A cura di Marco Gallarati e Fabio Angeleri
A meno di due anni di distanza dalla loro ultima “scorreria” italiana, gli ex-ragazzi prodigio vichinghi, inventori del melodic death metal (e ultimamente del death nu-metal, secondo i detrattori…), scendono di nuovo nelle nostre assolate lande per mietere il loro consueto bottino di urla, pogo, headbanging e cori. Con alle spalle la recentissima uscita della loro ultima fatica, “Soundtrack To Your Escape”, gli In Flames portano il loro tour attraverso tutta l’Europa, trascinando nel loro ideale “carrozzone” (…o drakkar?) un equipaggio di tutto rispetto, composto da due band diversissime fra loro (e dagli stessi In Flames): i Caliban, giovane e promettente gruppo tedesco fra i pochi che stanno riuscendo a sfondare anche nell’ostica (specialmente per le band europee) e sovraffollata scena metal-core statunitense, e gli americani Devildriver, noti soprattutto per essere guidati dal “diavoletto” del loro monicker: Dez Fafara, carismatico e vistoso ex-frontman degli arcinoti (ed ormai “estinti”) nu-metaller Coal Chamber. La “solare” Milano, che accoglie In Flames e compagni di viaggio, nonché i due valorosi redattori di Metalitalia.com, è allegramente battuta da una pioggia dapprima fine e quasi rinfrescante, ma che all’ora dell’apertura dei cancelli dell’Alcatraz (alle 19, mentre l’orario indicato ufficialmente risaliva a ben un’ora e mezza prima…) ha fatto in tempo a trasformarsi in un torrenziale acquazzone degno dei mesi monsonici di un remoto paesucolo del Sud-Est asiatico. La folla fradicia e un po’ irritata si è quindi infine riversata nell’enorme capannone, il quale faticherà a riempirsi, vista la sua ragguardevole capienza. Tuttavia, al momento della leggermente tardiva apparizione del primo gruppo sul palco, centinaia di persone, che prima sembravano invisibili, o per lo meno ben nascoste, appaiono magicamente dal nulla e rapidamente si assiepano sotto lo stage, formando in fretta un compatto strato ansioso e sudato. E si va ad iniziare…
CALIBAN
L’entrata in scena del quintetto tedesco è degna di un gruppo headliner: un ben congegnato gioco di luci, fumogeni e musica introduttiva che creano un’azzeccata miscela di piacevole tensione ed aspettativa. Andy, il cantante, sfoggia un look molto trendy, nel perfetto stile dei più triti frontman nu-metal, con chioma laccata sparata in aria, camicetta scura abbottonata fino al mento, polsini neri ed accessori d’ordinanza, e già il popolo decisamente un po’ più metallaro tradizionalista (almeno la maggior parte) presente al concerto inizia a storcere un po’ il naso; i restanti componenti hanno invece un’apparenza più dimessa e “normale”. Ma quando i cinque iniziano a suonare i pregiudizi cadono rapidamente: Andy ha una voce veramente superba: tiratissimi, intonati e senza sbavature sono i suoi urli, supportati da un tappeto sonoro altrettanto efficace e solido; i ragazzi, a parte il singer, che si agita con le movenze ben studiate ma non eccessivamente da poser, degne di un frontman di notevole esperienza, sono poco mobili sul palco, ma il loro impegno dal vivo è davvero molto professionale e preciso. Le composizioni dei Caliban sono delle perle di un metal-core, con lontane e rispettose influenze di primi At The Gates e Slayer, molto coinvolgente e suonato in maniera impeccabile (e se dal vivo suonano così, in studio devono essere veramente dei mostri di bravura!), seppur alla lunga non originalissimo. La struttura dei loro brani è, in effetti, poco variabile: la prima parte del concerto è costituita da una selezione di pezzi del loro terzo e per ora ultimo album, “Shadow Hearts”, caratterizzati dall’introduzione nell’impianto vocale urlato e acuto di Andy di controcanti melodici di voce pulita, eseguiti dal primo chitarrista. Nella seconda parte i brani spaziano maggiormente fra il repertorio dei dischi precedenti (“A Small Boy And A Grey Heaven” e “Vent”) e il cantato clean sparisce del tutto, per lasciare spazio ai martellanti e dirompenti acuti di Andy, la cui tenuta vocale rimane, per i cospicui quaranta minuti di concerto, inappuntabile; l’unica pecca del singer compare nell’affrontare i toni più bassi, sui quali arranca leggermente, ma in realtà si tratta di un difetto veramente minimo; chitarre, basso e batteria sono anch’essi a tenuta eccezionale. Forse persino un po’ troppo tirato ed adrenalinico, lo stile dei Caliban non arriva tuttavia certo ad annoiare, ed anzi, la loro prestazione a questo live set ha costituito un’assai piacevole sorpresa (che ha creato in chi scrive non poca curiosità di indagare e conoscere meglio questa band), ed un’introduzione più che degna in preparazione dell’arrivo dei super-attesi In Flames. Ma prima di poter finalmente ascoltare i nostri nordici beniamini, ci tocca “incontrare” i Devildriver…
DEVILDRIVER
Dopo gli ottimi Caliban, a salire sul palco dell’Alcatraz sono gli americani Devildriver, il gruppo che vede alla voce l’ex-singer dei Coal Chamber, Dez Fafara, ed autore, nel 2003, di un buonissimo debut-album, mix riuscito di sonorità moderne e groovy, thrash violentissimo e accenni black. La prova dal vivo, diciamolo subito, non ha per niente soddisfatto le attese, mostrando un combo ancora poco affiatato e poco rodato, sebbene le capacità tecniche ci siano tutte, così come la qualità dei pezzi. A minare definitivamente l’esibizione del quintetto, si è aggiunta, come al solito, la pessima acustica dell’Alcatraz, unita ad un cattivo bilanciamento dei suoni: questa infelice combinazione ha reso i primi due brani, “Nothing’s Wrong?” ed il singolo “I Could Care Less”, ovvero quelli che avrebbero dovuto inaugurare il massacro infernale fra il pubblico, due caotiche ondate di ronzii metallici, miseramente supportati dalle grida di Fafara, totalmente oscurate dalla confusione chitarristica. Peccato davvero, perché le due canzoni sono valide e, nonostante un accettabile miglioramento con il trascorrere dei minuti e delle track, la situazione è rimasta la stessa per buona parte dello show. Sufficiente la presenza scenica e buona la prestazione tecnica, anche se la staticità di movimento è stata una costante della quasi mezz’ora di musica propostaci dai Devildriver; Fafara ha gigioneggiato abbastanza con il pubblico, senza però ottenere ampi responsi, e a poco sono valse le movenze schizofreniche e possedute del suo modo di cantare; nessuna cover dei Coal Chamber, come il sottoscritto temeva, è stata eseguita, mentre “The Mountain” e la conclusiva “Meet The Wretched” hanno confermato la loro bontà. Insomma, prestazione mediocre (un plauso particolare va però al bassista, profusosi in un headbanging estremo ed esaltato!) e gruppo assolutamente da rivedere in sede live. Assegniamo loro il premio “Band Delusione della Serata” e ci chiediamo: hanno suonato meno tempo, peggio e con meno successo dei Caliban…e farli suonare prima dei tedeschi, no? Ah, la Roadrunner…
IN FLAMES
E se proprio delusione non è stata, la performance degli In Flames ci è comunque passata molto vicino: la band svedese, di fronte ad un fedele e numeroso pubblico, ha sfoderato una prestazione sì convincente, soprattutto se si pensa all’entusiastico apporto dell’audience, ma che non ha potuto fare a meno di lasciare l’amaro in bocca ai vostri baldi inviati. Non per essere ripetitivi, ma l’aspetto acustico dello show è stato ancora una volta determinante, in quanto la voce di Anders Fridèn andava e veniva che è stato un piacere, vuoi per i moltissimi effetti vocali pre-registrati che sono stati utilizzati, vuoi perché il cantante non era in una delle serate migliori (il singer dei Caliban, d’altronde, era difficilmente battibile…); l’apporto dei due chitarristi, Jesper Stromblad e Bjorn Gelotte, è stato preciso e puntuale, esclusi gli assoli di Gelotte, un vero pugno nello stomaco, anche se la coppia dà sempre l’impressione di limitarsi ad eseguire lo stretto necessario; fortuna per gli In Flames è avere un ottimo bassista, di peso e presenza scenica invidiabili, come Peter Iwers, ed un metronomo umano dietro le pelli, quale è Daniel Svensson, entrambi bravissimi e veri motori dello show. Anders, comunque, nonostante i limiti tecnici, ha confermato di essere un frontman umile, disponibile, mai sopra le righe e, principalmente, simpatico…il tono metallico dello spettacolo è scaduto solo in un’occasione, ovvero nel momento in cui, prima dell’esecuzione di “Square Nothing”, è stato chiesto ai presenti di accendere gli accendini, manco la song fosse “Nothing Else Matters”! Il gruppo ha anche utilizzato la coinvolgente “Only For The Weak” per registrare alcuni momenti di euforia collettiva, i quali, se l’entourage della band riterrà il concerto milanese uno dei migliori del tour, verranno inseriti in un DVD in fase di preparazione. Diciamo, però, che la setlist ha scontentato alquanto, ma era prevedibile, i fan di più vecchia data, dato che la band ha trascurato totalmente sia il suo album di maggior fama e successo (musicale), “The Jester Race”, sia quella che è una delle canzoni più belle da essa mai composta, “Jotun”: il concerto si è aperto con “Dead Alone” e, attraverso i primi pezzi, si può dire che i cinque abbiano voluto presentarsi, tramite la riproposizione di un brano per album, eseguendo “Pinball Map”, “System”, “Embody The Invisible” ed “Episode 666” (guarda caso, accolta da un boato). Poi si sono susseguite tutte le altre, fra le quali segnaliamo l’ottima risposta ottenuta da “Trigger”, “Colony”, “Cloud Connected” e la memorabile “Behind Space”; non sono mancate, ovviamente, neanche il nuovo singolo, “The Quiet Place”, “Clayman” e “Gyroscope”. Gli In Flames non hanno concesso bis e hanno chiuso con “My Sweet Shadow”, per un’ora e mezza di spettacolo coreograficamente sobrio, anche se pieno di luci. La parte del leone l’ha fatta “Soundtrack To Your Escape”, senza dubbio, ed è proprio questo il punto debole dello show assistito all’Alcatraz: i pezzi vecchi sono quelli che la band esegue meglio, c’è poco da fare…inoltre, altra pecca della band in sede live è l’essere troppo prevedibile, in quanto sarebbe davvero bello assistere a qualche sorpresa, ogni tanto…ad esempio, l’esecuzione di brani strumentali potrebbe far aumentare moltissimo il tasso di gradimento dello show (magari senza arrivare fino a “Dreamscape”, ma la famosa “Dialogue With The Stars” potrebbero sprecarsi a farla!). L’audience ha comunque apprezzato parecchio, incitando l’act scandinavo con ripetuti cori da stadio. Riassumendo tutta la pappardella in un’unica frase: acustica traballante permettendo, il compitino è stato svolto con dedizione ed impegno, anche se la totale assenza di fantasia ha reso il tutto troppo “confezionato”. Prontissimi per l’America. Quasi come sono stati prontissimi i baldi redattori di cui sopra a beccarsi in pieno il Diluvio Universale…via di corsa a casa!!