Introduzione a cura di Davide Romagnoli
Report a cura di Giovanni Mascherpa
Fotografie di Bianca Saviane
An evening with In Flames. Ed è proprio così che si inquadra una serata fatta di ‘siparietti’, di poltrone, di chiacchiericci, di live paintin’, di piccole chicche e, soprattutto, di canzoni a base della band svedese. Il Teatro dal Verme si offre come cornice alquanto stravagante per una band come gli In Flames, che non ha mai offerto in sede discografica un prodotto che potesse essere abbinato ad un contesto di questo tipo. Molte erano infatti le perplessità e, parallelamente, anche enorme la curiosità che viaggiava parallela all’avvento nel Belpaese della band di Fridén e soci. La suggestione della cornice -e della produzione- non lascia scampo e proietta l’evento in quel che può tranquillamente essere definita la situazione perfetta per i fan di qualsiasi band, con l’opportunità di interagire (a voce ma anche prendendo parte ad alcune delle fasi del concerto: ricordiamo l’invito di Fridén a salire sul palco per prendersi una birra dal frigobar) e quella di sentire suoni degni di un certo tipo di cura e intensità, corredati da un impianto scenico di tutto rispetto. Per quanto riguarda il materiale portato ‘in scena’, restano però alcuni dubbi sull’effettiva resa del gruppo, soprattutto per quanto riguarda alcune decisioni che, dalla setlist ad alcune scelte stilistiche, hanno lasciato un po’ di amaro in bocca e non hanno permesso a quel che di ottimo è stato presentato di avere la totalità di consenso per il giudizio finale.
Per questo tour così speciale, gli In Flames hanno deciso di tenere il piede in parecchie staffe, andando sul sicuro per il grosso del minutaggio, riproponendo loro stessi nella usuale conformazione, senza riarrangiamenti o particolari espedienti atti a segnalare la diversità dell’esibizione; in parte, si è affidata al prezioso contributo di strumenti ad arco, vale a dire due violini, violoncello e contrabbasso; infine, nella porzione meno riuscita e più discutibile, ha frequentato una dimensione semi-acustica inframmezzata da pause di cabaret di dubbio gusto. L’apertura è stata affidata a un medley di brani di repertorio suonati interamente dai musicisti classici. Un rincorrersi di motivi noti amalgamati in modo frizzante, tenendo un ritmo brioso che ha scatenato i primi battimani fra il pubblico. La successiva apparizione della band è stata salutata quasi immediatamente dall’alzata in piedi di quasi tutti i presenti, per fortuna non richiamati dalle maschere del Dal Verme. La prima manciata di canzoni è trascorsa secondo un canovaccio tradizionale, che ha visto gli In Flames alternare furbescamente il materiale quasi radiofonico dell’ultimissimo periodo a tuffi nel passato mediano e preistorico. Si è notato dall’accoglienza che un discreto numero dei paganti, soprattutto gli under-30, non ha affatto disdegnato le mosse recenti degli svedesi, e ha plaudito entusiasta agli estratti di “Battles” (“Before I Fall”) e “Sounds Of A Playground Fading” (“All For Me”). Anche se le note di “Moonshield” e “The Jester’s Dance” sono quelle che hanno veramente messo d’accordo tutti, prima del mega-hit “Only For The Weak”. E’ apparso evidente, nonostante una resa strumentale discreta, quanto la formazione abbia perso un’enormità d’impatto in tempi recenti e che anche gli episodi più datati soffrano in sede live di un approccio nettamente più mansueto di quanto si poteva ammirare fino al primo decennio degli anni 2000. Il dato peggiore rimane l’afonia di Fridén sul growl, ormai poco più di un’ipotesi. Staccata momentaneamente la spina, tutti i musicisti sono andati a sedersi dalle parti del divano posto in un angolo dello stage, mentre alle spalle proseguiva a dipingere Mark Kowalchuk, artista impegnato ogni sera della tournée a comporre un quadro ex novo, partendo dalla tela bianca e chiudendo l’opera nell’arco del concerto. Veniva allora invitato a sedersi in mezzo agli artisti un ragazzo preso fra il pubblico, a cui sarebbero seguiti la sua ragazza e un altro amico. Premesso che il clima goliardico venutosi a creare e gli scambi di battute fra membri del gruppo e spettatori sono sembrati divertire la maggioranza dei presenti, ci è sembrato francamente assurdo disquisire frivolamente per oltre mezz’ora, mentre alcuni andavano a stringere le mani ai musicisti, altri si facevano un selfie, a qualcun altro veniva offerta della birra dal frigobar. Ah, giusto, ci sarebbero stati anche alcuni pezzi suonati con le sole chitarre acustiche e voce: poca roba, tanto per essere chiari. Un po’ perché gli In Flames non hanno provveduto a un vero riarrangiamento dei brani proposti, un po’ perché la presenza di basi registrate di batteria ed effetti elettronici andava quasi a coprire le chitarre. Per non parlare di Fridén, incapace di dare il benché minimo graffio emotivo. Soprassediamo da ogni ulteriore valutazione sulla cover di “Hurt” dei Nine Inch Nails… Per fortuna le sorti del concerto sono risalite con la ricomparsa degli archi per una buona “Through Oblivion”, mentre “Dawn Of A New Day” è arrivata e se n’è andata senza sussulti. Nettamente meglio ci è sembrata la verve immessa nell’ultima infilata di canzoni, suonate con una foga anche superiore a quella iniziale. Attorno a una dirompente “The Quiet Place” hanno ben impressionato “Cloud Connected” e “Come Clarity”, tutta la fase finale è stata inondata di un’energia dosata con parsimonia in precedenza. È andato meglio pure Fridèn, che se ormai ‘vanta’ uno stage acting incerto pari a quello di un professorino timido, almeno ha rispolverato un briciolo della potenza vocale perduta. Infine, è riuscita assai bene la fusione extreme metal-sinfonia di “Wallflower”, che ha visto unirsi i due mondi in emulsioni armoniche finalmente a livelli d’eccellenza. Abbiamo avuto quindi alti e bassi nella serata teatrale, dove i primi hanno saputo riportare alla dignità una performance che, nelle sue parentesi meno convenzionali, non ci ha comunicato molto e ha dato l’impressione che il lavoro per allestire lo spettacolo sia stato sotto alcuni aspetti lacunoso.