La settimana di Pasqua per chi vive ad Oslo significa giornate di un timido sole primaverile, una città svuotata dalle cosiddette påskeferie (‘vacanze pasquali’, appunto) norvegesi e orde di metallari che arrivano da tutto il mondo per partecipare all’ Inferno Festival, una delle tappe obbligate per i tutti fan del metal estremo.
Escludendo la questione meteo di un 2024 che non ne vuole sapere di lasciarsi dietro temperature invernali, il copione si ripete puntualmente, con una delle edizioni più interessanti degli ultimi anni: basterebbe infatti la sola presenza dei Dimmu Borgir a fare da calamita per le migliaia di appassionati presenti ma, come vedremo, anche i Taake porteranno un enorme numero di entusiasti, per un evento che apre di fatto la stagione norvegese dei festival estivi.
Quattro giorni in cui si respira musica, arte, cultura e storia, quattro giorni in cui i concerti sono solo una parte degli eventi organizzati, con metallari che si dividono tra code chilometriche per entrare nel famoso scantinato di Neseblod (il negozio di dischi che sorge accanto a quello che fu Helvete), visite al nuovo museo di Munch nelle acque del fiordo di Oslo ed una mostra nelle sale dell’ Hotel Clarion con opere originali di artisti come Jannicke Wiese-Hansen, Zbigniew M. Bielak, Costin Chioreanu, Trine + Kim e Nick Morte.
Un’edizione, questa, in cui il black metal rimane sicuramente il genere più rappresentato in quasi tutte le sue forme, ma che regalerà vere e proprie chicche trasversali, come la presenza di Arthur Brown, Jo Quail e la suggestiva esibizione di Attila Csihar come Void Ov Voices.
Rockefeller e John Dee sono, come sempre, le sedi principali dei concerti, ed il fatto di essere separati solo da una rampa di scale renderà la gestione delle tempistiche estremamente comoda e che permetterà di assistere a praticamente ogni band presente.
Di seguito il resoconto completo dell’evento a cui noi, ovviamente, non potevamo mancare.
MERCOLEDÌ 27 MARZO
La giornata del mercoledì rappresenta un antipasto al festival vero e proprio ed è caratterizzata da una serie di concerti in locali sparsi per il centro di Oslo. Decidiamo di seguire la serata sponsorizzata dalla Indie Recordings, che si divide su due palchi nel suggestivo complesso di saune del Salt, sul fiordo di Oslo. Ovviamente tutte le band che suoneranno fanno parte del roster della label norvegese, ed il genere più rappresentato è sicuramente il metalcore, con i divertenti e bravi FIGHT THE FIGHT (reduci da un recente tour di spalla ai Leprous), HALCYON DAYS e OBERST a scaldare il pubblico, la cui età media non crediamo superi i venticinque anni.
A rappresentare suoni più estremi saranno il black-crust dei finlandesi MØRKET e soprattuto gli JORDSJUK, nuova band con all’attivo un EP e che vede nella formazione membri di Nordjevel, Sarkom, Urgheal, Koldbrann e Craft. Come prevedibile il genere si avvicina a quello delle suddette band, ovvero un black di stampo norvegese che si muove tra il black’n’roll dalle parti quasi punk e accelerazioni più classiche.
La band regala un live divertente senza grossi alti e bassi ma, nonostante alcuni problemi tecnici alla chitarra il pubblico, che a questo punto ha riempito la sala, apprezza. Una buona serata di rodaggio quindi, che ci prepara all’inizio del festival vero e proprio.
GIOVEDÌ 28 MARZO
In un weekend pasquale freddo e piovoso, che pare più un fine settimana di novembre, l’Inferno Festival 2024 apre le danze già nel primo pomeriggio con una serie di concerti collaterali, e la nostra scelta cade sui 200 STABWOUNDS con il loro death metal classico di matrice americana che funziona benissimo dal vivo grazie anche ad una esecuzione tecnica impeccabile, e sui norvegesi FORCEFED HORSEHEAD, band post-hardcore estremamente influenzata dal grind che demolisce letteralmente il piccolo palco del Brewgata.
I loro è un live divertente, estremo e coinvolgente, con brani che variano da schegge impazzite a pesanti momenti sludge e fanno presa sui presenti, chiamati in causa in un paio di occasioni in cui la band distribuisce teste di cavallo finte e una marea di tamburelli. Decisamente qualcosa che vedremmo bene in un contesto come l’Obscene Extreme.
Dopo una coda smaltita velocemente, siamo dentro al Rockefeller per assistere alla prima delle band che si esibiranno nel pomeriggio.
Aprono le KONVENT, che tornano in terra norvegese dopo la presenza al Midgardsblot del 2022: il loro doom dalle atmosfere death è il modo perfetto per settare il mood della giornata, e le cinque danesi tirano fuori una performance ottima, per esecuzione, presenza scenica e bravura nel gestire i quarantacinque minuti a disposizione. Il sound è denso, opprimente, lento ma mai statico, e la scaletta prende in maniera eguale dai due lavori della loro discografia con i picchi raggiunti da “Puritan Masochism” e “Grains”.
Un veloce ascolto al discreto death metal dei NAKKEKNÆKKER e ci dobbiamo già avvicinare al palco principale per l’imminente esibizione dei KEEP OF KALESSIN, recentemente tornati con il nuovo “Katharsis”. Chi scrive non è mai stato un grande fan dei norvegesi, specie nella seconda metà della loro carriera ma oggi Obsidian C e soci hanno dimostrato una bravura in sede live assolutamente superiore. Un’ora scarsa di live senza cali di sorta, con una band tecnicamente ineccepibile e capace di creare un impatto notevole: tra i momenti migliori spiccano sicuramente “Crown Of The Kings” da bellissimo “Armada”, “Katharsis” e la chiusura con “Ascendant”.
Riusciamo a vedere la seconda metà del set dei danesi ORM, già visti l’estate scorsa durante il Midgardsblot, che sulle orme di band come Afsky, propongono un black metal atmosferico e decisamente melodico, sebbene non particolarmente originale. Il gruppo comunque riesce a tenere il palco in maniera professionale e il responso del pubblico sembra molto positivo.
Di ritorno proprio dalla data torinese del giorno prima, tocca ora ai NORDJEVEL, un gruppo la cui notorietà sembra crescere costantemente, anche e soprattutto grazie alla presenza di Nils ‘Dominator’ Fjellström, fenomenale ex batterista dei Dark Funeral. Il loro black metal è un ponte tra le atmosfere norvegesi e l’impatto frontale della scuola svedese, un mix efficace e che fa pieno centro tra i presenti che hanno riempito totalmente il Rockefeller.
Nemmeno a dirlo l’esibizione è violenta, senza fronzoli e con tanto di lampi di fuoco sul palco; i cinquanta minuti di set passano in fretta, tra brani come “Fenriir”, “Djevelen i Nord” e Norges Sorte Himmel” che creano un moshpit furioso a centro sala.
Sono le venti e trenta, e dopo una veloce cena riusciamo a malapena ad entrare nella sala del John Dee strapiena per assistere al black/death delle brasiliane CRYPTA, compagne di etichetta delle Konvent. Per il gruppo dell’ex Nervosa Fernanda Lira si ripropongono dal vivo gli stessi pro e contro delle prove su disco: la band è preparata, i brani del nuovo disco musicalmente funzionano bene in sede live, ma vengono penalizzati dalla voce della bassista che rende il tutto troppo monocorde. Nonostante questo i presenti sembrano divertirsi e per quello che ci riguarda va bene così.
Il suono della “Marcia Funebre” di Chopin accompagna l’entrata sul palco dei CANDLEMASS, sempre acclamatissimi in terra scandinava ed attesi da un Rockefeller strapieno. Lo storico gruppo doom svedese sembra rivivere una seconda giovinezza in questi ultimi anni, con la formazione storica del periodo d’oro e il ritorno di Johan Längquist, cantante del debutto “Epicus Doomicus Metallicus”.
Come già dimostrato in occasione del Tons Of Rock 2023, i cinque di Stoccolma hanno un alchimia magica che fa funzionare tutto alla perfezione: la scaletta, come prevedibile, non va oltre i primi quattro lavori e l’impatto sonoro ed emotivo delle iniziali “Bewitched” e “Dark Are the Veils of Death” è imperioso, con un Längquist in forma smagliante, anche nelle difficili parti vocali che fuorono di Messiah Marcolin. Si continua con “Mirror Mirror” da “Ancient Dreams”, per arrivare all’inaspettata riproposizione per intero del lato A di “Tales Of Creation”, disco che vive spesso sotto l’ingombrante peso dei tre capolavori che lo precedono. Grandissime le versioni di “Dark Reflection” e della lenta “Tears” con il quasi speed metal di “Into the Unfathomed Tower” a rialzare l’intensità.
Immancabili “Crystal Ball” e “A Sorcerer’s Pledge” con tanto di siparietto divertente in cui Leif ricorda qualche aneddoto riguardante la prima volta dei Candlemass sul palco del Rockefeller nel 1994 di spalla agli Slayer. A chiudere, troviamo una versione accorciata di “The Well Of Souls” che anticipa “The Bells Of Acheron” con l’eterna “Solitude” a mettere la parola fine a quello che sarà uno dei concerti migliori dell’intero festival.
Riusciamo ad infilarci in un John Dee ai limiti del vivibile per quello che è il concerto più atteso da chi scrive: il ritorno dopo otto anni in terra norvegese dei CATTLE DECAPITATION.
Il peso della band è cresciuto in maniera esponenziale durante questo periodo e, forse, l’idea di farli suonare in un palco non proprio enorme non è tra le più felici, cosa che verrà commentata in maniera ironica anche dal frontman Travis Ryan.
D’altro canto una band come loro ne guadagnerà non poco in impatto e compattezza, e già dai primi secondi di “Terrasitic Adaptation” veniamo assaliti da una violenza indescrivibile, controllata e chirurgica. Il livello tecnico è a livelli stellari e Travis è un animale da palco, che sa gestire qualsiasi tipo di tecnica vocale con una confidenza disarmante.
L’ora scarsa basta ed avanza per dimostrare che i cinque di San Diego si candidano come una migliori band estreme in sede live con una setlist che prende in maniera uguale dagli ultimi quattro album. Picchi della serata si hanno con “Scourge of the Offspring”, “Bring Back the Plague” e il finale con le apocalittiche “Pacific Grim” e “Kingdom of Tyrants”. Nonostante i volumi siano altissimi – tanto che per la prima volta ci sentiamo di dover utilizzare delle protezioni – il suono è definito, compresso e ogni dettaglio dei vari brani viene percepito in maniera perfetta.
Un concerto che forse avrebbe meritato di essere piazzato in chiusura della serata, affidata invece ai KAMPFAR, ma va comunque benissimo anche così.
Sarà, appunto, il gruppo norvegese a fare da headliner, con un black metal dalle influenze folk ed loro ‘solito’ show coinvolgente e pregno di pathos.
Quella di questa di questa sera sarà la prima di una serie di date che li vedranno impegnati in giro per i festival estivi, con le quali si celebreranno i trent’anni di carriera, e come prevedibile la scaletta sarà una specie di ‘best of’, con alcune chicche tra cui le epiche versioni di “Lyktemenn” e di “Valdogg” dal capolavoro “Mellom Skogledde Aaser”.
Non mancano effetti pirotecnici su “Swarm Norvegicus” e la celebrazione della storia vichinga con “Trolldomspakt”. In definitiva un esibizione solida, senza grosse sorprese ma come sempre intensa, coinvolgente e apprezzata dai presenti. Si è fatta quasi l’una e ci ritiriamo sotto una pioggia autunnale, pronti per domani.
VENERDÌ 29 MARZO
Sotto un cielo grigio che non promette nulla di buono, il venerdì santo inizia, per quello che ci riguarda, verso le ore 14 con i CELESTIAL SCOURGE nel locale Vaterland. Quaranta minuti scarsi di death metal brutale e moderno, quello dei norvegesi sotto Time To Kill Records, che fanno da buon aperitivo alla seconda giornata. Ottima tecnica e brani tra la scuola classica e quella moderna per una giovane band da tenere d’occhio.
Una veloce occhiata agli stand dei vari artisti tra cui l’immancabile David Thiérrée e il fenomenale Zbigniew Bielak, e il palco del Rockefeller è pronto per uno dei concerti più attesi: ARTHUR BROWN.
Per chi non lo conoscesse, l’ormai ottantunenne inglese, considerato tra i primi utilizzatori del corpsepaint, divenne popolare negli anni Sessanta per i suoi show estremi, e per un attitudine fuori da ogni schema, influenzando band come Kiss e personaggi come King Diamond.
Supportato da una formazione a tre, lo stregone d’Albione propone uno show carnevalesco, a suon di un rock psichedelico e lisergico che ricorda il Bowie dell’era Ziggy Stardust e i Pink Floyd di Syd Barrett.
Grande spazio viene dato all’improvvisazione, grazie anche agli ottimi musicisti di spalla, con Arthur che utilizza un piccolo box a lato del palco per cambiare costume ad ogni brano, fino ad arrivare all’entrata in scena con un copricapo infuocato per l’esecuzione di una lunga versione della celeberrima “Fire”, brano addirittura campionato dai Prodigy: una lezione di attitudine ed estro artistico da parte di un artista di culto che riceve quest’oggi una meritata ovazione da parte dei presenti.
Ancora ammaliati da Brown, scendiamo nella sala del John Dee per vedere i VORGA, uno dei gruppi minori verso cui nutrivamo più curiosità. Il palco è pieno di luci stroboscopiche dai colori accesi, coerenti col filone sci-fi/cosmico, da sempre concept per i tedeschi.
Lo stesso look della band, che ricorda un misto tra Darkspace e Khold, rimanda alle bellissime copertine di Adam Burke degli ultimi due lavori, dai quali la band suonerà gran parte della scaletta. Il loro è uno show cupo e visionario, ben supportato da un black metal moderno ed imbastardito da influenze death melodiche, sufficientemente atmosferico e ottimamente suonato che avrà in “Voideath” e “Starless Sky” i suoi i momenti migliori.
Nonostante siano solo le sei di pomeriggio, la gente riunitasi per seguire gli VLTIMAS è parecchia, scelta comprensibile visti i personaggi coinvolti nel progetto. La prima cosa che salta all’occhio è la mancanza di Flo Mounier, sostituito da Paweł Jaroszewicz (già con Antigama, Batushka e Vader) che, per quanto bravo, non possiede la personalità e la fantasia del fuoriclasse canadese.
Quella degli Vltimas sarà la prima vera delusione del festival, con una band che, per quanto perfetta tecnicamente, sembra distaccata e quasi svogliata, in primis un Vincent che fa un buon lavoro dietro al microfono ma si limita a camminare lentamente sul palco conciato come un Undertaker qualsiasi. Quasi tutti i brani sono presi dal recente “Epic”, con la sola “Monolith” a rappresentare il debut. Se aggiungiamo una durata totale che supera di poco la mezz’ora, non possiamo sicuramente dirci soddisfatti di quello a cui abbiamo assistito.
Andrà decisamente meglio con i costaricani UMBRA CONSCIENTIA, che già avevamo apprezzato al Beyond The Gates 2022 e che riconfermano qua le buone impressioni di due anni fa. Il loro black metal cupo, a metà strada tra la ruvidezza della scuola sudamericana e un approccio più moderno nell’uso delle dissonanze, fa pieno centro in sede live con un’esibizione intensa e tiratissima, dal suono denso ed infernale. Se due prove fanno un indizio diremmo che ci troviamo di fronte ad una delle band più interessanti del genere.
Il black metal continua ad farla da protagonista anche sul palco principale, dove tutto è pronto per i CARPATHIAN FOREST, che hanno addobbato lo stage con un numero enorme di maschere, alcune inquietanti, altre decisamente ironiche.
L’attività della band di Sandnes, forse per problemi personali del leader Nattefrost, è un mistero da ormai più di dieci anni, con concerti sporadici (non esattamente memorabili) e un solo EP pubblicato, per cui la curiosità di vedere qualche segnale di ripresa è abbastanza alta.
La formazione vede lo storico frontman e Vrangsinn affiancati da componenti degli Svartjern alle chitarre e alla batteria, per un’ora abbondante di black metal marcio ed irriverente nella più pura attitudine punk.
Diciamo subito che questo sarà di gran lunga il miglior live dei Carpathian Forest a cui abbiamo assistito da un po’ di tempo a questa parte, nonostante la forma fisica e vocale di Nattefrost non sia proprio al top: il cantante sembra faticare in alcuni momenti ma, grazie ad una scelta di canzoni abbastanza varia, il concerto fila liscio senza grossi intoppi.
Sempre da brividi le inquietanti “Death Triumphant”, e “Spill The Blood Of The Lamb” mentre si vira sul black’n’roll con “Knokkelmann” e “He’s Turning Blue”, fino ad arrivare al thrash con “Submit To Satan!!!”.
Viene anche proposta una nuova canzone, che poco si discosta dal resto, ma il momento più curioso è il siparietto con il giovane figlio di Nattefrost che sale sul palco per cantare insieme al padre “All My Friends Are Dead” dei Turbonegro. L’iconica e motorheadiana “Carpathian Forest” pone fine ad un esibizione tutto sommato buona e divertente, che ridona un po’ di luce sul loro futuro.
Una necessaria cena ci fa quasi perdere l’inizio del concerto dei SOLSTAFIR, una band la cui popolarità è cresciuta esponenzialmente negli ultimi anni, e che ha un seguito enorme in Scandinavia.
“Rismál” insieme ad “Ótta” saranno i brani più sentiti e applauditi, mentre il resto dell’ora di live prende un po’ da tutta la discografia, e non c’è dubbio che i cowboy islandesi siano uno dei gruppi più efficaci su palco, capaci di emozionare e intrattenere grazie ad un post-metal luminoso che ha ripreso ultimamente una vena più rock. Una sicurezza e una realtà ben consolidata.
Gli ultimi di oggi a salire sullo stage del John Dee sono i tedeschi MANTAR, con il loro originale mix di marciume sludge e attitudine hardcore. Non sorprende che la musica del duo renda ancora meglio dal vivo e loro tirano fuori uno show diretto, minimale e senza una pausa, per’ora che funge da stacco momentaneo in una giornata nella quale il black metal la ha fatta da padrone.
E che continuerà a farlo, visto che alle undici e mezza in punto si aprono i tendoni del Rockefeller per i GORGOROTH, headliner della serata subentrati dopo il forfait degli At The Gates e di ritorno dopo l’edizione del 2022 con una novità: l’assenza di Hoest, impegnato con il tour dei Taake, e la presenza di Atterigner alla voce, per quella che dovrebbe esser la sua prima apparizione live.
Rispetto a due anni fa Infernus e soci confezionano un live senza orpelli inutili, niente fiamme sul palco, scenografia ai minimi storici ma una gran dose di violenza, nella più pura tradizione old-school norvegese.
Le quattordici canzoni suonate ripercorrono tutta la discografia della band (ad eccezione di “Ad Majorem Sathanas Gloriam”) con “Under The Sign Of Hell” il più rappresentato, dal quale assistiamo a solide versioni di classici come “Krig”, “Revelation Of Doom” e “Ødeleggelse Og Undergang”.
Nonostante l’infinita diatriba interna non sorprende la presenza di brani come “Unchain My Heart!!!” e “Forces Of Satan Storm” del periodo con Gaahl (in quanto entrambi accreditati ad Infernus) e si va indietro ai primi anni Novanta con “Bergtrollets Hevn” e “Katharinas Bortgang”. Buona la prestazione dei musicisti e del cantante che si discosta dal solito screaming tagliente in favore di un registro più basso ai limiti del growl, per un gruppo che, nonostante gli innumerevoli problemi interni, sa ancora come tenere alto il vessillo di un black metal puro e senza grossi compromessi.
La stanchezza si fa sentire e siamo solo a metà del festival, servono forze nuove perchè domani ci aspetta la giornata in assoluto più affollata di questa edizione.
Setlist Gorgoroth:
Bergtrollets Hevn
Aneuthanasia
Prayer
Katharinas Bortgang
Revelation of Doom
Forces of Satan Storms
Ødeleggelse og undergang
Blood Stains the Circle
Cleansing Fire
Destroyer
Incipit Satan
Krig
Kala Brahman
Unchain My Heart!!!
SABATO 30 MARZO
Nonostante la solita buona dose di concerti che anticipano l’inizio della terza giornata il nostro interesse si sposta su un evento parallelo al festival che mescola cinema e musica.
Alle due e mezza assistiamo infatti alla proiezione del classico dell’espressionismo tedesco, il “Nosferatu” di Murnau sonorizzato per l’occasione da Attila Csihar col suo progetto solista VOID OV VOICES.
Senza entrare nei dettagli di quello che è un capolavoro dell’horror che tutti conoscono (o dovrebbero conoscere), dobbiamo dire che l’approccio di Attila è comprensibilmente più cupo e dona un mood oppressivo e drammatico alla pellicola, con lunghi droni vocali, armonici, throat singing, sospiri e vaghe parti cantate. Il tutto segue decisamente bene il flusso narrativo, a dimostrare uno studio profondo del film e dei suoi ritmi, cosa non scontata e a volte difetto di questo tipo di spettacoli. Un modo alternativo per cominciare il terzo giorno di concerti, ma perfettamente in tema.
L’ora e mezza di film non ci impedisce comunque di assistere al primo live della giornata affidato agli scozzesi SAOR e il loro metal influenzato delle tradizioni della loro terra natia: un’esibizione intensa, in cui l’impatto del black metal funge principalmente a creare pathos, aiutato da armonie folk e un uso ben bilanciato di strumenti come flauto e cornamusa, che rendono alla grande anche grazie ad una resa sonora dotata di un mix perfetto.
Verrà suonato nella sua interezza “Aura”, in occasione dei dieci anni della sua uscita, e momenti come “The Pillar Of Earth”, “The Awakeneing” o “Farewell” sono perfetti nel trasportarci idealmente nelle verdi vallate scozzesi. Cinquanta minuti emozionanti per una band a suo modo unica.
Scendiamo verso il John Dee e si cambia registro, con una dei progetti più interessanti del sottobosco metal norvegese. I TILINTETGJORT, nati dalle costole di Den Saakaldte, Troll e The 3rd Attempt, giocano in casa e il loro approccio al genere è vicino a quello di band come Dødsengel e Dødheimsgaard, con un sound black metal avanguardistico e teatrale, contorto e dalla scrittura angolare ma che mantiene un attitudine grezza e old-school.
Il concerto è di estremo impatto, ma le strutture sbilenche e disarmoniche di canzoni come “Mercurial” donano un tocco da teatro dell’assurdo, che li rende una delle realtà da tenere d’occhio.
Assistiamo ad un paio di brani degli ORBIT CULTURE che nutrono evidentemente un sacco di seguito tra i giovanissimi e non si fatica a capire il perchè, essendo il loro un metal di impatto, groovy in grado di funzionare bene dal vivo, figlio di band come Gojira, ma senza l’originalità e l’estro dei francesi. Una band che comunque fa il suo dovere e lo sa fare bene.
Quasi contemporaneamente si esibiscono i polacchi IN TWILIGHT’S EMBRACE, gruppo dall’evoluzione musicale curiosa, passati dal metalcore alla Heaven Shall Burn degli esordi ad un black metal sinfonico abbastanza classico. Pur non essendo l’originalità il loro punto forte, i cinque tirano su un concerto onesto, con una buona presenza scenica e un wall of sound che fa guadagnare ai brani un aura ancora più cupa che in studio.
Ritornando verso il palco del Rockefeller cominciamo a faticare per farci spazio tra i presenti che si sono ammassati per assistere al concerto di Nergal e i suoi ME AND THAT MAN, di ritorno in un festival norvegese dopo la presenza del Beyond The Gates 2022.
Che Adam Darski sia un maestro nel creare show mai banali, ruffiani sì ma terribilmente coinvolgenti, è cosa ormai assodata e non solo quando si tratta della band madre Behemoth.
Nell’ora a disposizione infatti, anche chi come il sottoscritto non è mai impazzito per il country rock del suo progetto parallelo non può che dirsi soddisfatto, con un concerto perfetto nella gestione dei momenti e una scaletta che sciorina i brani più efficaci come “My Church Is Black”, “Run With The Devil”, o “Angel Of Light”. Notevole la versione di “Coming Home” in cui Nergal duetta con Sivert Hoyem dei Madrugada, di cui viene anche proposta una eccellente versione di “Look Away Lucifer”. In definitiva Adam anche in versione crooner ci ha fregato di nuovo, sbattendoci in faccia una delle esibizioni migliori della giornata.
Il mood del festival rimane acustico con JO QUAIL, talentuosa violoncellista britannica che occupa lo slot che fu lo scorso anno della nostra Lili Refrain, con uno show solista fatto di brani costruiti su loop in tempo reale.
Ma laddove l’artista romana viaggia sui binari di una musica sciamanica e tribale, l’inglese trova il suo spazio in un avanguardia classica che mescola musica ambient e post-rock, non lontano dall’islandese Hildur Guðnadóttir.
Jo costruisce lunghi brani avvolgenti e pieni di tensione, utilizzando il suo violoncello elettrico come sola fonte sonora ed ipnotizzando un pubblico che per la prima volta in tre giorni rimane in religioso silenzio. Notevoli i dieci minuti finali dell’apocalittica “Forge”, seguita dall’ovazione di tutti i presenti che si sono dimostrati ricettivi anche a contaminazioni esterne alla musica metal.
Metal che torna protagonista sul main stage con i BORKNAGAR, freschi di pubblicazione dell’ottimo “Fall”. Memori dell’esibizione un po’ scialba del Midgardsblot 2022 la curiosità è abbastanza alta e dobbiamo dire che questa volta le aspettative vengono ripagate da un ottimo concerto, specialmente dal punto di vista vocale. L’inconsistenza delle prestazioni di Simen Vortex (tra cui quella non felicissima con gli Arcturus dello scorso anno, proprio su questo palco) infatti è sempre un punto interrogativo, ma oggi ogni dubbio viene fugato già dalla seconda canzone “Up North”, dove il bassista sembra quasi in stato di grazia, magari non sempre perfetto ma pulito quando deve riproporre linee vocali non proprio semplici, supportato ottimamente dal tastierista Lars Nedland.
Il gruppo sul palco è precisissimo e la scelta dei brani è quasi perfetta, mancando all’appello solamente “Oceans Rise” tra i brani storici. Da “Dauden”, tratta dal debut fino alla stupenda “Moon” dell’ultimo album l’aria del Rockefeller si riempie del loro metal progressivo dalle eleganti atmosfere folk, in un’ora abbondante che sembra passare pure troppo velocemente.
Ancora esaltati per i Borknagar, scendiamo verso il John Dee per i KHOLD, a cui viene assegnato l’ingrato compito di suonare subito prima di quelli che saranno i veri headliner del festival. Compito che i quattro norvegesi svolgono benissimo, con un’ora scarsa di grande intensità, grazie anche ad una musica che rende decisamente meglio in sede live piuttosto che su disco.
Il loro black metal figlio diretto dei Tulus, diretto e dalle strutture minimali ha un piglio notevole su palco, e persino i brani dell’ultimo e deludente “Du Dømmes Til Død” prendono nuova vita, in un’esibizione che ci stupisce in positivo, e fa da perfetto antipasto a quello che succederà a breve.
Il repentino sold-out ce lo aveva fatto intuire, ma salendo verso il Rockefeller ci rendiamo conto della quantità di persone accorse per assistere ai DIMMU BORGIR, vista quasi totale impossibilità di spostarsi. La gente ha preso possesso di quasi ogni centimetro del locale, a dimostrazione che gli anni di inattività non hanno scalfito minimamente l’affetto per un gruppo che, piaccia o no, ha fatto da colonna sonora per la vita di tantissime persone.
Sono passati cinque anni dall’ultima calata di Shagrath e soci sui questo palco e quello di quest’anno sarà uno show unico, una celebrazione di trent’anni di carriera. Come già successo in agosto per il Beyond The Gates, la scaletta comprende brani da tutti i loro dischi, incluso il debut “For all Tid”, della quale vengono riproposte l’intro “Det Nye Riket” e l’acclamata “Raabjørn Speiler Draugheimens Skodde”.
Già dalle prime note si capisce che il focus sarà la musica, senza troppi orpelli circensi e con una presenza scenica magistrale: immancabile la classica “Spellbound By The Devil” seguita dalla sorpresa “Entrance”, uno dei brani più belli di “Enthroned Darkness Triumphant”, raramente proposto dal vivo, con la presenza dietro alle pelli di Tjodalv, membro fondatore.
Che siamo spettatori di un evento speciale lo si era già intuito, ma la prova definitiva sarà l’esecuzione di “The Insight and the Catharsis”, per la quale saliranno sul palco anche Vortex e Mustis: otto minuti che siamo sicuri rimarranno nella memoria dei fan presenti e a cui siamo felici di aver partecipato.
Si torna indietro poi con “Dødsferd” e “Stormblåst” dall’omonimo album, per concludere la prima parte del concerto con una selezione di brani dai lavori più recenti, con l’autocelebrativa “Dimmu Borgir” in coda ed uno Shagrath perfetto e totalmente confidente nel suo ruolo di frontman; notiamo anche come anche i due pezzi del recente “Eonian” non sfigurino affatto accanto ai classici.
Una breve pausa e i nostri tornano sul palco per il finale, la violentissima “Blessings Upon the Throne of Tyranny”, “Progenies of the Great Apocalypse” e ovviamente “Mourning Palace” che fa calare il sipario su un concerto praticamente perfetto, che si piazza di diritto come uno tra i migliori delle ultime edizioni.
Setlist Dimmu Borgir:
Det nye riket
Raabjørn speiler draugheimens skodde
Spellbound (by the Devil)
Entrance
The Insight and the Catharsis (feat. Vortex, Mustis and Tjodalv)
Stormblåst
Dødsferd
The Chosen Legacy
Ætheric
Council of Wolves and Snakes
Dimmu Borgir
Fear and Wonder
Blessings Upon the Throne of Tyranny
Progenies of the Great Apocalypse
Mourning Palace
DOMENICA 31 MARZO
Vista la abbondante quantità di concerti del primo pomeriggio scegliamo di vedere parte delle esibizioni di BLODKVALT e ZUSTAND NUUL, che avvengono quasi in contemporanea e in due locali adiacenti.
I primi sono un progetto proveniente da Tromsø, giovane ma molto promettente, che mescola un feroce e rumoroso black metal old-school ad un’attitudine presa dal noise rock e dal punk, con un risultato ottimo e disturbante dal vivo, grazie al carisma del cantante che interagisce, anche in maniera aggressiva, col pubblico. Con gli Zustand Null, band sotto l’italiana Dusktone, si rimane su suoni neri ma decisamente più complessi e strutturati, una sorta di metal moderno a metà tra Mgła e la scuola nidarosiana di Whoredome Rife e Mare. Nulla da dire, bravi, essenziali e precisi.
Una veloce occhiata ai sempre divertenti menestrelli lisergici TUSMØRKE non ci impedisce di goderci il primo gruppo a salire sul palco del Rockefeller, per quello che sarà uno dei momenti top non solo di oggi ma dell’intero festival.
Quando gli islandesi MISÞYRMING arrivano on stage sono solo le quattro e mezza di pomeriggio ma l’atmosfera è quella di un nero girone infernale, tanto è furiosa e cupa l’esibizione dei nostri: un muro di suono che prende a pugni i presenti, una tenuta del palco perfetta, intensa e senza compromessi rendono l’epica “Ísland, steingelda krummaskuð”, “Með Hamri” e l’immensa “Orgia” delle vere e proprie esperienze sensoriali, come solo loro sanno fare, tanto che dopo la conclusiva “Algleymi” ci sentiamo già stremati. In ogni loro concerto a cui chi scrive abbia partecipato, inclusa la loro prima apparizione fuori dalla terra madre proprio sui palchi dell’Inferno Festival 2015, i Misþyrming non hanno mai deluso, mantenendo una qualità altissima che li rende una di quelle band assolutamente da vedere.
Non allo stesso livello invece gli svedesi DÕDSRIT, freschi di pubblicazione del nuovo “Nocturnal Will” e su cui c’era parecchio hype, però solo in parte soddisfatto in quanto i quarantacinque minuti di esibizione risulteranno altalenanti.
Iniziamo subito dicendo che l’evoluzione musicale che li ha visti passare da un black molto influenzato dal crust ad un metal estremo in cui le chitarre di scuola classic metal la fanno da protagonista ha fatto perdere molto in impatto, e alcuni dei nuovi brani risultano un po’ troppo ripetitivi e stucchevoli.
Il discorso cambia quando invece vengono proposte canzoni come “Endless Circle” o “A Drowning Voice”, che col loro piglio hardcore funzionano molto meglio, al netto di una presenza scenica un po’ statica. Non una bocciatura vera e propria, ma rimandati alla prossima volta.
Risaliamo verso il Rockefeller per i WINTERFYLLETH che chiudono idealmente il discorso iniziato ieri dai Saor e con i quali condividono non solo la terra d’origine (pur con le debite differenze, scozzesi i primi, inglesi i secondi) ma anche una proposta musicale che utilizza l’aggressività e l’impatto del black metal per descrivere atmosfere e miti del loro folklore.
La musica dei Winterfylleth dal canto suo si serve di un uso minore di strumenti classici e questo ne risulterà in un concerto più diretto ma comunque suggestivo, i cui picchi si hanno con “A Valley Thick With Oaks”, “To The Edge of Tyranny” e la sempre affascinante “Green Cathedral”. Nonostante un’immagine un pò anonima, gli inglesi il loro lo sanno fare bene, il responso di tutti i presenti è molto caldo, facendo passare l’ora scarsa a loro disposizione in fretta e senza momenti di stanca.
Completamente diverso sarà invece il concerto dei PHANTOM FIRE, di fatto side project speed/black dei norvegesi Kraków che, abbastanza prevedibilmente, inscenano un’ora di divertente metal old-school sulla scia di band come Midnight. I ritmi tirati e riff a metà tra il metal classico e il primo black metal ben intrattengono il grande numero di gente che ha riempito il John Dee e brani come “Sweet Jezebel”, “Return of the Goat” e una “The Bust of Beelzebub” scatenano un moshpit incontrollato. Bravi, divertenti e senza grosse pretese.
È quasi ora di cena, ma decidiamo di rinviare l’appuntamento col cibo visto quello che ci aspetta nelle prossime due ore, iniziando dall’attesissimo ritorno sui palchi norvegesi dei CYINIC, reduci di un tour europeo con gli Obscura.
Ad affiancare Paul Masvidal, unico superstite della formazione originale, troviamo Matt Lynch degli Intronaut alla batteria, Mike Gilbert alla chitarra e Brandon Giffin al basso per riproporre in toto il capolavoro “Focus”. L’emozione nel sentire per la prima volta dal vivo tutti i brani del disco è decisamente grande e ognuno dei musicisti sul palco fa un lavoro egregio nel riprodurne ogni dettaglio, soprattuto nelle complesse “Uroboric Form” e “How Could I”.
L’aria del Rockefeller, nonostante una pausa forzata per un blackout elettrico sul palco, si riempie di nostalgica ammirazione. C’è anche tempo per “Integral Birth” ed “Evolutionary Sleeper” prima del congedo finale con tanto di commento di Masvidal che confessa che “questa è l’ultima data del tour e sarà probabilmente l’ultima volta che suoneremo “Focus” per intero. É un cazzo di casino e non credo di volerlo rifare nemmeno per un milione di dollari“.
Nota finale: le parti in growl, normalmente a cura a Steffen degli Obscura nelle serate precedenti, sono affidate per l’occasione ad Hans Jørgen Ersvik dei Diskord.
L’atmosfera rallenta quando gli americani BELL WITCH portano sul palco il loro funeral doom cupo ed emozionante. Per ovvie questioni di tempo verranno eseguite solo determinate sezioni degli ultimi due lavori (formati entrambi da un solo brano di quasi un’ora e mezza di durata) in un flusso musicale continuo e densissimo che ha la fisicità dei Sunn O))) ed una bellezza emotiva commovente.
I due di Seattle si dividono i compiti di questo lavoro, con il bassista Dylan Desmond a coprire anche il ruolo di una chitarra inesistente e il batterista Jesse Shreibman che gestisce synth ed effetti vari, il cui risultato è un magma sonoro capace di far perdere la cognizione del tempo: una band unica capace di creare un linguaggio musicale inimitabile e un’esperienza che chiunque dovrebbe provare almeno una volta.
Ancora disorientati, sentiamo che è ora di metter qualcosa sotto i denti e decidiamo perciò di assistere solo ad una parte del live dei FINNTROLL che avevamo già visto in estate in occasione del Midgardsblot. Il copione rimane lo stesso con un gruppo esperto che, col suo mix di metal estremo e humppa (sorta di versione finnica della polka), sa sempre divertire e coinvolgere soprattutto quando arrivano brani come “Jaktens Tid” o “Trollhammaren”.
Scoccano le dieci e mezza e l’impianto del John Dee è pronto per sparare gli ultimi decibel quando iniziano i KOLDBRANN band che, nonostante non abbia mai vissuto una grossa popolarità, vanta una carriera lunga più di vent’anni, facendo sì che ricoprano il ruolo di headliner sul palco minore.
Mannevond e soci onorano questa responsabilità con un’ora di black metal furioso, che rilegge la scuola classica norvegese con discreta personalità ed una presenza scenica inattaccabile. Nonostante non ci si trovi davanti a veri e propri classici quando si parla dei Koldbrann, le furiose “Moribund” e “Koldbrann” o la marziale “Totalt Sjelelig Bankerott” sono piccoli gioielli che vanno riscoperti e che brillano di una luce nera anche dal vivo. Chiamati ad un compito importante, i nostri hanno risposto alla grande.
Dopo quattro giorni di pioggia, freddo, sudore e orecchie che fischiano, l’Inferno Festival 2024 è alla sua conclusione e la responsabilità dell’ultimo saluto è data ai TAAKE, di ritorno dopo due anni ed in veste di headliner, questa volta.
L’enorme quantità di gente accorsa, seppur in numero leggermente minore rispetto alla sera prima, dimostra quando la creatura di Hoest, nonostante la sua natura divisiva, sia diventata di fatto uno dei nomi di punta del black metal norvegese a livello mondiale.
Freschi di pubblicazione del meraviglioso “Et Hav Av Avstand” che rialza l’asticella dopo un paio di episodi meno brillanti, i nostri tirano fuori uno show grandioso, nichilista ed epico.
Un’ora e mezza fatta da classici come “Fra vadested til vaandesmed” in apertura, “Nordbundet” e “Myr” col suo immancabile solo di banjo, le storiche “Hordalands Doedskvad I” e “Hordalands doedskvad II” alle quali si affiancano le recenti e lunghissime “Denne forblaaste ruin av en bro” e “Et uhyre av en kniv” nelle quale si nota una scrittura più libera, come fosse un flusso di coscienza; chi nutriva dubbi sull’effettiva resa live di canzoni dalla struttura così complessa e volutamente disorientante dovrà ricredersi.
Le note della immortale “Nattestid Ser Porten Vid I” hanno la responsabilità di fare da commiato per questi quattro giorni e mezzo di festival, per la quale non ci si può che dire soddisfatti e che si decisamente è meritato ogni goccia di sudore, ogni mal di testa, ogni mal di schiena e ogni momentaneo acufene. Ora abbiamo un anno per riprenderci e presentarci nuovamente sotto il palco del Rockefeller.
Setlist Taake:
Fra vadested til vaandesmed
Denne forblaaste ruin av en bro
Nordbundet
Et uhyre av en kniv
Hordalands Doedskvad 3
Myr
Hordalands Doedskvad 1
Nattestid Ser Porten Vid 1