Report a cura di Giovanni Mascherpa
Alla sua prima edizione, l’In.Fest si è posto da subito come un festival focalizzato su generi ‘di tendenza’, agglomerando in due giorni alcune delle realtà più in vista delle scene alternative e hardcore; al cui interno accade veramente di tutto, e al Magnolia di Segrate si percepisce tutta l’eterogeneità della musica contemporanea anche quando, come in questo caso, si mettono in primo piano gruppi piuttosto commerciali e che cercano più di qualche compromesso con il mondo del pop. Universo a volte osservato con orrore, che è però impossibile da non chiamare in causa per il grosso delle band viste all’opera. E se la seconda giornata, che vedeva headliner gli Architects e la presenza di act dall’elevata potenza di fuoco come Every Time I Die e Suicide Silence, andava a riportare il metal pienamente al centro del discorso, la prima andava a incontrare soprattutto i favori dei giovanissimi, con ensemble padroni delle playlist Spotify dedicate al metalcore più leccato e radio-friendly. Difatti, la sera del 13 giugno era ben difficile trovare qualcuno tra il pubblico che avesse scavallato gli insidiosi anni della scuola superiore, mentre l’indomani l’età media era già percettibilmente salita, avvicinandosi a quella di una normale kermesse festivaliera. L’affluenza è stata solo discreta, ampi gli spazi vuoti nell’area esterna del Magnolia, mentre la partecipazione emotiva è stata elevata, facendo intendere che i ragazzi che avevano deciso di presenziare erano motivati al massimo, attraversati da quella sana attesa per i propri idoli che non dovrebbe mai mancare a un frequentatore di concerti. Scongiurata la possibilità di nubifragio per la seconda serata – le previsioni meteo annunciavano tempesta, verificatasi altrove ma non nei dintorni della venue – tutto è filato liscio dal punto di vista organizzativo, ogni compagine ha usufruito di suoni generalmente buoni e le prestazioni sono state mediamente all’altezza delle aspettative. Vediamo com’è andata nel dettaglio.
ISSUES
Su queste pagine, parlando del loro secondo album, “Headspaces”, li si presentava come una versione metal di Justin Bieber. Definizione capace di per sé di provocare aritmie a catena per chi è uso solitamente a suoni più tradizionali, e che nei fatti si dimostra a dir poco veritiera. Il palco secondario del Magnolia è preso d’assalto da nugoli di ragazzine adoranti, che adottano comportamenti ansiogeni di solito ascrivibili a chi sta aspettando l’apparizione della boy-band di turno. Gli Issues hanno quei faccini puliti e carini che dai Take That in avanti hanno fatto la fortuna di una certa categoria di ‘artisti’ (il significato ironico del virgolettato crediamo sia palese), si presentano con due vocalist uno più marpione dell’altro e, per nostro stupore, ci sanno fare. Lontane dal potersi dire ambiziose, le canzoni presentano almeno un minimo di nervosismo ritmico e pesantezza chitarristica, pur connotandosi per un apparire luminescente e ammiccante, grondante zucchero, brillantini, pannosità diffusa. Le basi di synth si sentono, fortunatamente non creano un alone di finzione attorno all’operato dei cinque, che fanno prevalere ciò che è realmente suonato all’effettistica preregistrata. Il duettare dei vocalist e i ritornelloni pulitissimi e un po’ effeminati, alternati a rappati nu-metal e qualche urlo brutale, sono ovviamente fondamentali per dare ragion d’essere agli Issues: fra un singolo spacca-chart e l’altro, la guardia non cala un secondo e, da osservatori distaccati e un po’ prevenuti, dobbiamo ammettere che la rappresentazione di ‘metal adolescenziale’ dataci in pasto funziona perfettamente.
CROWN THE EMPIRE
I Crown The Empire escono un poco dallo sfoggio di ‘carinerie’ del programma, assestando qualche sostanziosa mazzata utile a non arrivare in sovraccarico glicemico all’arrivo del buio. L’attenzione a suoni pieni, cristallini, che possano prestarsi a un ascolto non difficoltoso, rimane inalterata rispetto a chi è venuto prima di loro, quel che cambia sono l’approccio e una vitalità hardcore non di mera facciata. Reduci da un’importante defezione, quella del cantante David Escamilla, e il conseguente passaggio a una formazione a quattro elementi, in cui a reggere le fila delle parti vocali è il solo Andrew Velasquez, i ragazzi texani mettono in chiaro in fretta le loro intenzioni. Vanno bene la melodia e i fraseggi di ampio respiro, vanno ancora meglio le invettive post-core e le torsioni fachiresche, che cambiano faccia ai pezzi portando scompostezza e schizofrenia laddove un attimo prima regnava la spensieratezza. L’accoglienza è altrettanto entusiasta di quella ricevuta dagli Issues, visto l’accrescimento di foga esecutiva la platea si adegua e compaiono i primi circle-pit – ricorrenti fino alla nausea nei due giorni di concerti – mentre qualcuno prova a dare lezioni di arti marziali in modi un po’ goffi, con quelle mosse scoordinate diventate di uso comune in taluni ambienti hardcore. Difficilmente i Crown The Empire se ne stanno fermi quando suonano, assecondano benissimo gli spunti pirotecnici della musica e portano una manciata di gradita violenza a chiunque ne abbia una disperata sete. Anche per loro, l’In.Fest è un successo.
STATE CHAMPS
Passiamo sul palco principale per l’apparizione degli State Champs, i cui membri devono essersi trapanati i padiglioni auricolari dalla pubertà ad oggi con i toni punk leggeri di Blink 182 e Green Day. Andiamo oltre, e diciamo che di costoro i musicisti americani danno un’interpretazione ancora più sbarazzina e disimpegnata, che di heavy non ha nulla. In tanti comunque sono qua per loro, perché l’annuncio delle canzoni è accolto da grida di giubilo e la maggioranza dei presenti se ne sta arroccata vicino al palco, avidamente interessata. Poco importa allora che lo spessore artistico sia abbastanza basso, le trame così elementari che nel connubio pop-punk il primo ha largamente prevalenza. Suoni abbastanza scarichi nelle prime battute non remano a favore, anche se con il passare del tempo tutto sommato qualcosa si salva. Il merito va innanzitutto al cantante, abbastanza vario e incline allo sberleffo da togliere almeno in parte banalità all’insieme; e poi appaiono fugaci alcuni momenti più grintosi, che se non ci fanno cambiare totalmente idea sulle qualità della band, consente di rimanere in zona stage fino alla fine del tempo disponibile.
SLEEPING WITH SIRENS
Al calar della sera, gli Sleeping With Sirens arrivano a tramutare in realtà i sogni dei loro implumi fan. Dagli urletti che udiamo, sono le signorine ad avere più a cuore le opere di questi lanciatissimi floridiani. Attivi dal 2009, nel giro di quattro album sono diventati uno dei nomi caldi delle classifiche rock e indie da entrambe le parti dell’Atlantico. L’ultimo “Madness” non avrà fatto sfracelli in Italia come accaduto altrove, ma ha attirato a sé, assieme al precedente “Feel”, un hype notevole: il cantante Kelly Quinn viene quasi sovrastato dal rumoreggiare di chi lo sta ammirando dall’altra parte del palco, complice una voce che nelle prime battute si perde sulle tonalità alte. Le tendenze emo-core fanno francamente temere il peggio, un inabissarsi nella melassa e nel cattivo gusto difficile da sopportare. In seguito, stranamente, col migliorare dei suoni e della potenza delle linee vocali, qualcosa cambia. Chi scrive mai riuscirà ad ascoltarsi un album degli Sleeping With Sirens dall’inizio alla fine, però è tale la sicurezza con cui i musicisti stanno sul palco, la presa che riescono ad avere sull’audience, un retrogusto glam che dal vivo non ha timore di flirtare con il metalcore, che la performance diventa divertente e capace di colpire, se apprezzata nella giusta ottica. Come band che mira a una fetta di mercato costituita di soli ragazzini, gli Sleeping With Sirens sanno il fatto loro, non fosse altro per la grande professionalità e la dote di non inserire il pilota automatico, pur se sono alle prese con materiale levigatissimo e privo di qualsiasi asperità. Insomma, lasciando stare il proprio animo di metallari duri e puri, non possiamo che ammettere la capacità del gruppo di dare tutto se stesso e di superare ampiamente la propria versione di sé in studio di registrazione. Un’ora di live che crediamo abbia soddisfatto senza rimpianto alcuno i presenti.
PIERCE THE VEIL
Per chi segue non è semplice mantenere intatto il clima festaiolo venutosi a creare. Di tutto il carrozzone emo-core qui rappresentato, i Pierce The Veil sono i rappresentanti più navigati. I fratelli Fuentes, fondatori dopo lo split della loro creatura precedente, i Before Today, hanno messo a punto in oltre una decina d’anni una macchina affidabile, allenatissima sul fronte live. Non stiamo parlando di fuoriclasse, solo di una compagine che sta cavalcando da abile surfista l’ondata favorevole, sperando che non si abbassi tanto in fretta. E finora, anche come durata di certi trend, ai quattro le cose vanno benone! I gridolini femminei salgono di decibel, muraglie di smartphone si alzano sulle teste a immortalare l’entrata in scena, adeguatamente santificata da un fitto lancio di coriandoli bianchi. Il disordine di corpi cresce ulteriormente, mettendo in pericolo l’incolumità di chi – troppi, diciamolo apertamente – se ne stanno imbambolati con il rispettivo armamentario elettronico costantemente teso a catturare quel che accade sullo stage. A sentire le reazioni di chi abbiamo attorno, i Pierce The Veil offrono classici imprescindibili uno dietro l’altro, per la gioia di tutti i presenti: francamente, pur ammirando l’energica convinzione della band, il materiale appare molto schematico, inferiore alla diretta concorrenza degli Sleeping With Sirens, anche se mediamente più grintoso. Ci tocca ripeterci, affermando che dove non arriva la nobiltà contenutistica delle canzoni ci pensa la scioltezza con cui gli strumentisti padroneggiano la situazione. Difficile che i Pierce The Veil lascino il segno nella storia della musica ma, come mero prodotto d’intrattenimento, male non si comportano di certo.
EVERY TIME I DIE
In basso. Molto in basso nel programma. Ingiustamente, per la qualità della discografia e la fama di live band posseduta dal sacro fuoco. Eppure, la notorietà di chi arriva dopo non può che lasciare una sola mezzora, attorno alle sei del pomeriggio, agli Every Time I Die. La situazione non è di quelle che spingano a dar vita al concerto definitivo, ma quando si ha che fare con Keith Buckley e compagni non è il caso di aspettarsi un concerto ordinario. Un po’ come accade coi più giovani Cancer Bats, il combo di Buffalo è di quelli che su di un palco sa rinvigorire, aizzare la sua musica fino a farla diventare la cosa più spassosa, ruvida, implacabile vi sia al mondo, qualcosa da desiderare ardentemente e che si abbatta come una scure di enormi proporzioni sulle teste dei fan. Sludge, hardcore, punk, southern, teatralità, istintività allucinata, gli autori di “Low Teens” rimestano un calderone enorme e pieno di ingredienti, si muovono folli, disordinati ma sempre lucidi suggestionando e scaraventando mente e corpo in una danza a ritmi indiavolati. La forza dei singoli riff vincenti, l’elasticità della voce di Buckley e il suo carisma, l’untuosità pastosa della chitarra, il bastonare impulsivo della batteria, non sono doti che si possono semplicemente assimilare, bisogna averle dietro e alimentare costantemente. Difficile lasciare memorie indelebili quando si hanno così pochi minuti in dote; non è un problema degli Every Time I Die, capaci di dare senso a ogni istante trascorso sul palco come se in quel mentre si stesse compiendo un evento di portata incalcolabile. Appena dopo gli Architects, i migliori in campo dell’intero In.Fest.
MOTIONLESS IN WHITE
Le nubi ingrigiscono il cielo, decine di occhi guardano all’insù preoccupati, goccioloni nefasti iniziano a cadere, quando è il turno dei Motionless In White. I ponti gettati fra il metalcore delle origini e più ragionati tumulti gothic rock e industrial hanno ampliato la fan-base, mediando abilmente fra furbizia e un songwriting ispirato, che nelle collaborazioni con personaggi esterni alla line-up ha trovato preziosa linfa vitale. Dal vivo però gli ospiti non pesano, non vi sono più nemmeno le tastiere, visto che lo storico membro Joshua Balz non è stato più sostituito per quest’ultimo tour. Poco male, neanche c’è bisogno di puntare su una produzione vistosa – un largo fondale e nient’altro – e trucco di scena chissà quanto impattante; le canzoni funzionano così come sono, giovandosi tanto, questo sì, del carisma di Chris Cerulli. Issato sugli zatteroni, rivestito di uno scomodo, dato il clima caldo-umido, paio di pantaloni vinilici, il frontman ha in pugno la folla fin dalle prime battute. Si susseguono varie fasi ben distinte nella performance dei Motionless In White, i cui influssi si palesano manifesti senza irritare per rimandi che più evidenti non si potrebbe. Spazio allora a brani tetri e squadrati in avvio, che fungono quasi da riscaldamento per i plumbei omaggi mansoniani in divenire di lì a breve. L’audience, già ben disposta, si scalda ulteriormente quando i ritornelli si fanno corposi e seducenti, meglio ancora quando il gruppo infila qualche pezzo bruciante e ritmato che sarebbe potuto comparire negli ultimi dischi degli In Flames. Intanto la pioggia ha il buon animo di non tramutarsi in un abbondante acquazzone, così che quasi nessuno è costretto a rifugiarsi nelle zone coperte per non infradiciarsi. Concerto di sostanza, concreto e senza sbavature.
SUICIDE SILENCE
Grottesco. Non c’è altro modo di definire il clima venutosi a creare durante l’esibizione dei Suicide Silence. L’ultimo album ha rappresentato una tale cesura col passato da far collassare le vendite e inimicare buona parte di chi ha sempre seguito i deathcorer oggi capitanati alla voce da Eddie Hermida. Dal vivo, basta che risuonino le prime sgraziate vocals del frontman per scatenare risatine di scherno e un generale senso di fastidio in una fetta consistente dei presenti. Se per due giorni si sono scatenate rincorse forsennate e spintoni nel pit, i primi minuti del concerto dei Suicide Silence vedono piuttosto una sorta di ammutinamento collettivo, con dita medie rivolte rabbiosamente al palco, imitazioni dello screaming – effettivamente rivedibile – di Hermida, capannelli di persone che se la ghignavano l’un l’altro all’indirizzo di chi stava suonando. Durante gli estratti di “Suicide Silence”, per la verità ben suonati e, almeno dal vivo, aventi una resa dignitosa, viene quasi compassione per chi, nonostante tutto, quelle canzoni le ha composte e le propone fregandosene di cosa pensano i fan. Basta però riaffrontare il più rassicurante formulario deathcore, fatto di breakdown elefantiaci e pig-squeal rivoltanti, che si accende la psicosi motoria delle prime file e assistiamo nuovamente a una sana baraonda. I passaggi fra un genere e l’altro, bruschi e tesi a mantenere il piede in due scarpe, non permettono all’esibizione – iniziata in ritardo di quindici minuti e pertanto ridotta a una striminzita mezzora – di decollare, anche se nel complesso, se si dà una valutazione scevra di pregiudizi, i Suicide Silence non si inabissano nell’indecenza. Dovessimo appioppargli un voto, un sei pieno se lo sarebbero pure guadagnato.
OF MICE & MEN
Forse sarebbero stati meglio il primo giorno, gli Of Mice & Men, pesi piuma se paragonati a Suicide Silence e Architects, di cui rappresentano lo spartiacque. Negli Stati Uniti la formazione ha cavalcato l’immagine patinata che si è data, utilizzandola da volano per un successo non commisurato all’effettiva qualità della musica. Di recente gli autori di “Restoring Force”, il disco che gli ha donato vera popolarità nel 2013, hanno dovuto fare a meno del cantante Austin Carlile, afflitto da gravi problemi di salute, e sono rimasti in quattro. Ora il bassista Aaron Pauley si occupa della totalità delle parti vocali, eventualità che non comporta grandi penalizzazioni. Per quanto la costruzione dei pezzi sia abbastanza standardizzata, grinta e urgenza non fanno difetto. Per una realtà dal taglio mainstream, non è scontato attendersi una prestazione sudata e concisa come quella dell’In.Fest, dove divagazioni, discorsi, momenti di mero intrattenimento sono dosati con il contagocce. Il piglio hardcore dato alla propria proposta, debitrice del nu-metal d’annata, piace e scatena incessanti circle-pit. La mancanza di idee profonde presta il fianco all’insorgere della monotonia, tenuta a bada da un riffing sufficientemente teso, simil-thrash quando la band va molto su di giri. Il rumoreggiare più acceso su alcuni pezzi in scaletta ci dice bene sull’effettiva penetrazione nel mercato italiano: ci aspettavamo poco, gli Of Mice & Men invece non hanno affatto demeritato.
ARCHITECTS
Escono dal dramma, portandosi dentro il dolore, manifestandolo, ma non interrompendo una storia arrivata alle sue migliori espressioni di drammaticità e sensibilità proprio nelle opere più recenti. Gli Architects hanno vissuto una tragedia che mai si vorrebbe dover subire, insostenibile quando a esserne vittima è un ragazzo di soli ventotto anni, come Tom Searle nel momento della sua morte per cancro ad agosto 2016. Tre anni di lotta senza mai cedere di un millimetro, portando avanti l’attività della band fino all’ultimo istante di vita: i compagni si sono stretti l’un l’altro e hanno proseguito, omaggiando il loro amico in un’attività live intensa come era stato fino a quel giorno. Il raffinamento del suono, arrivato in particolare nell’ultimo “All Our Gods Have Abandoned Us” a coniugare soave tristezza a trivellazioni metalcore pungenti, induce tanti sentimenti assieme, che si accavallano e si trasformano nel dialogo reciproco. Quello che emerge, nel bombardamento di suoni pompati a dovere e nel piroettare di luci bianche a commento, è un’animosità pura e freschissima, che porta alle stelle la voglia del pubblico di dare alla band la sua forza. “Nihilist” rompe gli indugi, come uno sparo alla partenza di una gara fa scattare tendini, muscoli e menti, indicando la via per il disordine. Il pit si trasforma in una specie di cozzare di cavallette incapaci di stare ferme, sul palco i movimenti sono ridotti all’osso, salvo il contrarsi sofferto di Sam Carter. Con gli Architects vuoti e pieni s’intervallano bruschi, un moto incandescente si spezza, un’aria tentatrice blocca il respiro, un refrain anthemico scompare in un sussurro; Carter veicola i contraddittori moti interiori di decine di persone, che gli si accompagnano tonanti, in un effetto da brividi quando gli strumenti smettono di sferragliare per fugaci istanti. Gli abbondanti tributi a Searle servono a dare nuovo coraggio, preannunciando ripartenze ancora più ruggenti, orgogliose, piene di vitalità positiva. A esclusione di pecche sulle clean vocals, tendenzialmente rauche e non così adamantine come su disco, è difficile scorgere titubanze. Piuttosto, grazie anche a una setlist omogenea nella qualità e che non vede comparire episodi cerebrali, privi di qualche aggancio di facile presa, il concerto sale costantemente d’intensità, con il definitivo colpo di grazia rappresentato dalla tripletta “The Devil Is Near”-“Gravedigger”-“Naysayer” posta prima dell’encore. Chiusura per “A Match Made In Heaven” e “Gone With The Wind”, l’ultimo disco ha spadroneggiato in setlist, mentre nulla si è sentito degli album antecedenti “Daybreaker”. Non sappiamo se ascolteremo nuova musica dagli Architects in futuro, certamente dal vivo sanno ancora scatenare palpitazioni incontrollabili.
Setlist:
Nihilist
Deathwish
These Colours Don’t Run
Phantom Fear
Broken Cross
Gravity
Downfall
The Devil Is Near
Gravedigger
Naysayer
A Match Made in Heaven
Gone With the Wind