuta dai tre ieratici mascherati sulla linea di quanto appena suggerito, ma prima la serata ha visto protagoniste altre tre band degne di interesse: i nostrani Thirst Prayer e Syk e, restando in tema di follia, i francesi Fange, alla loro prima calata oltralpe. Ce n’è per tutti i gusti, insomma, a patto che l’estremo e le ritmiche serrate siano il vostro pane quotidiano, ovviamente; un particolare plauso allo Slaughter Club per una serata di sicuro interesse, purtroppo non premiata da grande presenza, visto che non ci è parso di contare più di ottanta/cento persone… Ahinoi, una cifra costante dei concerti milanesi meno in vista.
Sono passate da poco le 20:30 quando l’inferno si scatena, sotto forma di THIRST PRAYER.
Avevamo perso la band meneghina dai radar dopo la pubblicazione del loro apprezzabile, omonimo disco di esordio qualche anno or sono, ma quel che è certo è che il muro di suono prodotto dalla band è mostruoso, in un mix di sonorità black, grind e hardcore che trovano in varia declinazione i loro punti di forza: nel lavoro di chitarra e basso, a dir poco forsennato, sia in forma di colate fangose e disturbanti, quanto di riff sfrenati da rompersi il collo; nel piglio del batterista, che su un drum set ridotto all’osso ci pettina per mezz’ora, con vibrazioni che prendono (in senso positivo) allo stomaco.
E infine nell’ottima e versatile prestazione di Alessandro Necchi, che attraversa quasi ogni registro vocale – sempre restando lontano da qualunque compromesso verso la melodia – e controlla il palco con mestiere. Un’apertura efficace e stuzzicante, che ci porterà sicuramente a rivedere la band dal vivo appena possibile.
Si cambia decisamente direzione con i SYK, anche se il livello di violenza non accenna a diminuire. La band di Stefano Ferrian mette in mostra con naturalezza un tasso tecnico mostruoso – ci perdiamo anche solo a contare le corde presenti sulle chitarre e sul basso, a dirla tutta – che tuttavia nulla toglie all’impatto. Dietro le pelli riconosciamo il talentuoso Giulio Galati, ospite d’eccezione che conferma una serata in cui l’apporto alla batteria è sontuoso, mentre la voce di Dalila Kayros è un disturbante viaggio nell’alienazione, che riesce a spaziare da un personalissimo growl a follie degne di Bjork. Se non avete mai sentito un loro disco, può risultare difficile immaginare un mix tra mathcore, death e avangarde, e vi assicuriamo che in sede live tocca vette ancora più inattese.
I FANGE sono, lo confessiamo, il motivo di principale interesse di questa sera per chi scrive: è alta la curiosità di vedere il gruppo bretone live dopo ben sei dischi, tutti quanto meno di buona fattura, e con il recentissimo “Privation” decisamente sugli scudi. Il concerto si concentra non a caso sull’ultima uscita, con sei estratti su otto che puzzano di marciume, psicosi e non poche reminiscenze industrial.
L’ormai definitivo passaggio alla drum machine, che spesso offre anche improvvise scariche di gelidi sample, acuisce la sensazione di periferia rugginosa e malata, che i Fange del resto interpretano a pieno titolo anche nella presenza scenica; i due chitarristi si muovono tantissimo, con sorrisi e facce da serial killer ad accompagnare i loro riff sghembi eppure intensissimi, ancora dotati di forti aloni sludge. Antoine Perron al basso è semplicemente inquietante: alto, massiccio, statico e con sguardo allucinato, regala un siparietto di particolare disagio quando si gira appena e sputa in faccia al povero Titouan al suo fianco, che continua imperterrito a suonare. Ma più di tutti regala picchi di pura malattia mentale il cantante Matthias: vestito solo di boxer e t-shirt, ben presto gettata via a sua volta, urla e dona sguaiate linee vocali (oltre a frequenti scaracchi a favore di microfono) trascinandoci in un gorgo nero, nerissimo, esibendosi in uno stomp degno di GG Allin per tutta la durata dell’esibizione. Tanto sudore e presenza scenica, ma soprattutto sostanza, che conferma appieno le sensazioni offerte dai loro dischi.
Arriviamo così, con circa venti, accettabili minuti di ritardo, al clou della serata, che nelle chiacchiere pre-concerto con i presenti ha accumulato i più svariati commenti: curiosità (specie da parte di chi non li ha mai visti), entusiasmo, perplessità, approccio da ‘evento da vedere una volta nella vita’, dopo tanto parlarne.
Per quanto ci riguarda, è la terza esibizione degli IMPERIAL TRIUMPHANT a cui assistiamo, tutt’altro che entusiasti delle prime due, ma del resto – dopo gli interessanti esordi – ci pare che la piega dell’onanismo abbia spesso preso il sopravvento sulla proposta musicale tout court, con una lieve ripresa in occasione dell’ultimo “Spirit Of Ecstasy”, che guarda caso viene riproposto per intero questa sera.
Non c’è niente da dire dal punto di vista della capacità tecnica dei tre misteriosi (mica troppo, poi…) mascherati: fin dalle note dell’opener “Tower Of Glory, City Of Shame” le orecchie quasi sanguinano per la potenza, se si chiudono gli occhi sembra di essere al cospetto di almeno sei musicisti, altro che un trio.
E, proprio come percepito nei solchi del disco, sembrano anche divertirsi di più sul palco: Steve Blanco gigioneggia e fa strani saltelli interagendo con il pubblico, Zachary Ezrin gioca a fare il sacerdote matto appena gli astrusi intrecci di chitarra glielo permettono, mentre dietro le pelli Kenny Grohowski, nonostante i tempi dispari e continuamente diversi e una furia mostruosa, sembra non muovere un muscolo o perdere una goccia di sudore – sempre che ci sia un essere umano sotto palandrana e maschera.
Eppure, c’è un eppure anche a questo giro: comprendiamo benissimo che possano stupire, soprattutto chi si approccia alla musica dando peso centrale alle capacità tecniche. Lo spettacolo c’è, è evidente, tuttavia il mix maschere-cappe-aura misteriosa non ci pare creare di per sé black metal, specie se alla resa dei conti si tratta di avantgarde jazz con un cantato death… e ci aveva già pensato il loro amico John Zorn quasi trent’anni fa con Naed City.
Tornando all’introduzione, insomma, una performance apprezzabile, con i giusti sprazzi di alienazione sonica, ma anche noiosetta dopo i primi due, tre brani, se siete ormai disincantati e preferite il vero marciume.
THIRST PRAYER
SYK
FANGE
IMPERIAL TRIUMPHANT