17-20/04/2025 - INFERNO FESTIVAL 2025 @ Rockefeller - John Dee - Oslo (Norvegia)

Pubblicato il 07/05/2025 da

Report di Enrico Ivaldi.
Foto per gentile concessione di Karianne Eull

L’edizione 2025 dell’Inferno Festival ha un sapore particolare e malinconico: il dieci febbraio di quest’anno ci ha infatti lasciato Jan-Martin Jensen, ideatore e organizzatore di quello che è diventato, in quasi venticinque anni, uno degli eventi di riferimento in Europa per il genere estremo.
Comprensibilmente, l’ombra di Jan e della sua scomparsa sarà tangibile per tutta la sua durata, a partire dalla conferenza di apertura del mercoledì nella bellissima location del Salt, direttamente sul fiordo, in cui musicisti e non solo hanno avuto la possibilità di commemorare Jan con aneddoti, ringraziamenti o semplicemente poche parole. Per l’occasione, inoltre, Kathrine Shepard (Sylvaine) ha tenuto due esibizioni intime nel Mausoleo di Vigeland, un posto incredibile sulle colline di Oslo dall’acustica unica (con un riverbero naturale di venti secondi) e che ospita non più di una ventina di persone.
Anche quest’anno le sessantasei band del cartellone vengono spalmate sui quattro giorni del weekend pasquale (più la serata di apertura del mercoledì), alternandosi per la maggior parte sui palchi del Rockefeller e del John Dee, ma la novità è l’ampliamento del programma su ben cinque ulteriori locali per gli eventi del primo pomeriggio e, come vedremo, per qualche nome importante di quelli serali.
Inalterate invece le attività collaterali quali mostre delle opere di artisti come Ghaal e David Thiérrée, stand di tatuatori da tutto il mondo (tra cui il nostro Clod The Ripper) e visite guidate alle principali location che negli anni Novanta sono state sfondo dei fatti che hanno portato il black metal sulla bocca di tutti.
La zona merch si divide tra quello ufficiale (sempre affollato) delle band in cartellone – e dai prezzi non proprio economici – e altri venditori provenienti da vari paesi europei, più una angolo in cui è possibile assaggiare vari tipi di salse piccanti artigianali, tra cui quella ufficiale del festival. Presente anche lo stand della Indie Records, etichetta norvegese da sempre affiliata al festival.
A livello logistico, poi, il Rockefeller si trova nello stesso edificio dell’Oslo Street Food, cosa estremamente comoda per mangiare, avendo a disposizione una scelta abbastanza vasta di cucine diverse e una scelta di birre molto più grande di quella dei bar della venue.
Come vedremo, il festival ha fatto registrare sold-out in quasi tutte le giornate, con picchi durante le serate del giovedì e del sabato, in cui Satyricon e Abbath hanno raccolto un numero parecchio alto di presenti; dato, questo, che però non influisce troppo sui tempi di attesa: nonostante la lunga coda all’apertura dei cancelli il tutto tende a scorrere infatti in modo abbastanza fluido e alla fine non ci si trova mai ad attendere più di dieci/quindici minuti prima di essere dentro.
Un’edizione, quella di quest’anno, che va sul sicuro, piazzando come headliner nomi storici ed attualmente attivi, lasciando da parte esibizioni come quella (ottima) dei Dimmu Borgir della scorsa edizione, che li ha visti uscire dal letargo con un concerto celebrativo.
Non ci resta dunque che lasciare spazio alla musica, con il resoconto di un Inferno Festival che si conferma (ancora una volta) come una sicurezza in ambito estremo.

GIOVEDI 17 APRILE

Prima dell’apertura sul palco del Rockefeller, la giornata del giovedì vede esibirsi una serie di band nei locali limitrofi e noi decidiamo di fare un salto al Vaterland per assistere a due band locali, che propongono un black metal abbastanza classico.

YR è un duo le cui influenze abbracciano la scuola classica norvegese simile a ultimi Taake, Gorgoroth e un piccola dose di black’roll, mentre i MALUM si muovono su mood più funerei con tempi mai velocissimi e un ottima resa atmosferica, ben trasmessa dal vivo e che regala un esperienza decisamente claustrofobica e morbosa.
Sono le quattro e mezza e il tendone del Rockefeller si apre per ospitare una delle band più attese da chi scrive e, vista la giù grossa affluenza, da molti dei presenti.

I DØDHEIMSGARD si presentano con una formazione allargata, che vede ben tre coristi e due membri incappucciati alle prese con l’elettronica: quello che ne esce è uno show surreale, dettato dalla teatralità di Vikotnik, frontman unico e totalmente slegato dalla tradizione classica del genere.
Nonostante una qualità dei suoni altalenante nei primi minuti, la scaletta si dimostra estremamente varia e con brani presi da tutti i dischi tranne “Monumental Possession” (scelta curiosa, essendo di fatto uno degli album più amati dai fan). L’apertura è affidata a “Å Slakte Gud”, che va a ristroso fino al debutto “Kronet Tol Konget”, seguita dalla nuova, meravigliosa “Tankespinnerens Smerte”, resa in maniera eccellente grazie ad un Vikotnik totalmente padrone del palco.
“It Does Not Follow” e “Det Tomme Kalde Mørke” confermano la grandezza di un disco come “Black Medium Current” portandosi dietro un’aura cosmica e desolante che si contrappone alla schizofrenia elettronica del periodo “International 666” e “Satanic Art”, da cui vengono estratti “Regno Poitri” e una “Traces Of Reality” micidiale. Sorpresa della serata è l’arrivo durante l’esecuzione di “All Is Not Self” e “The Snuff Dreams Are Made Of” di Kvohst (Hexvessel e Grave Pleasures), che prestò la voce sul sottovalutato “Supervillian Outcast”.
La prova tecnica della band è assolutamente di livello, e brani complessi come “The Unlocking” non risentono in sede live, regalando quel tocco di schizofrenia e teatralità che fa dei Dødheimsgard una band unica: che dire, un live dalla scaletta forse troppo ostica per chi non conosce bene la discografia della band ma assolutamente perfetto per chi li ama. Un inizio ottimo.

Si continua sul palco del John Dee con i norvegesi SYN, promettente band sotto Terratur Possession in grado di dimostrare una cattiveria e un’intransigenza notevoli, mescolate ad un suono decisamente personale, a volte volutamente caotico ma incredibilmente evocativo. Menzione particolare per una prova vocale varia e personale, che si stacca dal classico scream in favore di un approccio declamatorio e drammatico. Una delle prime sorprese del festival.

Dopo una combo di band decisamente atipiche, ci pensano i NECROPHOBIC a farci tornare sui binari del classico suono nero. Gli svedesi dal vivo sono esattamente come su disco: una sicurezza senza picchi di sorta, ma nemmeno con momenti di stanca.
Con una discografia che arriva alla decina di album, è normale aspettarsi una scaletta varia, capace di rendere giustizia ai migliori momenti della loro carriera, suonata con precisione e con una tenuta sul palco perfetta per quello che ci si aspetta da loro.
Una band che porta avanti quell’attitudine old-school che a volte sembra scemare tra le nuove generazioni (molto più attente alla cura dell’immagine, spesso con la sensazione finale di una maggiore artificiosità), ma lo fa con una precisione tecnica e un mix tra death e black moderno e ruffiano il giusto.

L’oscurità del John Dee è teatro perfetto per il debutto dal vivo degli UDÅD, progetto di Thomas dei Mork, col quale viene reso tributo alla frangia più raw e classica del black metal di casa propria.
Quello che viene subito all’orecchio sin dalle prime note è come gli Udåd dal vivo siano, a livello puramente sonoro, molto meno grezzi rispetto al disco: la resa dei brani è eccellente, con gli stessi che si vestono di una tridimensionalità ed un’atmosfera inedita, mantenendo allo stesso tempo quell’aura depressiva tipica del primo Burzum.
Le canzoni, giocate su pochi e bellissimi riff ripetuti allo strenuo, disorientano e trasportano i presenti in uno stato di trance dal un mood ipnotico e desolante: un progetto che viaggia su binari in cui il pericolo noia è sempre dietro l’angolo, ma che viene scongiurato grazie ad una scrittura dei brani intelligente e ben dosata. Per chi scrive, uno dei momenti migliori dell’intero weekend.

Si sono fatte le sette e mezza e lo spazio sotto il palco principale è colmo di persone che attendono con curiosità il ritorno dei TIAMAT, una band dal futuro incerto e nebuloso e che manca da più di un decennio qua in Norvegia.
La paura di un flop clamoroso era nell’aria, vedendo anche lo stato precario di un Johan Edlund più vicino al Divino Otelma che non al frontman a cui eravamo abituati, ma gli svedesi ci mettono meno di un brano per fugare ogni dubbio sullo stato attuale delle cose: già dalle prime note di “In A Dream” assistiamo ad una band incredibilmente in palla, Johan compreso che, nonostante un attitudine surreale e a volte comica – ha passato buona parte del tempo ad abbracciare e baciare gli altri membri – dimostra una tenuta vocale assolutamente in linea con il resto dei suoi compagni.
Nonostante le voci di una scaletta prettamente focalizzata su “Clouds” e “Wildhoney”, i nostri si muovono anche su album più ‘recenti’ come “Prey”, da cui viene estratta la bellissima “Divide”, “Amanethes”, da cui spicca un’ottima “Equinox Of the Gods”, e “Judas Christ” con “Vote For Love”.
Il resto è pura gioia per le orecchie di chi ha amato la loro fase più psichedelica, con “Wildhoney” che risulterà il disco più rappresentato e dal quale vengono suonate le immortali “Whatever That Hurts”, “The Ar”, “Visionaire” e una “Gaia” totalmente apocalittica, posta in chiusura.
Edlund si dimostra a proprio agio sia nelle canzoni più melodiche che in quelle tratte da “Clouds”, in cui sfoggia un semi-growl più che convincente. “In a Dream, “Clouds” e “The Sleeping Beauty” vengono rese decisamente bene e, nonostante i siparietti a volte grotteschi tra il cantante e gli altri membri, l’atmosfera di quei dischi memorabili è lì, intatta.
Pericolo scampato e un applauso ai Tiamat per l’aver scongiurato un flop da molti annunciato.

Tiamat

La situazione al piano inferiore si fa cupa, in attesa degli SPECTRAL WOUND che tornano ad Oslo dopo due anni e mezzo dalla devastante serata al Blå.
Il gruppo del Quebec è senza dubbio una delle punte del black metal moderno, capace di svecchiare il suono (e l’immagine) della scuola più conservatrice senza per forza sfociare in un qualcosa di finto e costruito, come purtroppo avremmo occasione di assistere nella giornata di domani.
I cinque canadesi sono devastanti, il loro metal è denso e doloroso come uno schiaffo in pieno volto e il cantante è un frontman perfetto, nel suo trasmettere quel senso di urgenza e disagio.
La scaletta vede presenti quasi tutti i brani dell’ultimo “Songs Of Blood And Mire” e va a ritroso fino a “Infernal Decadence”, dalla quale viene proposte due spaventose versioni di “Woods From Which The Spirits Once So Loudly Howled” ed “Imperial Thanatosis”.
L’intensità di quest’ora scarsa è visibile sui volti dei presenti, che al termine del concerto accolgono l’uscita con un boato fragoroso. Se due indizi fanno una prova, è doveroso definire gli Spectral Wound come una delle realtà migliori del panorama black odierno.

Candelabri, una feretro nel mezzo, drappi e la presenza di un’iconografia religiosa di stampo ortodosso è il segnale che i BATUSHKA stanno per portare dal vivo il loro rituale.
Dopo aver finalmente messo ordine e chiarezza sull’infinita diatriba per la proprietà del nome, questa sera Krzysztof Drabikowski e compagnia teatrale a seguito danno vita ad uno spettacolo sicuramente affascinante, volutamente statico a livello visivo ma godibile, specialmente per chi non li ha mai visti.
Purtroppo i suoni non sono perfetti, con le chitarre che svaniscono a tratti, ma la potenza evocativa dei brani di “Litourgiya”, aiutati da un lavoro corale davvero potente, riesce a sopperire in parte ai problemi tecnici con un Rockefeller strapieno, a conferma della qualità di un debutto discografico che sembra esser, ancora oggi, inarrivabile.
Un live curato sotto l’aspetto visivo e nella scelta dei brani (che vedono anche qualche canzone dal buon “Panihida”), in parte però messo in ombra dalla performance di chi li ha appena preceduti.

Batushka

Arriva il momento per l’ultimo gruppo di oggi ad occupare il palco del John Dee: IN THE WOODS.
Lo storico gruppo norvegese vive una vera e propria seconda giovinezza da una decade a questa parte, da quel “Pure” del 2016 che li vide ritornare dopo oltre quindici anni e che rappresentò la dipartita dei fratelli Botteri; momento, quello, che coincise anche con un cambio di rotta, dal rock/metal avanguardistico dei primi tre album ad una musica progressiva, elegante e molto più vicina al doom classico.
Il live di questa sera è prevedibilmente focalizzato sul nuovissimo “Otra” dal quale vengono proposti i primi tre brani, mentre l’unico album rappresentato della trilogia degli anni novanta è il debutto “Heart Of Ages” con la title-track e la stupenda “…In The Woods”.
La band, nonostante una tenuta del palco un po’ anonima e statica, si dimostra tecnicamente perfetta e ogni brano viene suonato in maniera impeccabile: menzione speciale per il cantante Bernt Fjellestad, autore di una prova maiuscola mentre il pubblico rende tributo alla storia del gruppo di Kristiansand con un responso decisamente caldo.

…In The Woods

Alle undici e mezza precise la sala del Rockefeller è stracolma per quello che è uno degli headliner più attesi dell’intero festival dai molti presenti.
Per ABBATH questa è la terza volta come solista all’Inferno Festival – dopo la sciagurata apparizione del 2017, che lo vide lasciare il palco dopo mezz’ora senza motivo alcuno e quella, decisamente migliore, di due anni fa.
Questa sera l’ex Immortal tributerà la storia del duo di Bergen con un set di sole canzoni della loro lunga carriera, tralasciando totalmente (e fortunatamente) i tre dischi solisti. Sin dalle prime note dell’epica “Withstand The Fall Of Time” si intuisce che, sia lui che la band, sono in ottima forma, il che fa ben sperare per la successiva (quasi) ora e mezza.
Vengono suonate canzoni da ogni album fino a “All Shall Fall”, con addirittura “Nebular Ravens Winter” e “Mountains Of Might” da quel “Blizzard Beasts” troppo penalizzato da una produzione totalmente inadeguata, “Solarfall” e la devastante conclusiva “The Sun No Longer Rising”.
Abbath sul palco è esattamente come ce lo si aspetta, con tutte le sue movenze tipiche e quell’attitudine a non prendersi mai troppo sul serio; dopo la buona prova del Tons Of Rock dello scorso anno, Olve Eikemo pare essersi finalmente ripreso dai problemi di qualche anno fa.
Quello che manca, ora, è un album solista che renda giustizia alla sua storia artistica.

Abbath

Setlist Abbath:
Withstand The Fall Of Time
Sons Of Northern Darkness
All Shall Fall
Solarfall
One By One
Damned In Black
Years Of Silent Sorrow
Nebular Ravens Winter
Mountains Of Might
The Call Of The Wintermoon
Blashyrkh (Mighty Ravendark)
The Sun No Longer Rises

 

VENERDÌ 18 APRILE

Il venerdì santo ci accoglie con un sole primaverile che solo verso sera lascerà spazio ad una pioggia leggera, ad accompagnarci ad intermittenza fino alla fine del festival.
La nostra giornata inizia presto, quando alle tre di pomeriggio gli italiani NEL BUIO, band che vede tra le proprie fila membri di Blasphemer ed Electrocution, calcano il palco del Brewgata.
Il loro è un mix originale di black metal (e una spruzzata di death) sulla scia di band come Mgla, ma arricchito da mood darkwave e horror anni Ottanta, che ben rende dal vivo grazie anche a proiezioni video ad effetto. Nonostante il piccolo palco del Brewgata e le dimensioni ridotte del locale, i tre tirano fuori un live violento e d’atmosfera, rendendo piena giustizia ai brani dell’ottimo EP d’esordio; il responso caldo dei presenti è indice di quanto i Nel Buio siano un progetto da tenere d’occhio.

Nel Buio

Il tempo di fare due chiacchiere con Clod e compagni ed è tempo di muoverci verso il Rockefeller per i GAEREA, la prima band in scaletta nel locale.
A due anni dal loro debutto in quel di Oslo, si nota subito quanto i portoghesi siano cresciuti come popolarità, grazie agli sforzi di una label come la Season Of Mist, ad un black metal moderno – forse non originalissimo ma di sicuro impatto – e un’immagine teatrale e coerente con quello che richiede il mercato discografico attuale.
Ed è proprio quest’ultima ciò che fa storcere il naso in un progetto come loro: se dal lato musicale non si ha nulla da appuntare con brani aggressivi e d’atmosfera, tutto ciò che ruota attorno ha invece un odore di costruito e fin troppo ruffiano.
Se si aggiunge poi l’ingombrante presenza di un frontman, i cui movimenti volutamente esagerati e spesso fastidiosi sembrano in parte staccati da quello che dovrebbe esser un concept cupo e profondamente ispirato agli scritti di Thomas Ligotti, il senso di irritazione per quello che sembra più uno show del cantante che non un concerto di una band sale e non poco.
Una band bravissima, senza dubbio, che funziona perfettamente per quello che si chiede oggi ad un certo tipo di pubblico ma che trasmette poca genuinità.

Il primo gruppo ad aprile la giornata del John Dee sono invece i ROSA FAENSKAP, band di Oslo che si sta velocemente facendo strada tra il panorama estremo di casa, grazie anche ad un’immagine che va in direzione diametralmente opposta a quella metal classica (come l’uso del colore rosa e il cantante chitarrista che veste abiti femminili) ed un concept che si oppone a problemi attuali come omofobia, capitalismo, patriarcato e fascismi vari.
La musica del trio norvegese è un mix violento ed emozionale tra black metal, post-rock, noise rock ed elementi emocore e post-hardcore, con un risultato che vince su tutti i fronti.
Una presenza scenica minimale ma capace di trasmettere sempre urgenza, brani che passano da blast incontrollati a schegge quasi math, fino a momenti più soffusi fatti di arpeggi riverberati e vuoti pieno di tensione: i Rosa Faenskap questa sera riescono nel difficile intento di unire più generazioni e culture diverse (l’eterogeneità di pubblico sotto il palco è particolarmente evidente) con un concerto senza troppi orpelli estetici, ma con tanta concretezza e attitudine.

Rosa Faenskap

Saliamo verso il main stage e i due obelischi con strani simboli ai lati del palco ci ricordano che è ora dei BLOOD INCANTATION, una delle band più attese e chiacchierate della scena estrema. Si vedono pochi spazi liberi e tutti i presenti accolgono l’arrivo degli americani con un applauso enorme, giusto il tempo per capire che quello di questa sera sarà un set incentrato esclusivamente sul nuovo “Absolute Elsewhere”.
Sin dai primi momenti si intuisce che i suoni sono perfetti, elemento cruciale per poter carpire appieno ogni dettaglio di un lavoro così mutevole e complesso.
I volumi sono parecchio alti e la fluidità nel passare da passaggi ostici ed estremi ad altri puramente progressivi, vicini a band come Pink Floyd o King Crimson, è scioccante: è vero, i Blood Incantation non inventano nulla, anzi spesso si limitano a tributare le loro influenze principali, ma la facilità con cui mescolano generi diversi in un continuum musicale unico e coerente è segno di una band speciale, che davvero non ha eguali.
Senza sottovalutare il fatto che la resa sonora di due suite come “Stargate” e “The Message” dal vivo è cosa tutt’altro che semplice, bisogna applaudire dei musicisti che pestano come dei dannati nelle parti death metal ma dimostrano allo stesso tempo un’eleganza e una grande classe in quelle puramente progressive, in cui serve parecchia dinamica.
Non avevamo grossi dubbi, ma quello a cui abbiamo assistito rimane uno degli highlight del festival.

Blood Incantation

Ancora disorientati dal trip dei Blood Incantation ci dirigiamo velocemente al piano di sotto per i PONTE DEL DIAVOLO, la seconda band italiana delle tre che si esibiranno quest’anno. La loro originalità ha fatto in modo che il gruppo torinese abbia guadagnato in meno di un anno un seguito parecchio grosso (il coronamento di questa veloce ascesa sarà la doppia apparizione al Roadburn, a partire dalla giornata di domani).
Parlando dell’esibizione all’Inferno Festival, i Ponte Del Diavolo rispettano in pieno le aspettative, con un concerto affascinante, inquietante e una bravura sul palco che è risultato di un anno di tour senza pause. Bravissima la frontman Elena ‘Erba Del Diavolo’ a dirigere il tutto con le sue movenze lente ed ipnotiche, contraltare di una musica che mescola black metal, rock gotico, e post-punk.
“Demone” coi suoi rimandi ai Nerorgasmo, il doom di “Covenant” e la fumosa “Red As The Sex Of She Who Lives In Death” sono i momenti migliori di quella che è stata una delle migliori apparizioni di una band italiana in quel di Oslo dai tempi dei Mortuary Drape, ormai dieci anni or sono.

Ponte Del Diavolo

Continuiamo lontano dai suoni estremi con il ritorno dei KYLESA che trasformano il Rockefeller in un delirio di stoner, psichedelia e groove.
C’e poco da dire per un gruppo (reduce dal Roudburn) che ha fatto la storia del genere, se non una scelta di suoni un po’ troppo freddi, con delle chitarre parecchio taglienti a mitigare il mood desertico e caldo della loro musica. “Scapegoat”, “Unspoken” e “Running Red” restano i picchi di un concerto comunque solido e di grande concretezza.

Abbiamo il tempo di assistere a metà concerto dei NON EST DEUS, progetto originale di Noise dei più noti Kanonenfieber. Le coordinate sono simili, ma con una componente black metal un po’ più accentuata, unita ad un’immagine altrettanto teatrale ma con un appeal più ‘religioso’ (i componenti sono coperti da dei sai bianchi). Un concerto mediamente affascinante e compatto, anche se la musica non sembra distaccarsi troppo dagli standard di un black metal atmosferico abbastanza canonico.

Si continua questa volta sul palco del Rockefeller con i SEPTICFLESH, un’altra band che ha fatto della teatralità la propria fortuna.
Quella degli ellenici è una storia che si avvicina ai trentacinque anni e, pur non avendo mai raggiunto le vette di popolarità dei conterranei Rotting Christ, i nostri godono di uno zoccolo duro di fan che li ha sempre supportati durante questa lunga carriera: i numerosi presenti questa sera, del resto, non sono altro che la conferma di quell’eredità, forte di una musica originale, la cui platealità ben si pone nel contesto live.
Il loro è un metal estremo che mescola stacchi sinfonici, parti elettroniche e strutture semplici ma ben arrangiate, ingredienti perfetti per creare un concerto sicuramente coinvolgente. La bravura del bassista e cantante Spiros nell’interagire continuamente con i fan è uno dei punti di forza di un’ora abbondante che vede i suoi momenti migliori in “Martyr”, “Prometheus” e “Neuromancer”.
Non una delle band preferita da chi scrive ma assolutamente meritevoli di un plauso per la professionalità che dimostrano sempre e comunque.

Septicflesh

Si arriva lentamente al termine di questa seconda giornata con gli AETERNUS, che hanno la responsabilità di scaldare il pubblico in attesa degli headliner. I norvegesi dal vivo sono l’esatta immagine della loro musica: intensi, violenti ed epici, una sorta di Bathory filtrati dalla muscolarità del death metal.
Forti di una discografia compatta e senza grossi cali, Ares e soci propongono i momenti migliori della loro carriera, dalla pesantissima “Death’s Golden Truth Revealed” ad altre perle del periodo degli anni Novanta come “Raven And Blood”, “Sworn Revenge” e “There’s No Wine Like the Bloods Crimson”.
Altra grande prova di compattezza per un pezzo di storia estrema norvegese che non sembra perdere colpi.

La stanchezza comincia a farsi sentire e i 1349 come band di chiusura non aiutano certamente a rilassarsi.
Momentaneamente orfani di Frost, attualmente in tour con i Satyricon e sostituito da Kevin Kvåle, Ravn e compagni confezionano il loro ‘solito’ concerto fatto di volumi folli, fiamme e intransigenza nera.
Rispetto ai loro standard, dobbiamo constatare come i suoni risultino molto più bilanciati e puliti: questo aiuta ancor di più a constatare come i 1349 siano ormai una macchina ben oliata, micidiale e forse un po’ limitata al loro stile, anche se comunque questo si è fatto negli anni più vario e meno intransigente.
I brani del nuovo, non eccelso, “The Wolf And The King” prendono vita dal vivo e non sfigurano troppo accanto a classici come “Liberation”, “Chasing Dragons” o “I Am Abomination”.
La presenza sul palco di tutti i membri è maestosa: la cosa che non è mai cambiata in molti anni di carriera è come i norvegesi riescano a creare dal vivo un rituale infernale senza compromessi, claustrofobico e disturbante sia per gli occhi che per le orecchie. Una band che non delude quasi mai le aspettative in sede live e si dimostra una scelta perfetta per far calare il sipario su questa seconda giornata.
Siamo a metà del festival ma una veloce occhiata al programma dei prossimi due giorni ci ricorda che il bello deve ancora arrivare.

1349

 

SABATO 19 APRILE

Con un programma del primo pomeriggio alquanto affollato, riusciamo ad assistere a parte del concerto dei CREST OF DARKNESS nel piccolo locale del seminterrato dello Kniven, uno dei pub metal più famosi della capitale.
La location alquanto claustrofobica ben si presta per il black metal venato di death ed accenni avangarde dello storico gruppo norvegese, la cui esibizione riceve il plauso dai già numerosi fan accorsi nonostante un orario non proprio ottimale. Una band che si è evoluta parecchio musicalmente ma è stata al tempo stesso capace di mantenere dal vivo quell’appeal old-school e nostalgico lontano dalle mode attuali.

Riusciamo a vedere anche l’ultima manciata di brani dei nostri AASAR, che con il loro metal sinfonico con grosse influenze deathcore dimostrano la loro bravura al pubblico del Brewgata portando una ventata di modernità.

Alle quattro e mezza precise, i tendoni del Rockefeller si aprono e veniamo accolti dal lungo rituale esoterico di apertura degli storici COVEN. La loro presenza si collega direttamente a quella dello scorso anno di Arthur Brown, cercando di creare un fil rouge tra la musica estrema degli ultimi decenni con le avanguardie esoteriche e occulte degli anni Sessanta.
La carismatica Jinx Dawson è l’unica superstite della formazione originale, ma l’identità di quel suono psichedelico, morboso e sgraziato è più che mai presente.
Sentire dal vivo classici come “Black Sabbath”, “Wicked Woman”, “Choke, Thirst, Die” o “White Witch of Rose Hall” ha un sapore particolare e, sebbene musicalmente siamo lontanissimi dalla media dei generi di un festival come questo, l’atmosfera è assolutamente coerente e il tutto prende perfettamente senso.
La Dawson è una frontman scafata, non una cantante eccelsa ma perfettamente capace di mascherare i propri limiti con una presenza teatrale invidiabile e unica. In definitiva, uno show nostalgico, pittoresco ma perfettamente in linea con il mood di questi giorni.

I prossimi sulla nostra lista sono i CADAVER, storico gruppo death metal norvegese fresco di pubblicazione di una raccolta di brani inediti e risalenti ai primi anni di carriera.
I numerosi concerti recenti in quel di Oslo non sembrano influenzare la quantità di gente accorsa, che riempie completamente il pit (incluso un Frost in incognito, che assiste scapocciando per tutto il tempo) e accoglie Anders Oddene soci  in maniera calorosa. Da notare il ritorno – ormai da tempo a dire il vero – del bassista originale Eilert Solstad, la cui particolarità è quella di suonare un contrabbasso invece del classico basso elettrico: tale scelta rende il suono dei Cadaver incredibilmente originale, e il lavoro angolare e mai banale di riffing di Odden dona quel mood surreale e morboso tipico dei loro album.
Parecchi i brani proposti dal sottovalutato capolavoro “…In Pains”, tra cui spiccano la voivodiana “Bypassed”, “Blurred Visions” e una “Mr. Tumour Misery” dedicata allo scomparso Jan-Martin Jensen. Una “Decomposed Metal Skin” cantata da tutti i presenti anticipa “D.G.A.F” e “The Age Of Offended”, gli unici momenti del periodo recente, per un’ora di metal old-school, unico come solo i Cadaver sono in grado di proporre.

Il black metal islandese un po’ confuso e approssimativo dei ANGIST non ci impressiona più di tanto, per cui usiamo il tempo che rimane per trovare un posto sulla balconata per uno dei concerti più attesi di chi scrive.

La band più brutta del pianeta“: cosi si presentano gli AURA NOIR mentre le note di “Black Thrash Attack” rimbombano tra le mura del Rockefeller, suggerendo che quella che verrà sarà un’ora e un quarto di thrash nero, marcio e incredibilmente serrato, suonato con una precisione scioccante.
Come già visto durante il Beyond The Gates dello scorso anno, il combo di Oslo è una macchina perfettamente oliata, che vomita canzoni senza soluzione di continuità, con una veemenza, un’urgenza ed un groove come pochi.
Blasphemer e Aggressor macinano riff taglienti e neri, sorretti dal preciso lavoro ritmico di Apollyon e Kristian Valbo rendendo brani come “Conqueror”, “Condor” o “Unleash The Demons” armi perfette per scatenare il delirio sotto il palco.
Seppur con una discografia ferma al 2018, gli Aura Noir sono una band che non sembra perdere smalto e il nostro consiglio, se amate quel tipo di sound, è quello di vederli almeno una volta nella vita.

Scendiamo verso il palco del John Dee mentre le prime note degli ABYSSIC ci accolgono come una marcia funebre verso gli…abissi, appunto.
Il loro è un doom sinfonico ai limiti del funeral, estremamente evocativo e pesante, impreziosito dalla presenza, oltre al basso elettrico, di un contrabbasso che coi suoi bordoni riempie la sala di una presenza quasi fisica.
Tre dischi tutti di ottimo livello, pur senza strafare in termini di originalità, ed una formazione che vede gente non proprio sprovveduta (Tjodalv, ex Dimmu Borgir più membri di Old Man’s Child e Susperia) sono la chiave di un’ora di concerto affascinante, asfissiante e quasi ipnotica.

Stessa ora, stessa provenienza e una carriera altrettanto lunga, ed ecco un altra band greca atta a salire sul main stage, dopo i Septicflesh: i ROTTING CHRIST stanno vivendo un periodo estremamente felice, costruito grazie a una serie di album che hanno saputo mescolare black metal, influenze gotiche e una scrittura diretta che rende il tutto appetibile anche a chi certi suoni non li mastica tutti i giorni.
Pur assestatosi su una soglia di comfort da ormai quasi tre lustri, Sakis e soci vantano un seguito fedelissimo e non facciamo fatica a capirne il motivo: la loro musica nasce da una base diretta e semplice, ma arrangiata magistralmente per funzionare sia in studio che dal vivo.
Anche se non tutto è perfetto (la voce non rende come su disco e molti arrangiamenti vocali si perdono durante loro trasposizioni dal vivo), la musica dei Rotting Christ risulta sempre epica, evocativa, malvagia e accattivante.
La scaletta vede quasi tutti i brani migliori della loro discografia più recente e quando arrivano “666”, “Kata Ton Daimona Eaytoy”, “Elthe Kyrie”, le immancabili “Non Serviam” e “Societas Satanas” (cover dei Thou Art Lord) il delirio è palpabile. Si fatica a trovare uno spazio per muoversi e la conclusiva “Grandis Spiritus Diavolos” mette il sigillo su un concerto che, per numero dei presenti e responso, li rende di fatto co-headliner della serata.
Unico neo, la quasi totale assenza di canzoni dai classici “Thy Mighty Contract” e “Triarchy Of The Lost Lovers” (ma anche dal più ‘recente’ “Theogonia, per esempio), ma a questa cosa ci siamo ormai purtroppo abituati.

Prima dei veri e propri headliner dobbiamo dividerci e provare ad assistere ad entrambe le esibizioni dei SETH e soprattutto dei Negative Plane. I francesi saranno l’ultimo gruppo a suonare al John Dee, e una manciata di brani fa capire che tutto ciò che di buono è stato fatto su disco sa esser trasposto alla perfezione su palco: i suoni ottimi rendono giustizia al mix di black metal e orchestrazioni sinfoniche, mentre una scenografia minimale ma d’effetto, con teste impalate sparse dappertutto e un look da rivoluzione francese in linea col concept dell’ultimo, bellissimo, “La France Des Maudits”, è solo la ciliegina sulla torta per un’ottima esibizione, senza troppi fronzoli ma terribilmente efficace.

Bastano due minuti a piedi per raggiungere il Goldie, un locale simile ad un night club, per vedere gli americani NEGATIVE PLANE, una delle chicche del festival, non essendo una band molto attiva in sede live.
La musica dei newyorkesi è un black metal imbastardito da influenze thrash e di metal classico alla Mercyful Fate, con brani lunghi e strutture cangianti. L’attitudine diretta e mai troppo raffinata dei loro dischi è perfettamente traslata dal vivo, e durante brani come “A Work to Stand a Thousand Years”, la inquietante “Unhallowed Ground”, o la sorprendente cover di “Fallen Angel” dei Bulldozer veniamo trasportati tra la nebbia e l’umidità di un cimitero notturno.
Un gruppo di culto che, insieme ai Mortuary Drape tiene alta la bandiera di un modo di suonare black metal vecchia scuola, inimitabile e sempre disturbante.

L’edizione 2025 di questo Inferno Festival è di fatto una delle tappe dell’ Unholy Trinity tour con Rotting Christ, Behemoth e Satyricon. Questi ultimi saranno gli headliner delle giornate di Sabato e Domenica, con i SATYRICON a chiudere invece il cartellone del sabato.
Tornati a pieno ritmo dopo un periodo di pausa, Satyr e Frost sono affiancati dal fido Steinar Gundersen (dei mei dimenticati Spiral Architects), Attila Vörös (ex Nevermore) ma perdono Frank Bello, sostituito da Phil Pieters Smith. Per chi scrive questo è il quarto concerto dei norvegesi nel giro di dodici mesi e si può considerare senza grossi dubbi il migliore, subito davanti alla doppia serata di agosto al Beyond The Gates dello scorso anno.
Scambiando due parole con Frost qualche ora prima, avevamo avuto la conferma che quello di questa sera sarebbe stato un concerto diverso da quelli dell’Unholy Trinity Tour: vedremo infatti una scaletta molto più estesa e che ripercorrerà ogni singolo album lunga tutta l’ora e mezza di show, più una grossa sorpresa.
La prima parte è tutta dedicata ai Satyricon più recenti, con la band che spara in sequenza “Now, Diabolical”, “Rapined Bastard Nation”, “Black Crow On A Tombstone” e “Deep Calleth Upon Deep”, per poi prendersi un minuto di pausa in attesa della prima sorpresa della serata.
La storica intro di “Walk The Path Of Sorrow”, rubata da “Death In The Blue Lake” dei When (storico progetto industrial/sperimentale norvegese) viene accolta con un boato grandissimo, e quando il brano esplode nella sua totalità il delirio tra i presenti è già ai massimi livelli. Ma non finisce qui: arrivano in serie “Du Som Hater Gud”, “Hvite Krists Død” con “Filthgrinder” a chiudere il cerchio.

Si viene ammaliati dalle epiche “Black Wings and Withering Gloom” e “To The Mountains” dedicata a Jan-Martin Jensen, ma quello che succede da qui a breve rimarrà nella memoria dei presenti: quando Sivert Høyem, cantante dei Madrugada, si presenta sul palco tutti capiscono che è il momento di “Phoenix”, tratta dall’omonimo lavoro del 2013.
Il brano rimane un unicum meraviglioso nella discografia di Satyr e Frost e sentirlo cantato dalla voce originale è un emozione non da poco, nonché un evento decisamente raro. La prestazione di Høyem è, manco a dirlo, perfetta e rappresenta il picco della serata.
A chiudere una versione devastante dell’inno “Mother North” e della ‘hit’ “K.I.N.G.” a sigillare un live enorme e senza un singolo calo, che tributa i trentacinque anni di storia di una delle band più amate della scena norvegese. Ormai l’immagine ‘trve’ della band sul palco è un lontano ricordo, ma l’anima nera di certe canzoni sovrasta sempre qualsiasi critica su presunte velleità commerciali.
È quasi l’una, e una leggera pioggia ci accompagna fino a casa, in attesa di una giornata pasquale che si prospetta altrettanto intensa.

Setlist Satyricon:
Now, Diabolical
Repined Bastard Nation
Black Crow On A Tombstone
Deep Calleth Upon Deep
Walk the Path Of Sorrow
Du Som Hater Gud
Hvite Krists død
Rhapsody In Filth
Filthgrinder
Black Wings And Withering Gloom
The Pentagram Burns
To The Mountains
Phoenix (feat. Sivert Høyem)
Mother North
K.I.N.G.

DOMENICA 20 APRILE

La domenica pasquale inizia con due gruppi entrambi provenienti dalla Danimarca.
I LAMENTARI salgano sul palco alle quattro e mezza precisi per presentare dal vivo il loro debutto “Ex Umbra in Lucem”, uscito lo scorso anno. La musica dei ragazzi di Copenhagen è un mix tra death e black con una grande componente sinfonica, sulla scia di band come Carach Angren e i Dimmu Borgir più teatrali. Un’ora scarsa suonata con una buona intensità e una bravura tecnica ineccepibile, il classico look fatto di corpsepaint e orpelli di scena come tuniche e cappucci – non troppo originali a dire il vero – che scorre in fretta pur senza grosse sorprese di sorta.

Decisamente più interessanti invece i giovani THUS, band di Aarhus che propone un death metal abbastanza tecnico e progressivo, a metà tra il suono europeo e quello nordamericano e sulla linea delle miglior band a cavallo tra gli Ottanta e i Novanta. Suoni definiti e una grande tecnica sono l’ingrediente per uno dei concerti più divertenti dell’intero weekend con i danesi che, pur con solo un EP all’attivo, riempiono la mezz’ora abbondante con un’attitudine vincente e canzoni di gran livello. Una realtà da tenere assolutamente d’occhio, specialmente per chi rimpiange ancora un gruppo come i Morbus Chron.

Salendo verso il Rockefeller sembra tutto pronto per l’arrivo degli SCHAMMASCH e del loro black metal dai forti connotati atmosferici e rituali, imbastardito da generi come ambient e dark rock. L’impatto visivo degli svizzeri è sicuramente d’effetto e la loro bravura è ineccepibile, così come la capacità di creare uno show dalle tempistiche beh precise e senza momenti di stanca.
Al netto, forse, di una freddezza eccessiva in alcuni momenti, l’ora è ben giocata su canzoni pesanti e cupe come la lunga e maestosa “They Have Found Their Master” o l’evocativa “Metanoia”, alternate alle bellissime “A Paradigm Of Beauty” o “Chimerical Hope”.
Una band unica, che riesce a mettere in musica le sue tematiche complesse estremamente profonde e non ha problemi a riproporre su palco quell’immagine austera e spesso impenetrabile che da sempre è il proprio marchio di fabbrica.

Abbiamo il tempo di goderci una manciata di brani dello show dei norvegesi NATTVERD, i quali vedono tra le proprie fila ex membri di Gehenna, Nordjevel, Sarkom e Urgheal: black metal di stampo scandinavo senza grosse pretese e sulla linea di Nordjevel e compagnia varia, che però funziona parecchio bene e ha il tiro giusto.

Per i NAGLFAR, prossimi a salire sul main stage, vale lo stesso discorso fatto per i Necrophobic: una band storica con una lunga carriera alle spalle, con all’attivo un debutto stellare e un secondo album meraviglioso, ormai assestata su di una zona di comfort dalla quale non sembra volersi allontanare.
Una discografia senza grossi cali e una resa live ineccepibile sono gli ingredienti per un concerto prevedibilmente godibile, che vede la sola “Blades” a rappresentare il primo periodo, preferendo focalizzarsi su brani più diretti e violenti come “Pale Horse”, “The Darkest Road” o “Odium Generis Humanis”.
È un vero peccato che gli svedesi non vogliano proporre dal vivo il materiale di “Vittra” e “Diabolical”, ma in fin dei conti quello a cui assistiamo è comunque un’ora abbondante di black metal melodico e ben suonato.

Quando si tratta di black metal finlandese, si è quasi sempre sicuri che la band in questione sia affiliata ai nomi più famosi e storici della scena: i BYTHOS, che calcano il palco del John Dee verso le otto e mezza, non fanno eccezione essendo di fatto formati da due terzi dei Behexen e un terzo degli Horna.
Il loro è un black metal dalle caratteristiche classicamente finniche, che non si lascia quasi mai andare a velocità sfrenate, rimanendo sempre su tempi medio-lenti accompagnati chitarre estremamente curate e depressive, capaci di creare un’atmosfera triste in alcuni punti vicina ai primi Katatonia.
Un concerto, per chi scrive, stupendo e molto evocativo, in grado di mostrare un lato del black metal meno intransigente ma non per quello meno affascinante. Menzione particolare per la prestazione del frontman Hoath Torog, autore di una prova maiuscola tra growl, scream e parti corali di scuola Attila Csihar.

Dal metal ragionato dei Bythos passiamo a quello senza compromessi degli TSJUDER, già pronti per quella che sarà un’ora e un quarto senza respiro, come già ci era capitato di assistere al Midgardsblot di due anni fa.
La prima metà di set è tutta incentrata sul loro materiale e i tre vomitano senza mezza pausa classici come “Possesed”, “Kill For Satan”, “Mouth Of Madness” insieme alle recenti ma non meno ferali “Gods Of Black Blood” e “Prestehammeren”. Il loro è un black metal senza fronzoli, semplice ed annichilente figlio della scuola più classica e l’impatto live è simile a quello degli Aura Noir, tanta è l’intensità e l’urgenza con cui si susseguono i vari brani.
Come accadde cinque anni fa, proprio sullo stesso palco, i nostri utilizzeranno metà del loro tempo a disposizione per proporre il loro personale tributo ai Bathory chiamando sul palco Frederick Melander, il bassista della primissima formazione del gruppo di Quorthon.
Sei le canzoni suonate, tutte tratte dal primo infernale trittico degli svedesi, tra cui segnaliamo le immortali “Born For Burning”, “Woman Of Dark Desire” e “Raise The Dead”, per un tributo sincero ad uno dei musicisti più influenti di sempre e senza il quale, forse, un festival come questo non sarebbe mai esistito.

Scendiamo per l’ultima volta verso il John Dee e veniamo accolti da un’atmosfera fatta di fumo e oscurità quasi totale, tra la quale spuntano quattro flebili luci rosse.
È il momento dei CELESTE che hanno il non facile compito di suonare subito prima della band di chiusura, ma lo svolgono egregiamente.
Al netto di una musica a volte troppo monolitica tanto che, specialmente per chi non conosce bene la loro discografia, tutti i brani tendono alla fine a suonare molto simili, i francesi restano comunque una sicurezza: precisi e quadrati come le migliori band moderne, ma feroci e dolorosi come chiede la scuola più classica, travolgono i presenti con brani claustrofobici e taglienti come un coltello piantano alla gola, aiutati da un palco piccolo e compatto che rende il tutto ancora più delirante.

Ancora frastornati dai Celeste si sono fatte le undici e venti e solo dieci minuti ci dividono dall’ultimo gruppo in scaletta: i BEHEMOTH.
A meno di un anno di distanza dalla presenza al Beyond The Gates in quel di Bergen, il circo guidato da Nergal e compagnia sbarca nuovamente ad Oslo come ospite per l’Inferno festival ad esattamente dieci anni dalla prima esibizione, portando in scena il loro spettacolo dall’indiscutibile potenza musicale e visiva.
Al netto delle critiche che puntualmente arrivano dalle frange più conservative (per quanto abbia ancora senso, ad oggi, parlare di conservatorismo, in un genere che sempre più frequentemente si vede flirtare con il mainstream) ad ogni loro ritorno, i Behemoth sono una delle poche band che raramente falliscono dal vivo: questa sera non fa eccezione, e l’ora e mezza a loro disposizione viene utilizzata nel migliore dei modi, creando uno show che si evolve come un’esibizione teatrale in più atti.

Pacchiano? Forse. Egocentrico? Probabile. Che indossi un enorme (ed esteticamente discutibile) cappello da papa o semplicemente un mantello fatto di pelle e borchie, ciò per cui Nergal non è minimamente attaccabile è la sua capacità di comunicazione col pubblico: tempistiche dosate alla perfezione, tra show pirotecnici e momenti di intrattenimento, e una prova tecnica a livello musicale sempre di alto livello, fanno in modo che il risultato sia uno dei concerti metal a più alto tasso professionale, che piaccia o no.
Tra i tanti classici come “Chant For Eschaton 2000”, “Demigod” e una “Cursed Angel Of Doom” davvero ferale, le nuove “The Shit Ov God”, “Lvciferaeon” e “The Shadow Elite” non sembrano sfigurare affatto, facendo ben sperare per il nuovo album in uscita qualche settimana dopo il festival.
Immancabili, dal capolavoro “The Satanist”, “Ora Pro Nobis Lucifer” e “Blow Your Trumpets Gabriel” ma è l’enorme “O Father O Satan O Sun!” a mettere degnamente la parola fine a questa edizione del festival che è stata tra senza dubbio le più riuscite del post-Covid.

Behemoth

Setlist Behemoth:
The Shadow Elite
Ora Pro Nobis Lucifer
Demigod
The Shit Ov God
Conquer All
Blow Your Trumpets Gabriel
Ov Fire And The Void
Lvciferaeon
Bartzabel
Wolves Ov Siberia
Once Upon A Pale Horse
Christians To The Lions
Cursed Angel Of Doom
Chant For Eschaton 2000
O Father O Satan O Sun!

I futuri organizzatori avranno un compito non facile nel mantenere il livello questa efficienza e le scelte artistiche sempre a fuoco frutto dell’immenso lavoro di Jan-Martin Jensen, ma siamo sicuri che l’eredità di quella che è diventata un istituzione del metal estremo verrà rispettata in pieno.

Dedicato a Jan-Martin Jensen (1963-2025)

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