A cura di Claudio Luciani
Stavolta non ce n’è per nessuno e non certo per demerito delle altre band presenti: gli Incantation imprigionano nelle tele asfissianti dei loro incubi tutti gli ardimentosi che hanno osato affrontarli a viso aperto, durante la fredda serata del 22 novembre a Calenzano (FI). Per quanto non avessimo assolutamente dubbi sulla profonda preparazione ed esperienza di questi negromanti statunitensi, siamo comunque rimasti stupefatti di fronte alla loro prestazione, rara manifestazione di coesione, forza e capacità che ha trasfigurato il Cycle Club in un girone dantesco: è dunque con quest’occhio, divertito, che vi racconteremo come è andata (senza dimenticarci del gradevole aftershow tenutosi dopo il concerto “ufficiale”).
SURVIVE
Ad aprire ci sono i giapponesi Survive che, dall’incipit dei pezzi, si pongono come combo thrash d’assalto, memore della ferocia degli Slayer; peccato che, poi, si lascino andare a necessità di “tenerezze” e comincino ad inanellare una serie imbarazzante di ritornelli melodici, stando l’imbarazzo precipuamente nelle scarse capacità del cantante di fare un uso decente delle tonalità pulite della sua voce: questo limita non poco l’efficacia di quelli che dovrebbero essere i momenti di maggior tensione emotiva, tant’è vero che il pubblico si mostra alquanto perplesso. Dal punto di vista strettamente strumentistico non si tratterebbe nemmeno di gente così sprovveduta, mentre dal punto di vista compositivo non può certo dirsi lo stesso: i loro pezzi conoscono un solo tipo di struttura, quella accennata prima, talvolta allungata a colpi di groove e, quando capita, break down. La loro presenza scenica supplisce un poco a questi inconvenienti, ma di certo non muta l’idea che questa band sia decisamente fuori contesto.
HATRED
Seguono gli Hatred, da Modena, che annoverano tra le loro fila il chitarrista degli Unbirth, E. Ottani. Il loro è un death quadrato che sa come guardare al grind, specialmente per quanto riguarda le accelerazioni, ben capace di coinvolgere grazie a ritmiche secche ma arrembanti e ad una prova sopra le righe da parte del cantante, S. Borciani, sempre isterico e agitato. In tal contesto riesce a distinguersi il lavoro delle chitarre sia per riffing, serrato, rovente e condito da solismi che sanno di vintage, sia per songwriting, organizzato in maniera convincente tra sezioni differenti, spinte o rocciose: in questo si può facilmente riconoscere che la mano che scolpisce le canzoni degli Hatred è la stessa che dà forma a quelle degli Unbirth e consideriamo molto positivo il fatto che questa capacità riesca ad emergere palese in contesti debitamente differenti, come quelli relativi ai due gruppi. Particolarmente belle e fluide anche le parti strumentali, lavorate di fino specie per quanto riguarda la gestione di brevi ma incisive dissonanze. La prestazione degli Hatred procede con bella convinzione, colpendo gli astanti senza sosta per mezzo di un torrenziale apporto emotivo, sostenuta da pezzi che suonano come canti di guerra, “epici” – se volete – in tal senso: a darne la misura sia l’ultimo pezzo suonato, di cui colpevolmente ignoriamo il titolo, che pare concepito da degli Slayer sotto coca, in pieno delirio d’onnipotenza.
RAGNAROK
Norvegesi e pittati a dovere, i Ragnarok propongono agli avventori il loro black metal da battaglia, di carattere assai più fisico che “spirituale”. Le loro canzoni mostrano tutte un songwriting furioso e adrenalinico, non scevro da melodie memori del più classico heavy metal, per cui si prestano bene ad apparizioni su palco, dove risultano – in nostro parere – più efficaci rispetto al loro corrispettivo dalla sala di registrazione. A dispetto di un’esibizione un poco statica, i Ragnarok non si risparmiano né lesinano sentimento, sotto la guida di un cantante ammirevole per quantità e intensità di strilli; il pubblico mostra di gradire – a colpi di pogo – tutto il repertorio, da cui svetta “In Nomine Satanas” per la passione con cui viene interpretata, esaltandone i tratti di ferocia, oscurità e caos. Viene anche dato spazio a qualche brano da “Malediction”, ultimo lavoro, e si intravede qualche struttura più lavorata che in altri episodi, col risultato di arricchire le loro armonie tempestose e dirette per mezzo di break ben concepiti. In generale una prestazione convincente, specie per coloro che tengono in considerazione quest’accezione di metal.
INCANTATION
Quando i supremi duchi infernali entrano in scena, le luci calano d’intensità fino a colorarsi d’abisso: è così che ha inizio una delle più feroci vessazioni diaboliche a cui abbiamo mai assistito, contro la quale nulla potrebbe nemmeno il televisivamente noto padre Amorth. Gli Incantation attaccano con la doppietta iniziale del loro ultimo album, “Vanquish In Vengeance”, ed è già chiaro che i loro anatemi non concederanno salvezza ad alcuno dei presenti: partono inarrestabili come carri armati senza concedere tregua fino ad “Oath Of Armageddon”, capace di stringere il pubblico in un vizioso abbraccio con ritmi lenti e passaggi necrotici, per poi tornare a percuoterlo selvaggiamente con l’esplosiva accelerazione centrale; “Lead To Desolation”, subito dopo, deflagra e ipnotizza scrollando ulteriormente gli astanti, che rispondono con bestiale coinvolgimento. I tempi sono maturi per il “classicone” ed infatti la band non disattende l’aspettativa, ormai diffusa e palpabile: “Devoured Death”, da “Onward To Golgotha”, impressiona grazie al suo bel gioco di accelerazioni improvvise rotte da istanti di groove deragliante. Entrati nel vivo del concerto, ci sembra di avvertire puzza di zolfo e le luci sceniche non aiutano la nostra immaginazione a staccarsi da un’impressione tanto vivida: le atmosfere sono cariche in modo meravigliosamente insostenibile e, in tal contesto, perfino i segni che il tempo ha impresso sulla voce di John McEntee fungono alla bisogna, dal momento che – assieme ad uno sconfinato carisma – conferiscono al suo ruggito un’accezione sofferta, quasi sovrapponendolo alle vibrazioni pestifere emanate dal Lucifero dantesco, lasciato ad inveire sul fondo della voragine che lo inghiottì. L’esibizione prosegue macabra e pesantissima, con un Kyle Severn sempre capace di valorizzare i controtempi quanto incapace di lesinare sull’apporto fisico, così “The Fallen” e “Demonic Incarnate” si propongono come perversi strumenti di sevizie risucchiando gli avventori in un gorgo che trita carni e frantuma anime: se gli Incantation sono maestri nello scrivere pezzi di tale fattura, risultano addirittura professorali nel proporli. Il pubblico, divenuto una massa di dannati sotto supplizio incessante, è ormai in balia completa della lezione di death metal impartita dal gruppo: versioni onestamente paurose delle nuove “From Hallow Sands” e “Vanquish In Vengeance” (ossessiva e pregna di dissonanze affioranti sotto la spinta di break controtempati), accompagnate da una tremenda doppietta tratta da “Diabolical Conquest”, fanno sì che gli Incantation evochino un epos maligno decisamente suggestivo, col quale tengono tutti al di fuori della meschina dimensione temporale. Meschina soprattutto perché fa esaurire troppo in fretta l’ora abbondante a diposizione della formazione americana, tant’è vero che alla chiusura del concerto, affidata a due brani del capolavoro “Mortal Throne Of Nazarene” (“The Ibex Moon” e la mitragliante “Blissful Blood Shower”), gli avventori non vogliono saperne e chiedono a gran voce “one more song!”, facendo più casino di tutte le malebolge messe assieme: è così che i Nostri ci concedono l’ ultimo classico, “Christening The Afterbirth”, che – suonando a morto – termina l’esibizione sommergendola di feedback infernale.
Setlist:
Invoked Infinity
Ascend Into The Eternal
Oath Of Armageddon
Lead To Desolation
Descend Seraphic Irreverence
Devoured Death
Transcend Into Absolute Dissolution
The Fallen
Demonic Incarnate
From Hallow Sands
Iconoclasm Of Catholicism
Vanquish In Vengeance
Shadows Of The Ancient Empire
Impending Diabolical Conquest
The Ibex Moon
Blissful Blood Shower
Encore:
Christening The Afterbirth
Aftershow
Un aspetto certamente positivo della serata, dopo l’intensa esperienza rappresentata dalla prestazione degli headliner, è la sua piacevole prosecuzione grazie ad un aftershow in vena di riservare qualche chicca: l’abbassamento dei prezzi delle birre è già di per sé sufficiente motivo d’esaltazione per ogni metallaro degno di questo titolo, mentre le esibizioni dei gruppi convocati a fare “caciara” accompagnano adeguatamente questo “segmento di benessere”. I livornesi Profanal suonano un death metal ispirato per lunghi tratti alla scuola svedese, cui rendono omaggio con una gradita (e inaspettata) cover di “Spawn Of Flesh” da “The Winterlong” (primo e unico full-length dei God Macabre), mentre i romani Dr.Gore intrattengono efficacemente col loro death-grind truculento ma organizzato, che può fregiarsi di potenti stacchi scanditi a colpi di mannaia; chiudono i locali Mass Idolatry, autori di un grind ferino sulla scia di formazioni come i Rotten Sound, capace di riscuotere le ultime stille di interesse rimaste nelle teste di avventori decisamente soddisfatti.