Chest tattoo, capelli tinti, dilatatori, skinny jeans, mesh shorts, Vans, maglie customizzate snitch n stitch, tank tops, plaid shirts, hoodies, snapbacks, college jackets. Un enorme “wall of merch” che sfora sino a dietro il bancone del bar, tappi per le orecchie griffati all’ingresso, drink a 3 euro, foto coi musicisti, mini groupies, ragazze nel mosh, 2 stepping, violent dancing. Si, c’è anche la musica nel carrozzone targato Impericon – festival itinerante che unisce sotto il marchio di merchandising più potente d’Europa i gruppi più giovani e promettenti del momento della frangia più in voga dell’hardcore/deathcore – ma come negare il business e il lato fashion di una manifestazione creata per sfondare le casse del tavolo merch, con una varietà di prodotti imbarazzante a livello qualitativo elevato? Metalitalia.com è qui per la musica, in ogni caso, e non vede l’ora di assistere agli shows di Deez Nuts, Emmure e Suicide Silence, con le orecchie aperte per i numerosi openers, è con piacere dunque che da Milano è partita alla volta del piacevolissimo Vidia Club di Cesena, perdendosi però le esibizioni tardo pomeridiane di Vanna e The Human Abstract…
AS BLOOD RUNS BLACK
Avete presente un inizio col botto? Appena entrati nel club di Cesena, tempo di salutare un paio di facce note, notiamo il pit già affollato per gli ABRB, formazione deathcore losangelina da poco approdata al secondo album, dopo un drastico stravolgimento della lineup. L’accoglienza dei kids italiani è calorosissima, proprio come accaduto ai The Ghost Inside in una delle edizioni precedenti, tanto da far presagire un roseo futuro ai “latinos” sul palco! Sicuramente i ragazzi, guidati dal piccoletto Sonik Garcia, non brillano per originalità compositiva, ma sanno allestire uno show piacevole e soprattutto sanno coinvolgere tutti i presenti, scatenando la nostra curiosità con una prova dinamica e convincente. Il tempo a loro disposizione è però davvero risicato, quindi non possiamo sbilanciarci più di tanto. L’impressione, ad ogni modo, è positiva.
THE WORD ALIVE
Ultima delle formazioni in “assetto showcase”, ovvero con 25 minuti a disposizione sul palco, sono i The Word Alive. L’impatto dei giovanissimi musicisti è, di primo acchito, imbarazzante: una presenza scenica a dir poco approssimativa li fa assomigliare ad una cover band degli Hanson alle prese con quello che il Moige considererebbe una versione approvabile di musica heavy; una tastiera e un chitarrista brufoloso che guarda il manico mentre suona goffamente sono francamente inaccettabili, ancor più dopo la prova maiuscola degli ABRB. Il colpo d’occhio girando lo sguardo è più che esplicativo: anche l’unico seminarista che indossa una loro t-shirt diserta sostanzialmente lo spettacolo, preferendo allo stesso la lettura del catalogo Impericon in una zona semibuia. Quale momento migliore per uno Jagermeister e cola?
DEEZ NUTS
JJ Peters è stato avvistato più volte al bancone, fino a pochi minuti prima dell’esibizione dei Deez Nuts. Non ci è dato sapere quanti gin tonic avesse in corpo, certo è che se l’ex I Killed The Prom Queen ci era già sembrato in hangover pesante al nostro ultimo incontro (nella data da headliner a maggio 2010), oggi è quasi certo il suo stato di stordimento perenne, soprattutto visto l’incipit spompato di questo set: “Rep Your Hood” non è proprio resa nella sua forma migliore, e non lo sono nemmeno le versioni successive di “I Hustle Everyday” e “Damn Right”. Bisogna arrivare a “Your Mother Should Have Swallowed You” perchè il singer, versione Er Monnezza con quella barba e quel cappello di lana, torni in carreggiata (rimanendo sempre lontano dall’essere in forma), aiutato da una band completamente rinnovata che se la cava benissimo con le gang vocals ma non è il massimo della dinamicità sul palco. Anche nel loro caso si arriva abbastanza velocemente alla fine, decretata da “Stay True” e “There’s No Tomorrow”, e anche per loro il bilancio finale è, purtroppo, negativo: una formazione allo sfascio, che deraglia su disco (“This One’s For You” è il loro peggior lavoro in studio) e ha un vibe decisamente non adatto alla musica proposta. Forse JJ ha voglia solo di fare il cazzone coi Grips N Tonic…
EMMURE
Con gli Emmure si inizia a fare decisamente sul serio, finalmente. Odiatissima, come le band più originali e dalla spiccata personalità, la band guidata da Frankie Palmieri e Jesse Ketive ha occhi e mirini puntati addosso, ma pare decisamente godere di questo status, decisa a diventare sempre più grande. Questa sera, in ogni caso, il pubblico è tutto con loro: durante i 45 minuti a disposizione il pit è stato decisamente movimentato, sotto le indicazioni di un frontman che, contemporaneamente, sembra prendere molto sul serio la musica del gruppo ed imita in più occasioni Fred Durst, ovviamente senza i picchi di pacchianeria della rockstar dei Bizkit. Gli Emmure dal vivo mostrano carattere, sono esaltanti nel loro groove ultraheavy e fanno affiorare in maniera genuina le influenze nu metal su quelle deathcore. L’incipit, con la tripletta “Children Of Cybertron”, “Solar Flare Homicide” e “Soundwave Superior”, è devastante. Chi scrive li ha ascoltati attentamente, e può affermare con certezza che le basi sono ridotte al minimo nel live set, pur non compromettendo una resa davvero molto simile alla registrazione su disco. Stupisce che la formazione continui a dar tanto spazio all’incerto debutto (i pezzi estratti sono davvero acerbi se ascoltati dopo una “Demons With Ryu”), ma il pubblico pare gradire, cantando ogni singola parola come se fosse “R2Deepthroat”. Nessuna parola proferita sul cambio di batterista, trattato come un perfetto session man e sostituito istantaneamente senza contraccolpi. Ancora una volta ha avuto ragione Frankie. Thumbs up!
SUICIDE SILENCE
Gli headliner sono, meritatamente, il gruppo più seguito della serata. Da sempre un’ottima live band, i Suicide Silence vivono in bilico tra i desideri di estremismo sonoro e quelli di modernità: appare evidente nei tour ai quali hanno partecipato (Summer Slaughter contro il Mayhem Festival), nei featuring dell’ultimo “The Black Crown” (Frank Mullen contro Jonathan Davis), sul banchetto del merch (il progetto elettronico di Mitch Lucker e Big Chocolate accanto all’ultimo lavoro della band). Sul palco la situazione è ancora più evidente: quattro musicisti vestiti di nero, con barba e capelli lunghi, niente tatuaggi. Il frontman capello corto, caratteristica canotta bianca, inchiostro ovunque. Certo non è una novità, ma il dualismo sembra funzionare a dovere anche se è sempre più evidente, e con tutta probabilità è sottolineato di proposito da una formazione che sembra avere individuato delle coordinate precise sulle quali costruire il proprio futuro. Anche con loro il giovane pubblico non si risparmia, infuocando il Vidia in un set che pesca il meglio del meglio: “Wake Up”, “You Only Live Once”, “Lifted”, “Disengage” e le altre sono benedette dai suoni migliori della serata, e sono eseguite senza alcuna sbavatura anche nel comparto vocale (nessuno infatti azzarda paragoni coi Bring Me The Horizon sotto questo punto di vista!). E’ un piacere vedere le mosse codificate di Lucker (gamba alzata, schiaccia lo scarafaggio, braccia aperte piegate verso il basso e su e giù col busto…) a troneggiare su capelli roteanti, ma la nota negativa arriva guardando l’orologio: dopo circa 45 minuti di esibizione, causa ritardi accumulati durante gli innumerevoli set, la band è costretta a chiudere, sulle note di “No Pity For A Coward” ovviamente, dove il pubblico è invitato sul palco ad urlare il catartico “Pull The Trigger Bitch” mentre Mark Heylmun (e forse anche qualche altro elemento, non si è capito più nulla) ne approfitta per un giro nelle retrovie chitarra alla mano. Un degno finale di una manifestazione oramai consolidata, che non delude le aspettativa!