Foto di Riccardo Plata
Quasi tre mesi e mezzo, dal 12 luglio al 21 ottobre: tanto ci è voluto agli In Flames per farsi perdonare la misera figuraccia messa in piedi in quel del secondo (grandinante) giorno dell’Evolution 2008, quando, alla criticabile ma comprensibile decisione del tour manager di annullare l’esibizione dei propri protetti, era seguita poi l’indisponente ed antipatica scelta del gruppo di non mettere piede on stage neanche un micro-secondo almeno per salutare i tanti fan lì presenti principalmente per loro. Non vogliamo tornare su polemiche già abbastanza affievolitesi col tempo, ma sta di fatto che Anders Fridén e soci, in questa unica data italiana del loro nuovo tour europeo, avevano parecchie cosucce da aggiustare e risollevare. ‘Ce l’hanno fatta?’, vi chiederete voi: ebbene, a giudicare dal successo ottenuto e dalle ovazioni tributate dal pubblico dell’Alcatraz, si direbbe proprio di sì; però, dopo un’analisi più attenta della performance e, soprattutto, della scaletta, qualche dubbio negli ascoltatori di vecchio pelo avrà cominciato presto a serpeggiare. Ma andiamo con calma ed occupiamoci prima degli stucchevoli opener Sonic Syndicate – miracolati dalla Nuclear Blast – e degli ottimi francesi Gojira, band in ascesa verticale nonostante la scarsa immediatezza della sua proposta. A voi…
SONIC SYNDICATE
Sono le 19 spaccate quando, con puntualità svedese, i Sonic Syndicate si presentano sul palco di un già discretamente gremito Alcatraz. Forte di un look a metà strada tra WWE (i due cantanti sembrano i sosia di John Cena!) e MTV (i chitarristi paiono i cugini poveri dei Tokio Hotel e la bassista Karin, nonostante l’insolita acconciatura da maschiaccio, si conferma come una Avril Lavigne ‘de noartri’), la band dei fratelli Sjunnesson presenta nella mezz’ora a sua disposizione i migliori estratti dei due album finora pubblicati, ovvero il discreto “Only Inhuman” e il più scontato “Love and Other Disasters”. Inutile ribadire in questa sede come gli spartiti dei due summenzionati dischi non rientrino nel novero delle composizioni da tramandare ai posteri, ma ciò non toglie che il modern metal proposto dal sestetto abbia, anche in sede live, tutte le carte in regola per intrattenere piacevolmente gli astanti, come puntualmente avviene durante l’esecuzione delle varie “Afterneath” o “Jack of Diamonds”. Purtroppo però, dopo solo una manciata di pezzi, la puzza di plastica bruciata inizia a prendere il sopravvento: se la colpa sia di chi sedeva dietro il mixer o dei musicisti sopra il palco non ci è dato saperlo, fatto sta che nella seconda metà dello show abbiamo assistito ad una prestazione per certi versi imbarazzante, culminata nella proposizione di una irriconoscibile “Psychic Suicide” e nei tentativi (miseramente falliti) dei due pompatissimi singer di dare vita ad un incompiuto circle-pit. Ogni confronto con chi ha suonato dopo di loro sarebbe quanto mai impietoso, ma, anche limitandosi a quanto da loro stessi proposto su disco, l’impressione è che i nostri farebbero bene a dedicare meno tempo alla palestra e al parrucchiere – Karin esclusa, of course – riponendo viceversa maggior cura nello studio dei propri strumenti. Rimandati.
GOJIRA
Dopo la parentesi piuttosto insignificante dei Sonic Syndicate, si inizia a fare sul serio con i francesi Gojira, per la prima volta in concerto nel Belpaese, come il buon Joe Duplantier ci ricorda dopo i primi minuti di show. Il nuovissimo “The Way Of All Flesh” è uscito da pochi giorni e, sebbene molti lo conoscano già a menadito in ‘versione gratuita’, ancora necessita di tempo e ascolti per fare definitivamente breccia nel grande pubblico: preceduta da un’intro effettata ad evidenziare le luci illuminanti la fredda sagoma scheletrica della cover del disco, l’opener “Oroborus” ha lasciato spiazzata la maggior parte dell’audience, grazie al suo death metal tecnico, groovy e dalle melodie ipnotiche e psichedeliche. Suoni impastati e cacofonici certo non hanno aiutato i Gojira e soprattutto la voce di Joe è stata a tratti poco udibile e troppo confusa con il muro di suono degli strumenti. Comunque sia – esclusi questi problemi, peraltro comuni anche alle altre performance della serata – i ragazzi sono andati in crescendo e sono riusciti a coinvolgere gli astanti delle prime file in un sufficiente mosh, in primis durante l’esecuzione della massacrante “Backbone” e in secundis all’altezza della chiusura affidata a “The Heaviest Matter Of The Universe”. “Vacuity” e “Toxic Garbage Island” sono stati fra gli episodi più riusciti ed intricati di uno spettacolo appagante e più che discreto, che ha avuto tempo anche per un (evitabile?) assolo di Mario Duplantier alle pelli: la formazione transalpina può certo non piacere, soprattutto se vista dal vivo senza conoscerne la musica, ma la sua originalità e la sua bravura sono sotto l’occhio di tutti. Dunque possiamo dirlo: buona la prima! Avanti così.
IN FLAMES
Ed eccoci quindi agli In Flames, la grande attrazione della serata. La prima considerazione che ci é balzata in mente, a caldo ma anche a freddo, riguardo lo show della sensation di Goteborg: la band ha chiaramente deciso di mettere in secondo piano l’esecuzione tecnica per dare spazio ad uno spettacolo coreografico di altissimo livello, degno di americanate o giapponesate di serie A, con tanto di: a) passerella sopra la batteria, per la verità usata con fin troppa parsimonia; b) impianto scenico/elettronico carico di giochi di luce ed effetti spettacolari, che da solo è stato in grado di affascinare parecchi spettatori; c) in un paio di canzoni, fra le quali la nuova hit “Alias”, è comparso pure – ahinoi – una specie di karaoke per far cantare a tutto il pubblico il chorus; d) l’idea discutibile di abbassare le luci venti minuti prima del concerto e far partire un’intro estenuante, tutto per far salire l’attesa in modo spasmodico, ogni sguardo in direzione di quell’atipico telone bianco coprente il palco; e) la finalmente eccezionale idea di partire con l’esecuzione di “The Chosen Pessimist” suonata dietro il succitato telone e con dei giochi di ombre emozionanti e davvero belli. Ora, il discorso è che l’insieme delle trovate appena descritte può soggettivamente valere il prezzo del biglietto e certamente è stato un piacere a livello visivo…ma i padiglioni auricolari? Loro hanno goduto? Ecco, allora diciamo che gli In Flames ci avevano soddisfatto molto di più due anni fa, sia con Sepultura e Dagoba che di supporto agli Slayer: tralasciando i suoni insufficienti – ricordiamo che all’Evolution l’audio era degno dei festival europei, un peccato in più per non averli potuti sentire al tempo! – ciò che non ci ha esaltato più di tanto è stata la scelta della setlist, peraltro davvero corposa: un concerto in definitiva carico di pezzi lenti, con pochi rimandi alla violenza primordiale dei tempi andati; verissimo che Jesper & Co. hanno presentato almeno tre-quattro brani non eseguiti da anni (“Zombie Inc.”, “The Hive”, “Satellites And Astronauts”), ma le alternative fra cui scegliere ci sembra potevano essere migliori; l’atteso medley vecchio stampo tra “Dead God In Me” e “The Jester Race” (con gli ultimi secondi rubati a “Behind Space”) ha avuto l’effetto di castrare due canzoni stupende e meritevoli di esecuzione completa, per poi magari esser costretti ad ascoltare in toto una assolutamente anonima “Vanishing Light”… Insomma, tutto sommato si è trattato di una scaletta abbastanza ardita, in una serata in cui ci si aspettava un alto numero di classici per ‘espiare la colpa’ di luglio; invece niente “Only For The Weak”, niente “Embody The Invisible”, niente “Episode 666”. Nulla da dire, al contrario, sui pezzi più recenti della discografia dei ragazzi, soprattutto quelli dell’ottimo “A Sense Of Purpose”, tutti molto adatti alla presa live e aventi buonissimo impatto sul pubblico. Un Anders molto loquace – probabilmente a causa di qualche birra in più del dovuto – ha ormai imparato alla perfezione il ruolo di frontman, in grado di interagire con l’audience con scioltezza sebbene non dotato di simpatia allo stato brado. Gli altri ragazzi hanno concesso poco allo spettacolo, come al solito, impegnati sui loro strumenti e poco avvezzi a lasciarsi andare. Le apoteosi di “The Quiet Place”, “Trigger” e “Take This Life” – fautrice infine di un pogo violento! – hanno chiuso un concerto bellissimo per gli occhi, un po’ meno per le orecchie. Probabilmente li abbiamo visionati fin troppe volte e preferiamo più arrosto a così tanto fumo, comunque nulla toglie agli In Flames il loro ruolo di primaria importanza nell’universo metal odierno.