A cura di Giovanni Mascherpa
Transitati a febbraio di supporto ai Behemoth, gli In Solitude ritornano in Italia finalmente in posizione da headliner, forti di un portentoso terzo album, “Sister”, che ha sdoganato anche al di fuori del circuito classic metal il nome degli svedesi; le gettate di darkwave e occult rock nel consolidato stile orrorifico fra Mercyful Fate e NWOBHM, presenti a livello melodico e ritmico, oltre che come espediente rintracciabile a livello subliminale un po’ ovunque nel lavoro, hanno fatto schizzare alle stelle le quotazioni dei giovani musicisti di Uppsala. L’interesse per la data è molto alto anche in considerazione di chi è stato messo come secondo violino, ossia i Beastmilk, autori nel 2013 dello stupefacente “Climax”, compendio brillantissimo di post-punk, gothic rock e darkwave con iniezioni di chitarre orgogliosamente metal. Mancano all’appello gli Obnoxious Youth, altro ibrido finnico/svedese di hardcore, metal e punk, costretti a cancellare la partecipazione al tour a causa di non meglio precisati motivi. Si è comunque unito al carrozzone il cantante Daniel Bay, che nell’occasione si presta a un set per sola voce e chitarra distante dal contesto della serata, ma assolutamente piacevole e ben fatto. Il Nostro si esibisce in apertura, con quattro canzoni struggenti, dal romantico feeling cantautorale, strappando applausi non di mera cortesia ai pochi presenti, grazie a un invidiabile tatto e a una voce pastosa che non lascia indifferenti soprattutto gli animi più inclini alla commozione. Special guest della data milanese, direttamente dal cimitero abbandonato più vicino a casa vostra, i genovesi Abysmal Grief, icona del dark sound italiano mai abbastanza celebrata e garanzia di qualità sia per quanto riguarda la veste sonora, sia per la grande attenzione all’aspetto visuale, che rende ogni spettacolo dei quattro un’esperienza fuori dal comune. Finito il breve set di Bay, dopo aver adornato il palco con quanto serve per farlo diventare una piccola cappella sconsacrata, gli Abysmal Grief possono farci iniziare il viaggio tra le tombe.
ABYSMAL GRIEF
Odoriamo sempre con piacere un po’ di incenso prima e durante un concerto, lo consideriamo un abbellimento sensoriale importante quando si vanno a evocare le forze dell’oscurità. Nel caso degli Abysmal Grief, si gioca pesante da questo punto di vista – o meglio, di annusata – e sembra di immergersi in una di quelle processioni religiose di una volta, ancora in uso in alcuni paesi e colme di una sacralità sovraccarica di simboli e credenze. Gli Abysmal Grief riescono ad essere più enfatici e lugubri, in senso quasi caricaturale, di Death SS e Mortuary Drape, toccando le vette sepolcrali di Paul Chain e accarezzando la singolarità di The Black. Due enormi croci campeggiano ai lati della batteria, le tastiere organistiche di Labes C. Necrothytus troneggiano tra i monitor e un mazzo di fiori, gettato a ricordo di un ignoto caro estinto, rimane sciattamente deposto a terra. Levato il cappello e tracciata una croce nell’aria, il frontman può dare vita al supplizio e alla contemplazione della marcescenza di carni a cui gli Abysmal Grief dedicano dagli esordi la propria esistenza. Fumo, tanto fumo, impenetrabile, quasi nasconde alla vista i componenti del gruppo, concentrati sulla musica e per nulla interessati a mosse e comportamenti che possano accattivare l’audience. Non ve ne sarebbe bisogno, tra l’altro. Basta e avanza il sonoro, tracciato da riff zanzarosi e gotici all’ennesima potenza, che sfociano nella licantropia grazie al cantato fra l’istericamente dissacrante e il simil-baritonale di Labes C. Necrothytus, perno di ogni canzone con le sue sviolinate ecclesiastiche tramutate in soundtrack sabbatica. Vediamo danzare anime e scheletri dinnanzi ai nostri occhi, l’afrore di fiori appassiti mescolarsi all’incenso, le fiaccole ardenti e fameliche di ossigeno, per non lasciare all’uomo più alcuna possibilità di respiro. Una sezione ritmica invasata e fantasiosa consente una fruibilità immediata e avvincente a tutti i pezzi in scaletta, con un po’ di sentimento garantito dal solismo Seventies di Lord Alastair. Il set è seguito in religioso silenzio, consapevoli che una liturgia vada officiata senza frapporre interruzioni o segnali che possano smorzarne la sacralità. Sia mai! “Fear Of Profanation” dei Death SS viene resa ancora più inquietante dell’originale, in questo campo gli Abysmal Grief non hanno timori reverenziali verso nessuno e conducono in porto un concerto decisamente all’altezza del contesto in cui sono stati chiamati ad operare. Poi prendono i loro feretri, pardon, l’armamentario di scena, e se ne vanno.
BEASTMILK
Attesi quasi quanto gli headliner, i Beastmilk sono riusciti a irretire il pubblico metal giocando sui suoi istinti reconditi, quelli che portano anche i più duri e ruvidi ascoltatori a sciogliersi di fronte a temi darkeggianti e giri oscuri ma diretti. D’altronde Cure, Joy Division e Sisters Of Mercy non sono esattamente sul libro nero degli ascolti proibiti, a parte che per i metaller dalle vedute più ristrette, e se una band si permette di rinforzare certe coordinate con un approccio un minimo più muscolare, tanto meglio, perchè l’hype sarà con ogni probabilità assicurato. Un compito facile a descriverlo, difficile da mettersi in pratica. Le incognite intrise in una formula di questo tipo sono state però superate con estro disarmante dai Beastmilk, ora pronti ad un’altra strage di consensi al battesimo del fuoco dei palchi europei. L’avvio fa resuscitare i morti, quelli di cui gli Abysmal Grief hanno ampiamente trattato fino a un attimo prima e che ora sono vivi e vegeti per farsi scaldare le vene da Kvohst e compagni. Portatisi il proprio fonico per tenere in bolla le delicate interazioni che la loro musica comporta, i Nostri fanno i conti con volumi molto spinti, che sporcano le disarmanti melodie chitarristiche ma danno un’impronta ancora più killer a canzoni nate per diventare hit immortali. Lo stage-acting è quello della band già pronta e baldanzosa per difendersi in qualsiasi contesto, ogni musicista si sbatte come un disperato e vaga per lo stage in preda all’euforia, creando un adrenalinico caos organizzato. Kvohst cerca di reggere l’urto delle note alte coprendo col mestiere quei vocalizzi più difficili da riprodurre, ma dobbiamo dire che dopo la prima accoppiata di pezzi prende molta sicurezza e diventa irresistibile e sfrenato, proponendosi spesso e volentieri a bordo palco con modi aggressivi, a cercare il contatto col pubblico. Il set è un’inesauribile miniera di diamanti, dove facciamo una fatica terribile a identificare un momento più brillante degli altri. Ogni attacco è da pelle d’oca, ogni stacco è conosciuto a memoria e oramai oggetto di idolatria pleonastica: non fai in tempo a pensare di avere sentito la canzone perfetta, che alla successiva i Beastmilk si superano ulteriormente, e ti stendono. “You Are Now Under Our Control”, recita il piccolo e tarantolato cantante, ed è immensamente vero: siamo soggiogati, stupefatti, in balia di quello che arriva dal palco come marionette condotte da un’entità esterna. Arcobaleni di tentazioni, fili invisibili che tirano verso una bellezza sonora inattaccabile, stringono d’assedio nelle portentose “Death Reflect Us”, “Surf The Apocalypse”, “Fear Your Mind”. “Children Of The Atom Bomb” incendia col fuoco definitivo dell’apocalisse imminente, mentre “Nuclear Winter” è tanto tragica quanto poetica e sregolata come una festa senza freni inibitori a pochi secondi dall’armageddon. Sentimento, vibrazioni dal profondo di un animo tenebroso e anelante il soffio vitale che lo liberi dalle catene del grigiore, l’irrequietezza di chi vorrebbe ribaltare il mondo con due note; c’è un’energia non misurabile nei Beastmilk, una centrale nucleare di rock dannato e ammaliatore. “Climax”, in ordine sparso, è ovviamente suonato quasi per intero e l’ultimo tassello viene posto proprio dalla sua traccia meno scomposta e più palpitante: “Love In A Cold World” è il fuoco acceso nel cuore quando attorno il ghiaccio dell’indecenza e della bruttezza sta uccidendo tutto quanto. Poi arrivano i Beastmilk, e trionfa nuovamente la vita.
IN SOLITUDE
Chi scrive ha visto gli In Solitude esibirsi poco più di tre mesi fa. Una prestazione decisamente convincente in quel di Clisson, dove è un attimo tremare al cospetto della sequela di giganti che vanno in scena uno dietro l’altro sui diversi palchi dell’Hellfest. Nell’occasione avevamo apprezzato la maturità dei cinque nel vivere il concerto, la scioltezza con cui avevano stregato un’audience provata dai primi due giorni e ancora in fase di riscaldamento – era circa l’una del pomeriggio – attingendo al serbatoio praticamente senza fondo dell’ultima fatica in studio. Ora, cosa può succedere in tre mesi? Semplicemente, gli In Solitude sono diventati ancora più cattivi, convinti di quello che sanno fare e governano l’estro creativo di cui Madre Natura li ha dotati con il perfetto mix di esuberanza giovanile e maturità da uomini di mondo. Come per gli Abysmal Grief, un po’ di fragrante incenso viene sparso per l’aere e tre bei mazzi di fiori bianchi – vorremmo dirvi esattamente che fiori sono, ma le conoscenze in botanica dello scrivente sono al livello di un uomo delle caverne – campeggiano sulla batteria. Le luci si abbassano, arrivando a toglierci una chiara visuale di chi abbiamo davanti, anche se siamo a pochi centimetri dalla band: crediamo che anche questa scelta risponda all’esigenza di intrappolarsi del tutto nell’oscurità, senza correre alcun rischio di rivedere la luce. “Death Knows Where” è un’apertura ideale per mettere a proprio agio l’audience e portarla nel regno di fantasmi in cui naviga di questi tempi il gruppo. L’incipit tiene il piede in due scarpe, essendo probabilmente il pezzo di “Sister” che più si avvicina al materiale dei primi due lavori, pur facendo intravedere i presagi occult rock e post-punk che rappresentano il centro focale dell’ultimo disco. Notiamo immediatamente un accresciuto contributo vocale di Gottfrid Åhman e Henrik Palm, che sembrano aver trovato maggiore confidenza col ruolo di seconde voci e assecondano e sostituiscono molto bene, quando di loro competenza, il buon Pelle Åhman nelle incombenze vocali. Costui, il tassello più delicato del mosaico a causa di corde vocali ideali per la proposta ma un po’ deboli e con poca estensione, ha imparato dagli errori del passato e, pur non sfavillando come gli altri membri della formazione, non ha più impicci particolari nel portare a termine la missione affidatagli. “Witches Sabbath” è incalzante come l’abbiamo presente nella versione in studio, e a questo punto il pubblico – sessanta/settanta persone circa, speravamo meglio – è in temperatura e rassicurato sullo stato di salute del gruppo. Da qui si sale di livello e, pur conoscendo la bontà dell’ultima fatica, che sarà riproposta per intero, con la sola eccezione di “Pallid Hands”, rimaniamo a più riprese di stucco per la ferocia, la precisione e il feeling sinistro che si viene ad instaurare. L’attacco alla The Devil’s Blood di “Lavender” è micidiale e fa il paio con la focosa cavalcata che ne consegue; imbevuta di tonalità orrorifiche, si interrompe e riparte in corrispondenza del giro iniziale, mettendo in mostra un Pelle molto a suo agio sul rabbioso cantato, più da vecchio rocker che da moderno singer heavy metal. Melodie dark e un drumming quasi esitante nell’affondare i colpi, uniti alla prestazione sofferta del singer, conferiscono una soffusa aura maledetta a “A Buried Sun”, anch’essa pressoché impeccabile e suonata con carica tracimante. “Demons” è l’unico frangente in cui Pelle va in apnea, non è un mistero che il cantato maggiormente classic metal di “In Solitude” e “The World. The Flesh. The Devil” lo metta un po’ in croce sulle note alte, anche se di certo il singer non combina disastri nemmeno qui e il pezzo, trascinante ed esuberante come ci immaginiamo debba essere una scorreria demoniaca, va in archivio in maniera comunque convincente. “Jesus I Betong” è la chicca inaspettata: trattasi di una cover della formazione post-punk svedese Cortex, presente sul singolo in 7’’ di “Lavender”, e cantata in lingua madre. Visti le attuali predilezioni degli In Solitude, confessiamo senza pudori di non esserci nemmeno accorti che fosse un pezzo altrui, ma di averlo scoperto ex post ricontrollando la scaletta. “Sister”, apparsa appena dopo, è la prova suprema di cosa sappiano combinare oggigiorno gli In Solitude: sezione ritmica dal magnetico groove darkwave, un affilato riff portante che vizia e possiede, una tensione brumosa e una coralità eterea ma andata a male, come quella di angeli caduti in procinto di strapparti l’anima. L’oscurità non si può vincere, meglio abbandonarsi ad essa senza ritegno, ci suggeriscono gli svedesi. “Inmost Nigredo” e “Horses In The Ground” non calano in intensità, semmai vedono la band ergersi compatta in tutta la sua forza, focosa e rabbiosa come un act extreme metal. La vicinanza concettuale e umana con Watain e Tribulation, con cui hanno condiviso un tour nordamericano, ha tolto ogni timidezza ai cinque. “He Comes”, dopo una miriade di accostamenti ricchi di sensazioni variegate e preziosi intarsi, riconduce la musica al suo scheletro primordiale; il tocco folk è sottolineato dalla vocalità rappacificata di Pelle e da un tocco quasi esitante degli altri strumentisti, che tutti insieme vanno a comporre un quadretto meno espansivo e stupefacente di altri ma contraddistinto dalla stessa, accecante, maestria. Un saluto veloce, nessun bis, ed è di nuovo silenzio. Tra le giovani leve del classic metal, in pochi possono stare allo stesso livello.
Setlist:
Death Knows Where
Witches Sabbath
Lavender
A Buried Sun
Demons
Jesus I Betong
Sister
Inmost Nigredo
Horses In The Ground
He Comes