03/05/2004 - Incubus + Hundred Reasons @ Palasharp - Milano

Pubblicato il 08/05/2004 da

A cura di Fabio Angeleri

Con alle spalle la recente uscita del nuovo album “A Crow Left Of The Murder” la “storica” (be’, ormai hanno quasi dieci anni di carriera!) band crossover californiana nota, ahimé, quasi più per l’innegabile presenza scenica del singer Brandon Boyd che per le indiscutibili qualità musicali, ritorna nel Belpaese, con un mini-tour di sole quattro date, delle quali quella milanese risulta come seconda tappa. E come due anni fa, quando il loro tour promuoveva l’allora neo pubblicato “Morning View”, gli Incubus tornano al Mazdapalace (che nel frattempo ha fatto in tempo a cambiare nome più o meno una mezza dozzina di volte)…

HUNDRED REASONS

L’oscura band che accompagna gli Incubus nel tour italiano risponde al nome di Hundred Reasons, e giunge tra noi dall’Inghilterra, nazione sempre prolifica nello sfornare fin troppi gruppi indie dalla qualità a dir poco variabile…Il vostro valente redattore fa in tempo a perdersi, purtroppo, l’inizio del concertino di questo ensemble di ragazzotti britannici dal look assai “normale”, ma che si prodigano sul palco del Mazdapalace con una certa foga: i loro pezzi, a dir la verità non proprio distinguibilissimi l’uno dall’altro, appartengono a quel genere di rock classico/arrabbiato che, in varie sfumature di commercialità e/o originalità, la Terra di Albione e le sue ex-colonie ci stanno recentemente propinando in misura piuttosto massiccia; sovvengono paragoni con i Jet, gli Strokes ed altre “pseudo-garage” band, molto di moda anche nell’ambiente pop. Alle spalle del quintetto che si agita sullo stage campeggia un provocatorio striscione che recita “Warmakers are peacekeepers”, ed il liveset dura poco più di mezz’ora, a dir la verità riuscendo, però, già ad annoiare un poco con sonorità leggermente irritanti e gracchianti. Il pubblico del Mazdapalace, assai poco numeroso, almeno per ora, dimostra il suo disappunto in maniera fortunatamente civile (niente fischi o ululati), limitandosi ad uno statico ma eloquente silenzio.

INCUBUS

Passano una ventina di minuti delle consuete operazioni di preparazione del palco per gli attesissimi headliner, ma il palazzetto, contro ogni aspettativa, stenta a riempirsi, e al momento dell’inizio del concerto il pubblico presente raggiunge solo un quarto scarso della sua capienza; il prezzo del biglietto, che rasentava il ladrocinio, deve essere stato l’elemento deterrente che non ha permesso al concerto di riscuotere il previsto bagno di folla. E finalmente, ecco salire sul palco gli Incubus! Posizionamenti ben delineati sullo stage, e impianto luci decisamente sobrio e non impegnativo. Si parte con lo scoppiettante singolo del nuovo album, “Megalomaniac”: la resa sonora è veramente sorprendente: si ha la sensazione di stare ascoltando il brano da CD… La voce di Brandon non ha la benché minima sbavatura e dimostra una tenuta pazzesca, su bassi ed acuti, ed un’intonazione perfetta. Batteria e chitarra, rispettivamente accarezzate da José Pasilla e dal piccolo e buffo Mike Einziger, anch’esse identiche a come da incisione in studio, fanno da impeccabile cornice alla voce dell’aitante singer, mentre il basso dell’ex bassista dei Roots (il vecchio bassista Dirk Lance ha da poco lasciato la band), Ben Kennedy e, soprattutto, gli effetti dell’ottimo DJ Killmore concedono alcune improvvisazioni che aggiungono spessore all’ottimo brano di apertura. Per rimanere fedeli al copione che li vede praticamente ri-suonare pari-pari “A Crow Left Of The Murder”, gli Incubus propongono poi proprio la title track del nuovo album, che è anche esattamente la seconda canzone in lista sul cd. La sensazione di stare ascoltando proprio il disco è fortissima, visto che il brano è anch’esso eseguito in maniera impeccabile e senza variazioni. Dopo i pezzi di partenza, comprensibilmente scelti dall’ultimo album, pubblicato da pochi mesi, il quintetto comincia però a tuffarsi nel suo passato remoto: ed ecco riproporre “Idiot Box”, del loro primo lavoro full length “S.C.I.E.N.C.E.”, splendida composizione caratterizzata da numerosi cambi di ritmo e da una prestazione vocale di Brandon veramente struggente. Si prosegue poi con un’alternanza quasi regolare di un brano dell’ultimo album con due degli album precedenti: un’interessante sguardo di insieme che di certo non può scontentare né i fan più “storici” della band né gli appassionati dell’ultim’ora. Puntuali ed attese, soprattutto dalle molte fan affascinate dal bel Brandon, arrivano anche le ballate: “Wish You Were Here”, “Drive”, “Stellar”, tutte interpetate con sentimento e ampiamente apprezzate, e cantate in coro, dall’intero pubblico. Il feeling con l’uditorio appare  molto forte, soprattutto grazie alle doti affabulatorie del frontman, che possiede veramente il cromosoma del teatrante di razza: scherza con le prime file, balbetta le immancabili scarse parole in italiano, “recita” a dovere  durante l’esecuzione dei brani, coinvolge i compagni di band (altrimenti sì, impeccabili e professionali, ma anche poco mobili ed espressivi), suona il bongo o la chitarra di accompagnamento in svariati pezzi con discreta maestria; il tutto senza risultare né pedante né eccessivamente “gigione” o poser: inedita (e poco apprezzata dal pubblico femminile…) la scelta di NON spogliarsi per restare a torso nudo, “performance” che invece solitamente Boyd non manca di “regalare” mai nei live set. Il gruppo inserisce fra i vari brani anche dei momenti di assolo per ciascuno degli strumentisti: Pasilla, Einziger, Kennedy e anche DJ Killmore hanno tutti il loro momento di gloria, per  dimostrare le loro innegabili capacità strumentali, peraltro davvero notevoli. La scelta di inserire questi assoli e dei brani con delle “code” lunghe ed elaborate soprattutto nella seconda metà del concerto è stata forse un poco infelice, poiché il pubblico cominciava a dare segni di stanchezza e di minore attenzione. Molto azzeccata invece l’idea di collegare praticamente ogni brano con il successivo con una sorta di “filo” elettronico abilmente intessuto da DJ Killmore. Nello show, intenso e lungo (quasi due rispettabilissime ore di concerto), i cinque californiani infilano persino la cover di un’intera canzone di Prince, con la quale affermano orgogliosamente il loro amore, ed il loro debito creativo per il funk, e un pezzetto di un vecchio brano dei Police (…”doo-doo-doo, da-da-da”…). Purtroppo non manca il consueto ed ormai fin troppo diffuso episodio del “falso” finale, con acclamazione del pubblico e ri-uscita della band per i bis; ma è un peccato veniale, che ormai ci sentiamo di concedere a tutte le “rockstar”. Pollice alzato, quindi, per questo intenso concerto, la cui pecca principale rimane il costo esorbitante del biglietto, difetto però cancellato da una prestazione live decisamente al di sopra della media:questi Incubus in conclusione sono ancora più incisivi ed accattivanti dal vivo che in studio, risultando decisamente meno noiosi e più coinvolgenti se goduti in un’esperienza più “viva” che ad un semplice ascolto su supporto audio.

 

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